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martedì 1 maggio 2018
Metodo putiniano /la fabbrica dei troll
Dentro la “fabbrica di troll” russi
Quella con sede a San
Pietroburgo, che impiegò centinaia di troll per diffondere bufale e
condizionare la campagna elettorale americana del 2016 e non solo
Un post della pagina Facebook “Army of Jesus” creata dai troll russi
durante la campagna elettorale americana del 2016 0
Qualche anno fa a San Pietroburgo, in Russia, aprì
l’Internet Research Agency, più nota come “fabbrica di troll”, che secondo un’indagine del
dipartimento della Giustizia statunitense interferì nella campagna
elettorale statunitense del 2016.
Formata inizialmente da circa 25 impiegati, l’Internet
Research Agency nacque con lo scopo di usare Internet, in particolare i social
network, per creare e diffondere notizie false. Prima si occupò della guerra in
Ucraina e della propaganda in Russia, poi con l’inizio della campagna
elettorale americana cominciò a operare per minare la fiducia nel sistema
democratico ed elettorale statunitense, alimentare le divisioni tra gruppi
ideologici e appoggiare la candidatura a presidente di Donald Trump, a discapito
di quella di Hillary Clinton. Secondo le accuse di molta stampa occidentale e
del sistema giudiziario statunitense, l’operazione della “fabbrica di troll” di
San Pietroburgo, costata milioni di dollari, fu avviata da Yevgeny Prigozhin,
chiamato “lo chef del Cremlino” e con legami con il presidente russo Vladimir
Putin, e raggiunse risultati a suo modo notevoli.
Negli ultimi giorni sono venuti fuori nuovi dettagli
sul funzionamento della “fabbrica di troll” di San Pietroburgo: sia per un
documento di 37 pagine presentato dal procuratore speciale statunitense Robert
Mueller, a capo dell’indagine sulle presunte interferenze russe nella campagna
elettorale americana del 2016, sia per le testimonianze di ex impiegati della
fabbrica riportate da alcuni importanti giornali americani.
Le indagini di Mueller e le inchieste giornalistiche
hanno mostrato come il lavoro della “fabbrica di troll” non si fermasse mai:
gli impiegati – poche decine all’inizio, diverse centinaia poi – lavoravano
giorno e notte per creare account di Twitter e Facebook con i quali far
circolare notizie false e per organizzare eventi e manifestazioni dovunque
fosse utile e possibile. All’interno della fabbrica c’erano diverse sezioni:
per esempio c’era quella dei troll dedicati al pubblico russo e quelli che
invece lavoravano in inglese, per entrare in contatto direttamente con gli
elettori americani.
Aleksei, uno dei primi 25 troll assunti dall’Internet
Research Agency, ha
raccontato al New York Times che il suo primo incarico fu scrivere
un documento sulla “Dottrina Dulles”, cioè su una teoria cospirazionista molto
nota in Russia secondo la quale negli anni Cinquanta l’allora direttore della
CIA, Allen Dulles, avrebbe cercato di distruggere l’Unione Sovietica
corrompendo i suoi valori morali e le sue tradizioni culturali. Aleksei,
affidato al dipartimento che si rivolgeva ai russi, ha detto che a tutti i
nuovi impiegati veniva chiesto di creare tre account su Live Journal, una nota e popolare
piattaforma dove viene caricato un po’ di tutto, da usare poi per diffondere
materiale e informazioni false, soprattutto sulla guerra in Siria, su quella in
Ucraina orientale, sulla politica russa e sul presunto ruolo degli Stati Uniti
nella diffusione del virus ebola (una delle tante teorie cospirazioniste che
circolano sugli Stati Uniti, e che sono false). Dopo che veniva pubblicato un
contenuto, ha raccontato Aleksei, quel post veniva ripreso dalla miriade di
account falsi creati soprattutto su Facebook e faceva decine di migliaia di
visualizzazioni.
Secondo Marat Mindiyarov, ex troll sentito
dal Washington Post, lavorare nella fabbrica di San Pietroburgo era
come stare dentro al libro 1984 di George Orwell, «un posto dove
devi scrivere che il bianco è nero e che il nero è bianco». Mindiyarov ha
raccontato per esempio che ai tempi del crollo del valore
del rublo, la moneta russa, le indicazioni erano di raccontare «quanto la
vita fosse fantastica, quanto forte fosse il rublo, questo tipo di assurdità».
I turni di lavoro erano di 12 ore, dalle 9 di mattina alle 9 di sera: «Arrivavi
e passavi tutto il giorno in una stanza con le tapparelle chiuse e 20 computer.
C’erano diverse stanze su quattro piani. Era come una catena di montaggio,
tutti erano impegnati, tutti stavano sempre scrivendo qualcosa. Avevi la sensazione
di andare in fabbrica, non in un posto creativo». Mindiyarov ha raccontato
anche che a un certo punto gli fu proposto di andare a lavorare nella sezione
che si occupava della propaganda per gli americani: lui accettò di provare –
avrebbero pagato il doppio – ma non superò l’esame preliminare previsto, perché
non aveva una conoscenza perfetta dell’inglese: ed era importante che nessuno
si accorgesse che era uno straniero, gli dissero.
Per influenzare la campagna elettorale americana,
l’Internet Research Agency adoperava soprattutto tre strumenti: account falsi
sui social media, organizzazione di manifestazioni reali e promozione di
pubblicità online con contenuti politici. Gli account – come per esempio
“Tennessee GOP”, ancora
parzialmente reperibile – si occupavano dei temi più caldi della campagna
elettorale, tra cui immigrazione, Islam e diritti dei neri. Una delle cittadine
russe accusate dall’indagine guidata da Mueller, Irina Viktorina Kaverzina,
scrisse una email a un suo familiare dicendogli: «Ho creato tutte queste
fotografie e post, e gli americani hanno creduto che fossero scritti dalla loro
gente».
Alcuni di questi account, poi, promuovevano
manifestazioni e proteste organizzate dalla stessa fabbrica di troll sotto
falso nome. Il New
York Times ha individuato almeno 8 manifestazioni pianificate e promosse
dall’Internet Research Agency tra il giugno e il novembre 2016: a New York,
Washington, Charlotte, ma anche in alcune città della Florida e della
Pennsylvania. In diverse occasioni queste manifestazioni furono organizzate in
coordinamento con lo staff della campagna elettorale di Trump: non ci sono
prove però che i collaboratori di Trump sapessero a chi appartenevano veramente
questi account.
La reazione degli impiegati della fabbrica dei troll,
dopo averci lavorato per uno o più anni, non fu uguale per tutti. Alcuni, come
Aleksei sentito dal New York Times e Mindiyarov sentito dal Washington
Post, decisero di dimettersi perché non sopportavano più quello che
facevano. Altri invece no. È il caso di Sergei – un altro ex troll russo che ha
parlato con il New York Times – che ha raccontato che lavorando nella
fabbrica è diventato «più patriottico». Ha detto di avere capito quanto la
Russia sia costretta a combattere ogni giorno con le potenze straniere,
soprattutto con gli Stati Uniti, per ottenere il controllo delle risorse
naturali. «Ho cominciato a essere cosciente delle ragioni dei problemi del
mondo. Ora credo che il male sia l’élite che controlla il sistema della Federal
Reserve [la banca centrale americana] negli Stati Uniti», ha detto Sergei, che
ha aggiunto di essere diventato un uomo nuovo e di avere cambiato idea su
moltissimi fatti del mondo.
Una persona falsa, letteralmente
Jenna Abrams aveva
70mila follower su Twitter, era popolare e veniva citata dai grandi giornali
americani: solo che se l'erano inventata i russi
Dal 2014 un profilo di Twitter, uno di Medium, un sito
e un account di posta di Gmail sono stati creati da dipendenti del governo
russo per costruire una persona finta, una giovane donna americana, che
partecipasse online al dibattito politico degli Stati Uniti, contribuendo a
influenzarlo. È una delle cose scoperte durante le indagini della commissione
intelligence della Camera statunitense, che sta indagando sulle interferenze
della Russia nella scorsa campagna elettorale: il suo profilo Twitter è citato in
un elenco di account fasulli diffuso dalla commissione. Questa “donna”
era talmente credibile ed efficace nei suoi messaggi, e diventò così popolare
online, che moltissimi siti autorevoli tra cui quelli del New York Times
e di BBC l’hanno citata in articoli su diversi argomenti, dalle
ascelle non depilate ai selfie senza vestiti di Kim Kardashian, dal “manspreading”
ai missili balistici. The Daily Beastha
ricostruito la sua storia e il modo in cui i suoi messaggi sono stati
ripresi online.
Il nome di questa persona inventata era Jenna Abrams.
Ora i suoi account sono stati chiusi. La sua esistenza e il suo successo negli
ultimi anni mostrano il livello di sofisticazione a cui sono arrivati i
“creatori di troll” usati dal governo russo per influenzare la politica
statunitense. Il suo profilo è uno dei 2.752 che sono stati chiusi perché
Twitter ha scoperto che erano gestiti da un’organizzazione legata al governo
russo, così come 36mila bot creati per
ritwittare automaticamente contenuti propagandistici.
Un tweet del profilo Jenna Abrams ripreso con altri
due dal sito di BBC in un suo articolo sulla depilazione delle ascelle del
2015: il tweet non esprimeva un’opinione controversa, diceva semplicemente che
la depilazione è una pratica igienica (BBC)
Le indagini fatte negli ultimi anni sui profili come
quello di Abrams hanno svelato che vengono creati da cosiddette “fabbriche di
troll”, la più famosa delle quali è nota come “Internet Research Agency” e in
passato veniva chiamata “Glavset”. Nei fatti queste “fabbriche” sono degli
uffici in cui persone che conoscono bene l’inglese seguono la politica e
l’attualità americane e quando succede qualcosa di cui tutti parlano – ad
esempio un attentato – si mettono a scrivere dei post usando diversi profili
sui social network, allo scopo di influenzare il dibattito. A questi profili
corrispondono persone inventate: in alcuni casi non è impossibile intuirlo, in
altri, come quello di Jenna Abrams, è impossibile per gli altri utenti dei
social network. Poi i bot, creati sempre dalle “fabbriche di troll”,
contribuiscono a diffondere i messaggi di questi profili fasulli.
Non tutte le “fabbriche di troll” si occupano degli
Stati Uniti: la giornalista russa Ludmila Savchuk ha lavorato per due mesi
sotto copertura in una di queste dedicata ai social network russi e ha
raccontato al New York Times come funzionano.
Sia i bot che i profili di troll creati in Russia
possono essere identificati da chi gestisce i social network andando a vedere
da dove sono stati messi online. Twitter non ha spiegato con precisione come
siano stati identificati i profili come quello di Jenna Abrams durante la relativa
udienza alla commissione intelligence della Camera, in cui è stato
semplicemente detto che sono stati analizzati uno a uno dopo essere stati
«identificati come legati all’Internet Research Agency grazie a informazioni
ricevute da fonti terze».
Il profilo Twitter di Abrams aveva circa 70mila
follower e inizialmente non pubblicava messaggi su temi molto controversi, né
contenuti associabili a un troll, ma plausibili opinioni di una giovane donna
americana che dice quello che pensa e pensa cose sensate, e che lo dice
abbastanza bene da essere ritwittata e citata dagli articoli di costume. Per
esempio un suo tweet fu incluso in un articolo del Telegraph intitolato “I
15 tweet più divertenti di questa settimana”; un sito per ragazze ha
dedicato un intero
articolo a un suo tweet di critica a Kim Kardashian. Il tipo di messaggi
diffusi dal profilo sono cambiati una volta che il numero dei suoi follower era
cresciuto e allo stesso tempo si avvicinavano le elezioni presidenziali negli
Stati Uniti. Pur avendo scritto nella sua biografia «Calmatevi, non sono
pro-Trump. Sono solo pro-buon senso», il profilo cominciò a pubblicare tweet in
favore di Donald Trump, sull’immigrazione o sulla segregazione razziale. L’ex
consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn ritwittò un suo tweet
almeno una volta.
The Daily Beast dice che il tweet più
virale di Jenna Abrams in questo filone pro-Trump era stato quello
pubblicato lo scorso aprile, quando negli Stati Uniti si discuteva già dei monumenti
sudisti:
«Alle persone che odiano la bandiera confederata. Lo
sapevate che la bandiera e la guerra non riguardavano la schiavitù, ma solo i
soldi?».
A questo tweet hanno risposto in moltissimi, tra cui
giornalisti, storici e persone famose, per smentirne il contenuto. Il
conduttore radiofonico afroamericano Al Letson continua ad avere come tweet
fissato la sua risposta a quel tweet: «È molto facile dire che la Guerra Civile
riguardava il denaro quando i tuoi antenati non erano la valuta di scambio». La
risposta dello storico Kevin Kruse – «No, la Guerra Civile riguardava la
schiavitù. Cordialmente, gli storici» – è stata ritwittata 41mila volte. Molte
altre persone, soprattutto con idee di estrema destra, nel frattempo
ritwittavano il messaggio di Abrams e se la prendevano con chi lo criticava.
Oltre al tweet sulla Guerra Civile, Jenna Abrams era
anche l’autrice di un post su Medium intitolato “Perché dobbiamo tornare alla
segregazione razziale” (è stato cancellato ma si può vedere qui)
e di un’immagine di olive nere e verdi che prendeva in giro il movimento Black
Lives Matter e che fu ripresa
da CNN. Persone autorevoli come Michael McFaul, l’ex
ambasciatore degli Stati Uniti in Russia ed esperto di propaganda russa, hanno
litigato più volte con il profilo di Jenna Abrams e anche un “vero” troll
americano come l’utente Ironghazi
– che non vuole che si conosca la sua vera identità ma ha parlato con The
Daily Beast – l’aveva scambiato per il profilo di una persona reale quando
l’aveva presa in giro per il suo tweet sulla Guerra Civile. Ironghazi pensava
che Abrams fosse vera per il modo in cui mescolava cose a volte divertenti,
spesso stupide e quasi sempre arrabbiate.
L’elenco dei siti che secondo la ricostruzione di The
Daily Beast hanno dato spazio ai messaggi del profilo di Jenna Abrams è
molto lungo: ci sono siti legati al governo russo come Russia Today e Sputnik
e siti di estrema destra come Breitbart, ma anche molti siti di
pubblicazioni affidabili, tra cui USA Today, Sky News,
il Washington Post, Quartz, il Times of India, BuzzFeed
e il New York Times. Secondo The Daily Beast: «La diffusione
capillare di Abrams nei siti di news americani mostra quanto sia grande
l’impatto della “fabbrica di troll” della Russia nel dibattito americano
durante la campagna elettorale del 2016 – e fa capire come gli argomenti della Russia
siano potuti filtrare nei media di massa americani senza che un singolo dollaro
fosse speso in pubblicità».
Cosa succede quando i troll filorussi prendono di mira qualcuno
Una
giornalista finlandese da due anni riceve minacce e intimidazioni per avere
indagato sui loro rapporti con Putin
Jessikka Aro ha 35 anni, è una giornalista della televisione
pubblica finlandese Yle Kioski
e dal 2014 riceve ogni giorno minacce e insulti su Internet da un agguerrito
gruppo di troll
che sostengono il governo russo. È stata accusata di essere un’informatrice
della NATO, di avercela con la Russia e la sua popolazione, di avere
spacciato droga: contro di lei sono state organizzate campagne molto dure online,
sostenute da utenti quasi sempre anonimi e che si sospetta siano finanziati o
per lo meno incentivati dal governo russo. La sua storia è stata raccontata dal
New York Times, con
un articolo in prima
pagina su quello che è stato definito “l’esercito dei troll della Russia”.
Quando un paio di anni fa chiese agli spettatori del suo
programma di raccontare le loro esperienze con i troll filorussi, Aro non
immaginava che la sua vita sarebbe “diventata un inferno”, come ha
raccontato al New York
Times. Le cose peggiorarono ulteriormente nel 2015, quando Aro andò
a San Pietroburgo per scoprire meglio come si organizza uno di questi gruppi di
troll. Raccontò che in un grande ufficio poche persone creavano account falsi
di ogni tipo sui social network, pubblicando commenti a favore della Russia sui
siti di news, soprattutto su quelli in cui si parla della guerra in
Ucraina. Alcuni attivisti filorussi si riunirono davanti alla sede di Yle a Helsinki per protestare
contro Aro, accusando la stessa tv pubblica di essere un’organizzazione di
troll.
Campagne sui social network molto agguerrite, talvolta con
violenze verbali, sono frequenti e riguardano i temi più disparati: ma negli
ultimi anni quelle a favore del governo russo sono diventate preponderanti,
soprattutto in Europa. La stessa NATO e l’Unione Europea hanno riconosciuto il problema
e incaricato diversi gruppi di lavoro di tenere sotto controllo i troll,
collaborando con social network e altri servizi online per identificare gli
account più molesti e se necessario farli sospendere. Dato che
confinano con la Russia, e hanno a che fare con le ambizioni di Putin di
espandere la sua area di controllo, i finlandesi sono diventati tra i
principali obiettivi di queste campagne portate avanti dai troll
filorussi.
La Finlandia non fa parte della NATO, ma dopo la guerra in
Ucraina e le conseguenti pressioni sugli stati baltici ha iniziato ad
avvicinarsi all’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti, offrendo maggiore
collaborazione. Tra le possibilità valutate e discusse c’è anche un ingresso
della Finlandia nella NATO: la questione è molto dibattuta nel paese, con
l’opinione pubblica divisa tra chi vuole mantenere maggiore autonomia e chi si
sentirebbe più al sicuro sotto le tutele della NATO. I troll filorussi
attaccano chi è favorevole a un avvicinamento della Finlandia alla NATO: la loro
strategia è rispondere sui social network a chi dice cose contro la Russia,
diffondere informazioni spesso diffamatorie sulla loro reputazione, costruire
storie false intorno ad attivisti e associazioni con centinaia di commenti sui
siti di informazione e creando confusione.
L’obiettivo dei troll è fare in modo che la Finlandia resti fuori
dalla NATO, ha spiegato Saara Jantunen, ricercatrice dell’esercito finlandese:
“Riempiono lo spazio dell’informazione con così tanti abusi e teorie
del complotto che anche le persone sane di mente perdono la testa”.
Se non trovano basi solide per screditare qualcuno, provano a esasperarlo fino
al punto in cui non se la sente più di dire la sua online. “Ti entrano nella
testa e inizi a pensare: se faccio questa cosa, poi i troll che cosa faranno?”,
ha spiegato Aro.
Da quando si occupa del fenomeno, Aro ha ricevuto un gran numero
di commenti anonimi e messaggi su Facebook da account fasulli. Gli
autori degli insulti dicono di esercitare semplicemente il loro diritto di
libertà di parola e negano di ricevere denaro dal governo russo per farlo.
Tenere sotto controllo tutte le falsità che vengono pubblicate è praticamente
impossibile, così come organizzare iniziative per fare conoscere la verità.
L’Unione Europea dallo scorso autunno pubblica ogni settimana un elenco di miti
e falsità diffuse online dai troll, attraverso il sito “Disinformation
Review”. L’iniziativa non è molto conosciuta e non si è rivelata efficace
nel contrastare i troll.
Aro conosce comunque l’identità di almeno uno dei suoi principali
critici, perché ha deciso di rinunciare all’anonimato. Si chiama Johan Backman,
è un convinto sostenitore delle politiche del presidente russo Vladimir Putin e
passa molto tempo a Mosca, dove viene invitato spesso nelle trasmissioni
controllate dal governo. Si definisce un “difensore dei diritti umani” ed è
rappresentante della Repubblica Popolare di Donetsk, lo stato non riconosciuto
che è stato proclamato nel 2014 dalle autorità separatiste ucraine filorusse.
Dice di non ricevere finanziamenti dalla Russia e di non avere preso parte a
una “guerra dell’informazione” contro Aro. È però convinto che sia la Russia al
centro di una campagna di disinformazione organizzata dai paesi occidentali e
di cui Aro fa parte.
Le minacce e le intimidazioni nei confronti di Jessikka Aro non si
sono comunque limitate alle campagne online. Poco dopo avere iniziato la
sua inchiesta giornalistica nel settembre del 2014, Aro ricevette una
telefonata da un numero con prefisso ucraino. Rispose ma non sentì nessuna
voce: solo un colpo di pistola. Nei giorni seguenti le furono inviati SMS ed
email che la definivano una “puttana della NATO”.
All’inizio di quest’anno il sito MVLehti – che si occupa di Finlandia ma ha
sede in Spagna – ha pubblicato i documenti di una presunta condanna
ricevuta da Aro nel 2004 per il consumo di anfetamine, che le costò una multa
di 300 euro. L’articolo
che ne dava conto era intitolato “Si è scoperto che l’informatrice della NATO
Jessikka Aro è una spacciatrice di droga” e mostrava, tra le altre cose, alcune
fotografie di Aro scattate mentre era in una discoteca di Bangkok, durante una
vacanza in Thailandia. La notizia dello spaccio di droga era inventata: ha portato
alla pubblicazione di una lettera aperta firmata dai direttori di 20 testate
finlandesi per denunciare pratiche che “avvelenano il dibattito pubblico”
attraverso la diffamazione e la pubblicazione di falsità. La polizia finlandese
ha avviato un’indagine con l’accusa di incitazione all’odio e persecuzione nei
confronti del sito.
Il fondatore di MVLehti,
Ilja Janitskin, ha detto di non avere nessun legame con la Russia, fatta
eccezione per il suo cognome. Al New
York Times ha spiegato di essere più un sostenitore di Donald Trump
che di Vladimir Putin, e di essersi interessato ad Aro dopo che la giornalista
finlandese aveva accusato il suo sito di fare propaganda a favore della Russia.
Come Backman, ha negato di ricevere finanziamenti dal governo russo per le sue
attività.
L’influenza russa in Italia sta crescendo?
Lo scrive il
New York Times, secondo cui la Russia sta occupando il vuoto politico lasciato
dagli Stati Uniti, anche grazie a partiti come il Movimento 5 Stelle e la Lega
Nord
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