Debito record, ora l’Italia è la sorvegliata speciale
Stamattina all’apertura delle urne si sfiora già quota 2300
miliardi. Il Paese rischia l’attacco della speculazione in Borsa
131,5 per cento. È il rapporto debito/Pil del
2017
04/03/2018
La Stampa - Paolo Baroni
Prendete il nostro debito pubblico, convertitelo in monete da un euro e
provate a metterle una sull’altra. Impresa impossibile ovviamente, ma
l’eventuale «pila» che si formerebbe sarebbe alta più di 5,25 milioni di
chilometri e potrebbe quindi coprire quasi 14 volte la distanza tra la Terra e
la Luna. Il nostro, insomma, è un vero e proprio debito stellare. Nel corso del
2017 è cresciuto al ritmo di 68.700 euro al minuto e a fine 2017, dopo un picco
sopra quota 2.300 miliardi toccato a luglio, si è assestato a 2.256.
Ed ovviamente continua a salire: stando al contatore dell’Istituto Bruno
Leoni, che nelle scorse settimane ha piazzato alcuni grandi display nelle
stazioni di Roma e Milano, questa mattina alle 7 quando apriranno tutti i seggi
elettorali, saremo già arrivati a quota 2.297.286.000.000 di euro. Mentre alla
chiusura delle 23 lo stock sarà già cresciuto di altri 258 milioni di
euro.
Il nostro debito in questo inizio anno corre ad un ritmo
davvero vorticoso: in media 4.469 euro in più ogni secondo (perché gennaio è
tradizionalmente un mese nero sul fronte delle uscite») contro una media
annuale che nel 2017 era attorno a 1.160. «Il debito è un problema
gigantesco» ricorda il dg del Bruno Leoni, Alberto Mingardi, che per i
tabelloni messi nelle stazioni ha ricevuto insulti e addirittura anche minacce
di morte, «come se il debito pubblico fosse colpa nostra». «L’idea di fare
tante promesse in deficit - aggiunge - è tipica di qualsiasi campagna
elettorale per questo abbiamo voluto ricordare a tutti che ogni promessa… è
debito».
Terzi al mondo
Ancora l’anno scorso questa zavorra è cresciuta di altri 36,59 miliardi di
euro, 233,5 miliardi di euro in più da inizio legislatura. Con Renzi l’aumento
è stato pari a 116 milioni al giorno, 100,2 con Gentiloni, che ha beneficiato
di tassi in netto calo e dell’andata a pieno regime del famoso «bazooka» di
Draghi. Coi governi precedenti, a causa di stagioni della nostra economia ben
più difficili e turbolente, si viaggiava invece a medie ben più alte: Letta
202, Monti 242 e Berlusconi 165 milioni in più al giorno.
Il nostro è il terzo debito pubblico più alto del mondo: se
raffrontato alla ricchezza nazionale siamo arrivati al 131,5%. In lieve calo
rispetto al 2016, ma solo perché non sono ancora stati contabilizzati gli aiuti
destinati al salvataggio delle banche venete. Davanti a noi, tra i Paesi più
grandi, ci sono solo il Giappone, con un rapporto debito/Pil pari al 239,2 per
cento, e la disastrata Grecia al 181,3%. La media europea invece è
assestata attorno all’85%, ma la Germania, unico Paese ad essere riuscito
l’anno scorso a ridurre lo stock del debito, è al 65% del Pil ed ora punta a
scendere sotto il 60 entro il 2020.
La politica... dello struzzo
Il debito, nonostante rappresenti una vera palla al piede per la nostra
economia (gli interessi che lo Stato paga anno drenano ogni anno decine di
miliardi), è stato il vero convitato di pietra della campagna elettorale che si
è appena conclusa. Nonostante i richiami continui, da parte di Bankitalia,
dell’Ufficio parlamentare di bilancio, di Confindustria come della Ue, le
ricette messe in campo dai partiti una volta passate sotto la lente degli
esperti si sono rivelate improbabili quasi come il resto delle promesse
elettorali. Che tra l’altro secondo diversi analisti, da Carlo Cottarelli a
Roberto Perotti, altro non fanno che aumentare disavanzi e indebitamento del
Paese. E quindi molto difficilmente si riuscirà a scendere sotto il 100% come
propongono Pd, Forza Italia e Movimento 5 stelle.
La ricetta giusta, più solida e praticabile, secondo il manifesto che
Confindustria due settimane fa ha lanciato alle Assise di Verona, è «un mix di
avanzi primari, efficienza della spesa pubblica e compliance fiscale» in modo
tale da ridurre il rapporto debito/Pil di 20 punti in 5 anni. Non farlo espone
di continuo il Paese a «speculazioni e umori dei mercati finanziari che, spesso
senza alcun preavviso, possono rendere costoso e complicato il collocamento dei
titoli di Stato facendo salire, oltre alla spesa pubblica per interessi, anche
il costi dei prestiti per imprese e famiglie».
«Rimuovere il problema del debito dal dibattito pubblico - segnalano
dall’Istituto Bruno Leoni - vuol dire rimuovere un fatto». E
su tutte «le pretese soluzioni proposte dai “sovranisti», che sostengono che
quello del debito è un non problema perché basterebbe compensare debito e
credito con chi ha sottoscritto i titoli di Stato oppure uscire dall’euro per
azzerare il problema, «condurrebbero al tracollo dell’economia nazionale e
ridurrebbero alla miseria milioni di italiani». «Neanche negli Anni 90
si era superata la soglia del 130%», ricorda a sua volta Confindustria. «Ciò
frena la crescita perché vengono sottratte risorse all’economia per servire
questo debito»: 3,8% del Pil solo nel 2017, ovvero all’incirca 60 miliardi di
euro, «una spesa di poco superiore a quella sostenuta per l’istruzione
scolastica e l’università pubblica».
Il 32% parla straniero
Anche per questo, vista da fuori, la situazione italiana suscita
preoccupazione. I grandi investitori internazionali, nei cui portafogli si
trova ancora circa un terzo del totale dei nostri titoli pubblici, sono
preoccupati per la possibile fase di instabilità che si potrebbe aprire da
domani in poi. Se si arrivasse ad un nuovo governo formato da nazionalisti e
sovranisti, un’ipotetica alleanza Lega-M5S, i mercati potrebbe letteralmente
impazzire. Ipotesi per fortuna remota, segnala un report di Jp Morgan che
attribuisce a questa combinazione appena un 5% di possibilità. Ma le urne, si
sa, spesso riservano sorprese che i sondaggi faticano a prevedere.
Anche i grandi investitori italiani, grandi banche ed assicurazioni, si sono
fatti negli ultimi tempi via via più cauti, alleggerendo in maniera
significativa l’esposizione al rischio-Italia. Secondo gli ultimi dati diffusi
dalla Banca d’Italia a novembre, quando il nostro debito era pari a 2.274,9
miliardi di euro, 18 in più del consuntivo di fine anno, ben 361,4 miliardi
(pari al 15,9%) erano in mano alla Banca d’Italia, altri 610,9 miliardi, pari
ad una quota del 26,85% (342,8 di titoli, il resto sotto forma di altri strumenti)
erano in carico alla banche, 469,7 miliardi (20,64%) detenuti da fondi di
investimento di diritto italiano e assicurazioni, appena 97,5 miliardi (4,3%)
erano invece in mano a famiglie ed imprese italiane.
La fetta restante, una quota decisamente rilevante pari a 735,5 miliardi
(32,3% del totale) faceva infine capo a investitori stranieri. Rispetto al 2015 la quota posseduta dalla nostra banca centrale, per
effetto del Quantitative easing lanciato dalla Bce, è più che raddoppiata
crescendo quasi di 200 miliardi, quella in mano ai nostri istituti di credito è
scesa del 6,9% (-45 miliardi), quella dei fondi è salita del 2,6% (+12
miliardi), quella degli investitori esteri è rimasta sostanzialmente stabile
(-0,75%), mentre è letteralmente franata (-34,6%) la fetta in mano alle
famiglie certamente poco allettate da tassi sempre più miseri. Tant’è
che dai 149 miliardi di tre anni fa si è passati a meno di 100 miliardi (97,48)
e la quota di Bot, Cct e Btp sul totale dei risparmi privati è passata dall’11%
del 2008 al 6% del 2017.
Banche più leggere
Per quanto riguarda il sistema finanziario italiano la fetta più grossa,
stando ai dati aggiornati al 30 settembre 2017, si trova nei forzieri delle
Poste che detengono ben 130,6 miliardi di titoli emessi dal Tesoro (3 in più
rispetto ai 127,6 un anno prima): 55,3 detenuti attraverso Banco Posta e 75,3
da Poste Vita. Tra le banche, che negli ultimi tempi hanno progressivamente
ridotto l’esposizione sui titoli tricolore (-100 miliardi rispetto a febbraio
2015), Unicredit con 54 miliardi in lieve aumento sul trimestre precedente
sopravanza Intesa (scesa a 27 miliardi a fine anno dai 34 del 2016).
A seguire Banco Bpm (a quota 20,7 miliardi da 26,7, -22,3%), Mps 17,6 contro
i 20 del settembre 2016, Ubi (11,2 da 13,2), poi Bper con 5,3 (erano 5,9) e
Credem con 2,35 al 30 settembre (-25% sul 2016). Un altro centinaio scarso di
miliardi è poi in mano ai due principali gruppi assicurativi del Paese: le
Generali ne hanno in portafoglio per 64 miliardi, UnipolSai per altri 30,61. A
cavallo fra Italia e Francia di rilevo anche il pacchetto di nostri titoli di
Stato che fa capo ai francesi di Crédit Agricole che, sia direttamente, sia
attraverso i fondi gestiti da Amundi (che ha rilevato da Unicredit i fondi Pioneer)
ed il suo polo italiano (Cariparma, Friuladria, ecc.) al 30 giugno 2017, arriva
a quota 50 miliardi di euro. Tra gli investitori esteri i pacchetti più corposi
sono infatti in mano a istituzioni d’Oltralpe, a seguire tedeschi, spagnoli ed
americani.
Pochi Bot, tanti Btp
Dei 2.256 miliardi di debito accumulato al 31 dicembre la parte più
rilevante, attorno all’84%, è rappresentato dai titoli emessi dal Tesoro mentre
il restante 16% è rappresentato da prestiti e altri strumenti finanziari di
vario genere. Al 31 dicembre secondo il Tesoro risultavano
così in circolazione 1906,38 miliardi di euro di titoli pubblici, in
particolare 1.368,3 miliardi di Btp (71,78% del totale), 146,84 miliardi di
Btp€i (7,7%), 132,9 miliardi di Ccteu (6,97%) e 106,6 miliardi di euro di Bot
(5,59%).
1000 miliardi da trovare
Per la politica, per il Paese, quello di oggi sarà dunque un test molto
interessante. Il debito pubblico da rinnovare nella prossima legislatura
secondo le stime di Unimpresa ammonta infatti complessivamente a 900 miliardi
di euro: si tratta di 47,1 miliardi di Bot, 734,7 miliardi di Btp, 85,7
miliardi di Cct e 32,4 miliardi di Ctz. Ma se a questo importo si somma la
quota periodica di Bot il totale arriva a superare quota 1.000 miliardi di
euro. In dettaglio parliamo di 236 miliardi quest’anno, 187 miliardi nel 2019,
162 miliardi nel 2020, 162 miliardi nel 2021, 152 miliardi nel 2022, 141
miliardi nel 2023, 128 miliardi nel 2024, 62 miliardi nel 2025, 79 miliardi nel
2026, 48 miliardi nel 2027 mentre altri 355 miliardi, poi, arrivano a fine
corsa tra il 2028 e il 2067.
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