"Chi è disposto a rinunciare alle proprie libertà fondamentali per guadagnarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza" (B. Franklin)
L'Isis e noi: il partito della morte e le gioie della vita quotidiana
di Simon Schama
Se, dopo la
carneficina di Parigi, deve esserci una guerra, facciamo in modo che prima di
ogni altra cosa sia una guerra di idee, combattuta con le uniche armi che
ancora non sono state utilizzate: i principi della dignità sociale; le norme
sulle quali si basa la nostra vita di tutti i giorni, il più delle volte non
messe alla prova, non enunciate, non adoperate mentre cerchiamo di mandare
avanti le nostre occupazioni quotidiane per guadagnarci da vivere, per tirare
su una famiglia, per dedicarci un po' all'arte qui e per praticare un po' di
sport lì, e un po' di musica, un po' di buon cibo, un po' d'amore.
Fino a
venerdì scorso ho sempre pensato alla “ricerca della felicità” come a
un'anomalia tra le lampanti verità contenute nella Dichiarazione americana di
Indipendenza; a una sorta di sentimento da biglietto augurale di Hallmark di
Thomas Jefferson accanto ai più importanti toccasana della “vita” e della
“libertà”. Ma gli “obbiettivi meticolosamente selezionati” dai militanti
islamisti dell'IS sono stati proprio i luoghi nei quali andiamo a ricercare la
nostra piccola dose di piacere nel weekend: lo stadio, la sala concerti, i bar,
le strade come quelle nei dintorni del Canale St. Martin, dove la gente
passeggia e si siede, scherza, spettegola, e flirta. Sono questi i luoghi nei
quali gli amici provano l'esuberante piacere della compagnia altrui, nei quali
estranei – spesso di lingue, paesi, opinioni diverse – si scambiano sguardi e
fanno due chiacchiere avendo qualcosa di diverso in mente da un massacro.
All'improvviso
questi luoghi, bollati dagli sterminatori del piacere dell'IS come luoghi di
“prostituzione e vizio”, sembrano qualcosa di più importante di meri ritrovi
per intrattenersi in maniera del tutto casuale. Sembrano invece il nucleo
stesso dell'innocenza urbana, emblemi di quell'apertura che gli sterminatori
della gioia vogliono trasformare in cimitero, nel quale la socievolezza venga
sottoposta ai controlli della polizia della moralità. L'IS vorrebbe vederli
trasformati in luoghi nei quali alla spontaneità subentri la tirannia
costituita nella sua roccaforte siriana di Raqqa, luogo di dissonante silenzio,
paura, tortura, e stupro. Vorrebbe crearvi un posto nel quale divertente e
istruttiva sia la convocazione a un'esecuzione pubblica; un paesaggio di fosse
comuni come quelle scoperte dopo la liberazione della città irachena di Sinjar
a opera dei curdi. Tra gli aspetti più tremendi delle atrocità di venerdì c'è
la giovane età, di cui si è riferito, degli sterminatori: giovani uomini che
con le loro consuete urla da deficienti invocano una legittimità divina per la
loro barbarie, e che impongono morte ai loro stessi coetanei.
Dopo l'11
settembre credetti che rifiutarmi di essere messo a tacere sarebbe stata la
vendetta migliore. Dopo la strage di quest'anno [nella redazione di] Charlie
Hebdo, ho sperato che i vignettisti satirici della rivista non avrebbero perso
il loro tocco per la scandalosa irriverenza. C'è da sperare che la gentilezza
degli estranei non sia spazzata via dal terrore.
Infatti,
anche nel bel mezzo della sanguinaria carneficina, ci sono stati potenti
segnali di comune dignità: la squadra francese di calcio si è rifiutata di
lasciare sola la squadra tedesca avversaria quando questa non è riuscita a
tornare in albergo, minacciata come era dalle bombe; l'hashtag #portesouvertes
si è diffuso immediatamente su Twitter per accogliere in casa chiunque non
fosse in grado di fare ritorno in un luogo sicuro.
Ma gli
istinti di simpatia e di solidarietà umana non bastano per farci lasciare alle
spalle il massacro. Quello di cui hanno bisogno adesso i nostri concittadini è
una dichiarazione chiara, potente, ispirante di che cosa è esattamente ciò che
dobbiamo difendere, se necessario, fino alle estreme conseguenze. Questo
dovrebbe comparire nell'agenda del G-20, il summit di questa settimana delle nazioni
più importanti, non le oscillazioni del ciclo economico.
Quali sono
questi principi? Proprio quelli gelosamente racchiusi nelle parole di coloro
che per primi pronunciarono gli imperativi della libertà di espressione: la
tolleranza religiosa; il diritto alla pace civile; la resistenza alla tirannia
e alla teocrazia. Sono parte integranti a tutti gli effetti delle immortali
dichiarazioni di Jefferson, John Milton e John Locke, ma anche Montesquieu,
Voltaire, Condorcet, Emmanuel Levinas. Dovrebbero essere scritti sui nostri
vessilli di battaglia, adesso che sappiamo che non possono essere dati per
scontati e che sono ciò per cui siamo disposti a combattere.
Primo, la
separazione tra religione e potere dello stato.
Secondo, il
diritto degli individui di fede diversa o senza fede di condividere il medesimo
spazio vitale, senza oppressioni e senza intimidazioni.
Terzo, il
diritto di espressione e di stampa, purché non si istighi alla violenza.
Quarto, il diritto all'uguaglianza dei sessi, di qualsiasi orientamento sessuale, in tutte le questioni attinenti alla legge, all'istruzione e all'occupazione.
Quarto, il diritto all'uguaglianza dei sessi, di qualsiasi orientamento sessuale, in tutte le questioni attinenti alla legge, all'istruzione e all'occupazione.
Quinto, il
diritto di tutti i membri di una medesima società civile, a patto di
sottoscrivere questi principi fondamentali, di votare, di ricevere
un'istruzione, di avere un posto di lavoro, e di esprimersi a prescindere dalla
propria origine etnica e dalla propria confessione religiosa.
Questi sono
tutti principi esecrabili per il nostro nemico, il partito della morte. E
contro di esso noi dovremmo proclamare questi valori con una nuova comune
dichiarazione di vita, libertà e ricerca della felicità.
Traduzione
di Anna Bissanti
Saggista e
storico dell'arte britannica, Simon Schama insegna alla Columbia University ed
è uno dei più prestigiosi collaboratori del Financial Times. È noto soprattutto
per la serie “A History of Britain”, documentario di grande successo scritto
per la BBC.
Copyright The Financial Times Limited 2015
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