Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)
mercoledì 4 novembre 2009
martedì 3 novembre 2009
Bisogno di eroi
http://www.reset-italia.net/2009/10/31/mahmud-vahidnia-il-video-della-sera/
http://www.diariodelweb.it/Articolo/Mondo/?d=20091031&id=110957
domenica 1 novembre 2009
D'Alesconi, la perfetta coppia di regime?
Non meraviglia quindi che dall' Italia si esprima per quella carica (piuttosto che ad es. una figura come E. Bonino) un D'Alema, del quale già tutti i giornali riconducibili al centrodestra hanno cominciato a tessere lodi... Berlusconi-D'Alema è, oggi, la coppia chepuò incarnare alla perfezione il regime italiano. Appunto.
domenica 4 ottobre 2009
domenica 27 settembre 2009
Lo vedi, ecco Marino!
http://www.ignaziomarino.it/
http://www.ignaziomarino.it/programma/
http://www.partitodemocratico.it
Con l'auspicio che Bersani possa presto tornare a fare il ministro liberalizzatore delle Attività produttive. Perché anche di questo ci sarebbe proprio bisogno.
domenica 20 settembre 2009
Oggi è il XX Settembre
http://boicotto.blogspot.com/2008/09/oggi-il-xx-settembre.html
http://www.bergamoliberale.org/attualita/Dossier/XXsettembre/XXsettembre.htm
http://www.anticlericale.net/
Per la libertà della religione dalla politica,
per la libertà della politica dalla religione.
mercoledì 2 settembre 2009
lunedì 31 agosto 2009
martedì 14 luglio 2009
Oggi si sciopera
domenica 12 luglio 2009
Marchette politiche e politiche marchettare
martedì 12 maggio 2009
Semiliberi

Freedom House, è bene ricordarlo, è una autorevolissima organizzazione autonoma ed indipendente (fondata nientemeno che da Eleanor Roosvelt) che dal 1980 valuta lo stato di libertà di 195 nazioni, e vedere l’Italia ormai in 73a posizione non può non far pensare.
Le motivazioni alla base di questo declassamento sono quelle ampiamente dibattute: le leggi che limitano la libertà di parola e di informazione, gli attacchi continui ai pochi giornalisti che fanno il loro mestiere e realizzano inchieste che dispiacciono al potere, le pressioni sui tribunali, l’eccessiva concentrazione della proprietà dei media nelle mani di un soggetto unico, peraltro Capo del Governo. Freedom House pone sotto osservazione anche la vituperata legge Gasparri, che secondo l’organizzazione americana favorisce espressamente il gruppo Mediaset (strano a dirsi...).
A dire il vero, non è la prima volta che l’eccessiva concentrazione di televisioni e giornali in mano a Berlusconi finisce sotto l’analisi di Freedom House. Già nel 2005 l’Italia era stata declassata a paese parzialmente libero (partly free), tornando libero (in 61ma posizione) solo quando il proprietario di Mediaset perse le elezioni. Nel rapporto si leggeva che “anche se l'informazione privata resta concentrata nelle mani di Mediaset, controllata da Berlusconi, la principale emittente pubblica Rai non è più sotto il suo controllo”. Adesso si ritorna ad una posizione di classifica ancora più bassa, e per gli stessi motivi di sempre, aggravati. Freedom House prende anche in considerazione gli altri (pochi) media autonomi da Mediaset (come La7 ormai in crisi), ma questi hanno un peso quasi del tutto irrilevante in un panorama informativo pesantemente dominato e condizionato dal mono-duopolio Mediaset e Rai, di fatto controllate dal premier direttamente o indirettamente, e da pochi giornali "la cui sopravvivenza é comunque legata strettamente alle enormi sovvenzioni pubbliche elargite dal governo". Inoltre, fattore spesso sottovalutato ma assolutamente decisivo, il settore della pubblicità, da cui deriva un supporto indispensabile alla vita dei media, è praticamente in regime di monopolio o quasi. Ma tant'è- Siamo semiliberi, e lo siamo soprattutto dal punto di vista della libertà di stampa.
http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5ib8nNzQ2C5OKM6oOMcNuF0YRqWXg
martedì 24 marzo 2009
Cartoonists

Le considerazioni del Papa erano state riportate acriticamente da quasi tutti i media italiani, senza alcun commento. Il portavoce del ministero degli Esteri francese, Eric Chevallier, ha detto: “La Francia esprime fortissima preoccupazione davanti alle conseguenze di queste frasi di Benedetto XVI. Se non spetta a noi dare un giudizio sulla dottrina della Chiesa riteniamo che frasi del genere mettano in pericolo le politiche di sanità pubblica e gli imperativi di protezione della vita umana”. I ministri della Salute e della Cooperazione economica e sviluppo della Repubblica federale tedesca, Ulla Schmidt e Heidemarie Wieczorek-Zeul, hanno aggiunto in un comunicato che “i preservativi giocano un ruolo decisivo” nella lotta all’Aids. “I preservativi salvano la vita, tanto in Europa quanto in altri continenti - è scritto nel documento - una moderna cooperazione allo sviluppo deve dare ai poveri l’accesso ai mezzi di pianificazione familiare e tra questi rientra in particolare anche l’impiego dei preservativi; tutto il resto sarebbe irresponsabile”. Ma parole di dissenso nei confronti del pontefice sono venute anche da ambienti religiosi. Il vescovo ausiliario di Amburgo, Hans Jochen Jaschke, ha sostenuto in un articolo per il settimanale Die Zeit: “Chi ha l’Aids, è sessualmente attivo e cerca partner differenti deve proteggere gli altri e se stesso. I preservativi possono proteggere, anche se spesso gli uomini li rifiutano”. Critiche dalle Ong britanniche. Secondo l’associazione di beneficenza cristiana Christian Aid, le parole del papa rischiano di seminare “confusione in Africa, nei Paesi dove la Chiesa cattolica ha un’influenza importante”. “Le parole del Papa mandano un messaggio che crea confusione in un luogo come l’Africa, dove la Chiesa cattolica è molto importante. La nostra posizione - continuava l’associazione - è che l’astinenza è una parte importante nell’insieme delle misure, ma che non è l’unico modo per combattere la diffusione del virus dell’Hiv”. Dello stesso parere Mohga Kamal-Yanni, esperta di Hiv e Aids dell’organizzazione di beneficenza Oxfam, una delle più grandi al mondo: “La disponibilità dei preservativi per combattere l’Hiv è assolutamente cruciale” ha detto la Kamal-Yanni all’agenzia francese, aggiungendo: “Se vogliamo evitare nuovi casi di infezione tra i giovani, dobbiamo aumentare la diffusione dei preservativi”.
Sempre ieri il prestigioso quotidiano francese ‘Le Monde’ ha pubblicato (in prima pagina) una vignetta del disegnatore satirico Plantuun nella quale un Cristo fa il miracolo della “moltiplicazione dei preservativi”, distribuendone a piene mani, e sorridendo, a una popolazione di africani in attesa. Sulla stessa barca, dietro l’immagine di Gesù, c’è un rassegnato Benedetto XVI che commenta: “buffonate!”. Ancora più dietro, un monsignor Williamson negazionista a tutti i costi anche dell’Aids oltre che delle camere a gas: “…e poi l’Aids non è mai esistito”. Il giornale francese ha inoltre dedicato un editoriale all’argomento nel quale si legge: “Nessuno ha mai preteso che il preservativo fosse là soluzione per lottare contro l’Aids. Ma affermare che aggrava la pandemia è gravissimo e irresponsabile”. Continua Le Monde: “Il suo predecessore Giovanni Paolo II non si era mai spinto così in là”. Queste affermazioni, ha insistito il quotidiano che ha ricordato la politica del Vaticano fin dall’apparizione della malattia, “sono una fuga davanti alla realtà, mentre la schiacciante maggioranza delle organizzazioni umanitarie, comprese quelle cattoliche, che lottano contro l’Aids fanno del preservativo uno degli strumenti privilegiati della prevenzione. Le frasi del papa minano il loro lavoro”. “Lungi dal far evolvere la posizione della Chiesa - conclude l’editoriale - il papa la irrigidisce. Questo episodio illustra uno spirito di chiusura che un legittimo attaccamento ai dogmi e alla parola della Chiesa non giustifica. Arriva dopo la revoca della scomunica dei vescovi integralisti e la condanna in Brasile - con l’appoggio del Vaticano - della madre di una bambina che ha abortito dopo essere stata stuprata ed essere stata in pericolo di vita. Cresce, in tanti fedeli di tutto il mondo, l’incomprensione”.
Sempre in Francia moltissime personalità hanno voluto esprimere il proprio dissenso. Per l’ex primo ministro e rappresentante della destra, Alain Juppè, “questo Papa comincia a rappresentare un vero problema”, perchè secondo il politico conservatore vive “in una situazione di totale autismo”. Per Marie-George Buffet, segretario del Partito comunista francese, le esternazioni di Ratzinger sono “irresponsabili» e «criminali”. Per Daniel Cohn-Bendit, ex leader del ‘68 ed oggi europarlamentare verde, “di questo Papa se ne ha abbastanza” e le sue idee sui preservativi sono “quasi da omicidio premeditato”. Il professor Michel Kazatchkine, direttore esecutivo del fondo mondiale di lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria, ha chiesto “al Papa di ritirare le sue affermazioni” che ritiene “inaccettabili”.
La levata di scudi contro Benedetto XVI che ha investito mezza Europa è passata come un soffio di brezza in Italia, dove nessuno sembra voler assumere una posizione chiara nei confronti dell’argomento. Il fatto è di particolare gravità perchè l’Aids è una malattia epidemica pericolosissima e nel nostro Paese, anche per l’azione del Vaticano, l’informazione scarseggia.
Ma l’atteggiamento del Vaticano in questi ultimi anni sembra sempre più distante dai pensieri e dalle reali condizioni di vita dei cittadini, oltre che dalla realtà (come affermato da Alain Juppè). Dal caso Englaro al rapporto con la ricerca scientifica, dagli studi sulle cellule staminali ai test prenatali. Le convinzioni religiose non sono in discussione, ma quando diventano un pericolo per la collettività, come è nel caso delle esternazioni del pontefice sull’uso dei profilattici, è compito delle istituzioni e dei media informare correttamente l’opinione pubblica. Senza dimenticare che in democrazia (se c’è) nessuno deve pretendersi al di fuori dal diritto di critica, neppure il papa.

venerdì 20 febbraio 2009
PDL, ovvero partito della libertà sempre più... vigilata
lunedì 16 febbraio 2009
Come in Iran?
Enigma e paradosso sono il marchio del potere della Chiesa in Italia. Un potere a volte pesante, a volte impalpabile, alternativamente gridato e silenzioso, evidente e nascosto. Capace di mobilitare e al tempo stesso privo di consenso maggioritario. Ma quel che conta: un potere che c´è.
di E. Scalfari - La Repubblica, 15 febbraio 2009
domenica 1 febbraio 2009
tre letture



venerdì 23 gennaio 2009
Good beginning
• da America Oggi del 21 gennaio 2009, pag. 1
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La parola più usata dal presidente Barack Obama nel suo discorso inaugurale è stata “nation”. Il termine non è stato usato in modo “esclusivistico”, “noi” diversi dagli “altri”, “noi” contro gli “altri”. La “nation” usata da Obama ha un senso “inclusivo”, della rinnovata unione di individui liberi, “we the people”, così diversi nel credo o nelle razze ma di nuovo uniti nel proposito di rendere più forte l’America e farla restare una guida per il mondo.
Quando all’estero si guarda agli Usa come alla “grande potenza”, si pensa solo alla forza economica, tecnologica, militare. America “number one”, solo se ancora più ricca e più forte militarmente degli altri. Il declino della potenza americana si tratterebbe di un argomento scientifico, le grandi potenze nascono, crescono e muoiono. E’ stato sempre così, l’America si rassegni...
Ma l’arrivo alla Casa Bianca del figlio di un africano “che solo 60 anni fa non sarebbe stato servito in un ristorante di Washington”, segnala ancora una volta che il futuro della potenza americana non si può calcolare solo con freddi dati statistici. “What it’s happening here today is not about me but about the American people”. Il neo presidente Barack Obama ha detto dopo il suo discorso sulla scalinata del Campidoglio, durante un pranzo dentro il Congresso. Come per sottolineare che il significato più importante della sua presidenza, è la capacità di rinnovamento dell’America nello spirito della nazione creata poco più di due secoli fa. Una nazione democratica, con il governo del popolo, dal popolo, per il popolo. Quando ha giurato Obama ha messo la mano sulla bibbia usata da Lincoln, il presidente che a Gettysburg disse: “That this nation, under God, shall have a new birth of freedom—and that government of the people, by the people, for the people, shall not perish from the earth”.
Lo ha ricordato ieri ancora Obama, che l’America sarà ancora la nazione guida del mondo non per la forza della sua economia, o la potenza delle sue armi, o l’intelligenza dei suoi leader, ma per il potere di rinnovamento della sua democrazia che, dopo i gravi scossoni degli anni passati, ha dimostrato invece di essere ancora viva e forte.
Il giuramente di Obama arriva sicuramente in tempi difficilissimi, ma “at these moments, America has carried on not simply because of the skill or vision of those in high office, but because We the People have remained faithful to the ideals of our forbearers, and true to our founding documents”.
Così ciò che può far declinare l’America sarà solo la perdita di “confidence”, di fiducia, nel suo popolo. Ma il declino per Obama non ci sarà, perché il popolo resta l’artifice del destino della nazione. “Time and again these men and women struggled and sacrificed and worked till their hands were raw so that we might live a better life. They saw America as bigger than the sum of our individual ambitions; greater than all the differences of birth or wealth or faction… This is the journey we continue today. We remain the most prosperous, powerful nation on Earth. Our workers are no less productive than when this crisis began. Our minds are no less inventive, our goods and services no less needed than they were last week or last month or last year. Our capacity remains undiminished… All this we can do. All this we will do”.
Ed eccolo quindi il ritorno al governo del popolo per il popolo. “The question we ask today is not whether our government is too big or too small, but whether it works, whether it helps families find jobs at a decent wage, care they can afford, a retirement that is dignified… The success of our economy has always depended not just on the size of our gross domestic product, but on the reach of our prosperity; on the ability to extend opportunity to every willing heart -- not out of charity, but because it is the surest route to our common good”.
L’America sarà ancora potente non solo per i suoi dati statistici, ma per i suoi ideali e i suoi valori, che il suo popolo difenderà: “As for our common defense, we reject as false the choice between our safety and our ideals. Our founding fathers faced with perils that we can scarcely imagine, drafted a charter to assure the rule of law and the rights of man, a charter expanded by the blood of generations. Those ideals still light the world, and we will not give them up for expedience's sake…. And yet, at this moment, a moment that will define a generation, it is precisely this spirit that must inhabit us all. For as much as government can do and must do, it is ultimately the faith and determination of the American people upon which this nation relies…”.
E infine l’America di Obama non imporrà i suoi valori agli altri popoli, ma sicuramente sarà lì nuovamente ad essere ispirazione per tutti: “America is a friend of each nation and every man, woman and child who seeks a future of peace and dignity, and we are ready to lead once more….”
Obama ha chiuso il suo discorso, ricordando al mondo che la forza del popolo americano la si ritrova proprio nelle origini della nazione:
“At a moment when the outcome of our revolution was most in doubt, the father of our nation ordered these words be read to the people: "Let it be told to the future world that in the depth of winter, when nothing but hope and virtue could survive, that the city and the country, alarmed at one common danger, came forth to meet it." America, in the face of our common dangers, in this winter of our hardship, let us remember these timeless words; with hope and virtue, let us brave once more the icy currents, and endure what storms may come; let it be said by our children's children that when we were tested we refused to let this journey end, that we did not turn back nor did we falter; and with eyes fixed on the horizon and God's grace upon us, we carried forth that great gift of freedom and delivered it safely to future generations.”
Professionisti del terrore e della tirannide (Hamas) e democrazie belligeranti (Israele)
• da Corriere della Sera del 22 gennaio 2009, pag. 1
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«Andatevene, andatevene via di qui! Volete che gli israeliani ci uccidano tutti? Volete veder morire sotto le bombe i nostri bambini? Portate via le vostre armi e i missili», gridavano in tanti tra gli abitanti della striscia di Gaza ai miliziani di Hamas e ai loro alleati della Jihad islamica. I più coraggiosi si erano organizzati e avevano sbarrato le porte di accesso ai loro cortili, inchiodato assi a quelle dei palazzi, bloccato in fretta e furia le scale per i tetti più alti. Ma per lo più la guerriglia non dava ascolto a nessuno. «Traditori. Collaborazionisti di Israele. Spie di Fatah, codardi. I soldati della guerra santa vi puniranno. E in ogni caso morirete tutti, come noi. Combattendo gli ebrei sionisti siamo tutti destinati al paradiso, non siete contenti di morire assieme?». E così, urlando furiosi, abbattevano porte e finestre, si nascondevano ai piani alti, negli orti, usavano le ambulanze, si barricavano vicino a ospedali, scuole, edifici dell’Onu.
In casi estremi sparavano contro chi cercava di bloccare loro la strada per salvare le proprie famiglie, oppure picchiavano selvaggiamente. «I miliziani di Hamas cercavano a bella posta di provocare gli israeliani. Erano spesso ragazzini, 16 o 17 anni, armati di mitra. Non potevano fare nulla contro tank e jet. Sapevano di essere molto più deboli. Ma volevano che sparassero sulle nostre case per accusarli poi di crimini di guerra», sostiene Abu Issa, 42 anni, abitante nel quartiere di Tel Awa. «Praticamente tutti i palazzi più alti di Gaza che sono stato colpiti dalle bombe israeliane, come lo Dogmoush, Andalous, Jawarah, Siussi e tanti altri avevano sul tetto le rampe lanciarazzi, oppure punti di osservazione di Hamas. Li avevano messi anche vicino al grande deposito Onu poi andato in fiamme E lo stesso vale per i villaggi lungo la linea di frontiera poi più devastati dalla furia folle e punitiva dei sionisti», le fa eco la cugina, Um Abdallah, 48 anni. Usano i soprannomi di famiglia. Ma forniscono dettagli ben circostanziati. E’ stato difficile raccogliere queste testimonianze. In generale qui trionfa la paura di Hamas e imperano i tabù ideologici alimentati da un secolo di guerre con il «nemico sionista».
Chi racconta una versione diversa dalla narrativa imposta dalla «muhamawa» (la resistenza) è automaticamente un «amil», un collaborazionista e rischia la vita. Aiuta però il recente scontro fratricida tra Hamas e Olp. Se Israele o l’Egitto avessero permesso ai giornalisti stranieri di entrare subito sarebbe stato più facile. Quelli locali sono spesso minacciati da Hamas. «Non è un fatto nuovo, in Medio Oriente tra le società arabe manca la tradizione culturale dei diritti umani. Avveniva sotto il regime di Arafat che la stampa venisse perseguitata e censurata. Con Hamas è anche peggio», sostiene Eyad Sarraj, noto psichiatra di Gaza city. E c’è un altro dato che sta emergendo sempre più evidente visitando cliniche, ospedali e le famiglie delle vittime del fuoco israeliano. In verità il loro numero appare molto più basso dei quasi 1.300 morti, oltre a circa 5.000 feriti, riportati dagli uomini di Hamas e ripetuti da ufficiali Onu e della Croce Rossa locale. «I morti potrebbero essere non più di 500 o 600. Per lo più ragazzi tra i 17 e 23 anni reclutati tra le fila di Hamas che li ha mandati letteralmente al massacro», ci dice un medico dell’ospedale Shifah che non vuole assolutamente essere citato, è a rischio la sua vita. Un dato però confermato anche dai giornalisti locali: «Lo abbiamo già segnalato ai capi di Hamas. Perché insistono nel gonfiare le cifre delle vittime? Strano tra l’altro che le organizzazioni non governative, anche occidentali, le riportino senza verifica. Alla fine la verità potrebbe venire a galla. E potrebbe essere come a Jenin nel 2002. Inizialmente si parlò di 1.500 morti. Poi venne fuori che erano solo 54, di cui almeno 45 guerriglieri caduti combattendo».
Come si è giunti a queste cifre? «Prendiano il caso del massacro della famiglia Al Samoun del quartiere di Zeitun. Quando le bombe hanno colpito le loro abitazioni hanno riportato che avevano avuto 31 morti. E così sono stati registrati dagli ufficiali del ministero della Sanità controllato da Hamas. Ma poi, quando i corpi sono stati effettivamente recuperati, la somma totale è raddoppiata a 62 e così sono passati al computo dei bilanci totali», spiega Masoda Al Samoun di 24 anni. E aggiunge un dettaglio interessante: «A confondere le acque ci si erano messe anche le squadre speciali israeliane. I loro uomini erano travestiti da guerriglieri di Hamas, con tanto di bandana verde legata in fronte con la scritta consueta: non c’è altro Dio oltre Allah e Maometto è il suo Profeta. Si intrufolavano nei vicoli per creare caos. A noi è capitato di gridare loro di andarsene, temevamo le rappresaglie. Più tardi abbiamo capito che erano israeliani». E’ sufficiente visitare qualche ospedale per capire che i conti non tornano. Molti letti sono liberi all’Ospedale Europeo di Rafah, uno di quelli che pure dovrebbe essere più coinvolto nelle vittime della «guerra dei tunnel» israeliana. Lo stesso vale per il “Nasser” di Khan Yunis. Solo 5 letti dei 150 dell’Ospedale privato Al-Amal sono occupati. A Gaza city è stato evacuato lo Wafa, costruito con le donazioni «caritative islamiche» di Arabia Saudita, Qatar e altri Paesi del Golfo, e bombardato da Israele e fine dicembre. L’istituto è noto per essere una roccaforte di Hamas, qui vennero ricoverati i suoi combattenti feriti nella guerra civile con Fatah nel 2007. Gli altri stavano invece allo Al Quds, a sua volta bombardato la seconda metà settimana di gennaio.
Dice di questo fatto Magah al Rachmah, 25 anni, abitante a poche decine di metri dai quattro grandi palazzi del complesso sanitario oggi seriamente danneggiato. «Gli uomini di Hamas si erano rifugiati soprattutto nel palazzo che ospita gli uffici amministrativi dello Al Quds. Usavano le ambulanze e avevano costretto ambulanzieri e infermieri a togliersi le uniformi con i simboli dei paramedici, così potevano confondersi meglio e sfuggire ai cecchini israeliani». Tutto ciò ha ridotto di parecchio il numero di letti disponibili tra gli istituti sanitari di Gaza. Pure, lo Shifah, il più grande ospedale della città, resta ben lontano dal registrare il tutto esaurito. Sembra fossero invece densamente occupati i suoi sotterranei. «Hamas vi aveva nascosto le celle d’emergenza e la stanza degli interrogatori per i prigionieri di Fatah e del fronte della sinistra laica che erano stato evacuati dalla prigione bombardata di Saraja», dicono i militanti del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. E’ stata una guerra nella guerra questa tra Fatah e Hamas. Le organizzazioni umanitarie locali, per lo più controllate dall’Olp, raccontano di «decine di esecuzioni, casi di tortura, rapimenti nelle ultime tre settimane» perpetrati da Hamas. Uno dei casi più noti è quello di Achmad Shakhura, 47 anni, abitante di Khan Yunis e fratello di Khaled, braccio destro di Mohammad Dahlan (ex capo dei servizi di sicurezza di Yasser Arafat oggi in esilio) che è stato rapito per ordine del capo della polizia segreta locale di Hamas, Abu Abdallah Al Kidra, quindi torturato, gli sarebbe stato strappato l’occhio sinistro, e infine sarebbe stato ucciso il 15 gennaio
Qualcosa di laico
di Roberto Saviano
Beppino Englaro, il papà di Eluana, sta dando forza e senso alle istituzioni italiane e alla possibilità che un cittadino del nostro Paese, nonostante tutto, possa ancora sperare nelle leggi e nella giustizia. Ciò credo debba essere evidente anche per chi non accetta di voler sospendere uno stato vegetativo permanente e ritiene che ogni forma di vita, anche la più inerte, debba essere tutelata. Mi sono chiesto perché Beppino Englaro, come qualcuno del resto gli aveva suggerito, non avesse ritenuto opportuno risolvere tutto "all'italiana". Molti negli ospedali sussurrano: "Perché farne una battaglia simbolica? La portava in Olanda e tutto si risolveva". Altri ancora consigliavano il solito metodo silenzioso, due carte da cento euro a un'infermiera esperta e tutto si risolveva subito e in silenzio. Come nel film "Le invasioni barbariche", dove un professore canadese ormai malato terminale e in preda a feroci dolori si raccoglie con amici e familiari in una casa su un lago e grazie al sostegno economico del figlio e a una brava infermiera pratica clandestinamente l'eutanasia. Mi chiedo perché e con quale spirito accetta tutto questo clamore. Perché non prende esempio da chi silenziosamente emigra alla ricerca della felicità, sempre che le proprie finanze glielo permettano. Alla ricerca di tecniche di fecondazione in Italia proibite o alla ricerca di una fine dignitosa. Con l'amara consapevolezza che oramai non si emigra dall'Italia solo per trovare lavoro, ma anche per nascere e per morire. Nella vicenda Englaro ritornano sotto veste nuova quelle formule lontane e polverose che ci ripetevano all'università durante le lezioni di filosofia. Il principio kantiano: "Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale" si fa carne e sudore. E forse solo in questa circostanza riesci a spiegarti la storia di Socrate e capisci solo ora dopo averla ascoltata migliaia di volte perché ha bevuto la cicuta e non è scappato. Tutto questo ritorna attuale e risulta evidente che quel voler restare, quella via di fuga ignorata, anzi aborrita è molto più di una campagna a favore di una singola morte dignitosa, è una battaglia in difesa della vita di tutti. E per questo Beppino, nonostante il suo dramma privato, ha dovuto subire l'accusa di essere un padre che vuole togliere acqua e cibo alla propria figlia, contro coloro che dileggiano la Suprema Corte e contro chi minaccia sanzioni e ritorsioni per le Regioni che accettino di accogliere la sua causa, nel pieno rispetto di una sentenza della Corte di cassazione. L'unica risposta che ho trovato a questa domanda, la più plausibile, è che la lotta quotidiana di Beppino Englaro non sia solo per Eluana, sua figlia, ma anche e soprattutto in difesa del Diritto, perché è chiaro che la vita del Diritto è diritto alla vita. Beppino Englaro con la sua battaglia sta aprendo una nuova strada, sta dimostrando che in Italia si può e si deve restare utilizzando gli strumenti che la democrazia mette a disposizione. In Italia non esiste nulla di più rivoluzionario della certezza del Diritto. E mi viene in mente che tutelare la certezza dei diritti, la certezza dei crediti, costituirebbe la stangata definitiva all'economia criminale. Se fosse possibile, nella mia terra, rivolgersi a un tribunale per veder riconosciuto, in un tempo congruo, la fondatezza del proprio diritto, non si avvertirebbe certo il bisogno di ricorrere a soluzioni altre. Beppino questo sta dimostrando al Paese. Non sarebbe necessario ricorrere al potere di dissuasione delle organizzazioni criminali, che al Sud hanno il monopolio, illegale, nel fruttuoso business del recupero crediti. E a lui il merito di aver insegnato a questo Paese che è ancora possibile rivolgersi alle istituzioni e alla magistratura per vedere affermati i propri diritti in un momento di profonda e tangibile sfiducia. E nonostante tutte le traversie burocratiche, è lì a dimostrare che nel diritto deve esistere la possibilità di trovare una soluzione. Per una volta in Italia la coscienza e il diritto non emigrano. Per una volta non si va via per ottenere qualcosa, o soltanto per chiederla. Per una volta non si cerca altrove di essere ascoltati, qualsiasi cittadino italiano, comunque la pensi non può non considerare Beppino Englaro un uomo che sta restituendo al nostro Paese quella dignità che spesso noi stessi gli togliamo. Immagino che Beppino Englaro, guardando la sua Eluana, sappia che il dolore di sua figlia è il dolore di ogni singolo individuo che lotta per l'affermazione dei propri diritti. Se avesse agito in silenzio, trovando scorciatoie a lui sarebbe rimasto forse solo il suo dolore. Rivolgendosi al diritto, combattendo all'interno delle istituzioni e con le istituzioni, chiedendo che la sentenza della Suprema Corte sia rispettata, ha fatto sì, invece, che il dolore per una figlia in coma da 17 anni, smettesse di essere un dolore privato e diventasse anche il mio, il nostro, dolore. Ha fatto riscoprire una delle meraviglie dimenticate del principio democratico, l'empatia. Quando il dolore di uno è il dolore di tutti. E così il diritto di uno diviene il diritto di tutti.