La dottrina Trump
Con un comunicato senza precedenti sull’Arabia Saudita, la Casa Bianca ha fatto passare un messaggio importante: chi è dalla parte degli Stati Uniti può fare quello che vuole
Il Post - 21 novembre 2018
https://www.ilpost.it/2018/11/21/dottrina-trump-khashoggi/
Martedì sera il presidente statunitense Donald Trump ha diffuso il comunicato
forse più incredibile e unico nella storia recente delle comunicazioni
pubbliche della Casa Bianca. In sintesi, Trump ha fatto sapere che il
suo governo continuerà in ogni caso ad appoggiare l’Arabia Saudita e il
suo politico più potente, il principe ereditario Mohammed bin Salman,
indipendentemente dalla responsabilità del regime saudita nell’omicidio
del giornalista e dissidente Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato
saudita a Istanbul, in Turchia, lo scorso 2 ottobre. Secondo diverse
ricostruzioni affidabili, e secondo la CIA, Khashoggi è stato torturato, ucciso e fatto a pezzi su ordine di Mohammed bin Salman.
Il comunicato di Trump – scritto in maniera sgangherata e informale, con vari errori e punti esclamativi, e pieno di informazioni e dati falsi
– ha provocato grande scalpore perché non è solo un comunicato: è una
specie di manifesto della sua politica estera, basata sulla completa
preminenza della sfera economica su quella politica e sul rifiuto di
buona parte dei concetti che hanno mosso gli Stati Uniti nel mondo nel
corso dell’ultimo secolo.
In particolare, nel comunicato è formalizzata un’idea che era già
emersa nei primi due anni di presidenza Trump: chi sta dalla parte degli
Stati Uniti – non importa se sia un dittatore o un leader autoritario –
può fare quasi tutto ciò che vuole, senza limiti, perché il presidente e
la sua amministrazione chiuderanno un occhio. Può sequestrare un primo ministro straniero, provocare una delle più gravi crisi umanitarie di sempre, torturare e uccidere un importante giornalista e opinionista
residente in America – cose che ha fatto il regime saudita nel corso
dell’ultimo anno, senza vere conseguenze – purché salvaguardi i rapporti
economici e di amicizia con gli Stati Uniti. Tutto questo fa parte di
quella che probabilmente passerà alla storia come la “dottrina Trump”.
Non è la prima volta che le posizioni di Trump verso leader quanto
meno discutibili vengono messe sotto accusa da politici e commentatori,
anche perché il presidente degli Stati Uniti usa le sue parole più
gentili verso i dittatori, mentre si è espresso molte volte in modo
brusco e minaccioso verso i più antichi e pacifici alleati statunitensi,
come l’Europa e il Canada. Va specificata comunque una cosa: Trump non è
certo il primo presidente della storia degli Stati Uniti che appoggia
regimi autoritari e repressivi: ci sono decine di esempi che dicono il
contrario, e negli ultimi decenni i governi americani sono arrivati
anche a sostenere colpi di stato contro regimi eletti in maniera
democratica. La particolarità di Trump è la spregiudicatezza delle sue
politiche, la sua incapacità ad anticipare le conseguenze delle sue
decisioni, e la sua indifferenza verso quelle norme che regolano la
politica internazionale e che hanno fatto permesso agli Stati Uniti di
essere la potenza dominante per molto tempo.
I tre casi più noti, quelli che hanno definito più chiaramente la
politica estera di Trump finora, riguardano i rapporti con il presidente
russo Vladimir Putin, il dittatore nordcoreano Kim Jong-un e, per
l’appunto, il principe ereditario Mohammed bin Salman, che viene
considerato oggi il vero “uomo forte” della famiglia reale saudita. Ci
sono due cose che accomunano le relazioni che Trump ha sviluppato con
tutti questi leader: un’attitudine del presidente a credere più alle
loro parole che alle informazioni provenienti dal suo stesso governo e
dalla sua intelligence, e una tendenza a chiudere un occhio di fronte a
episodi eclatanti che in altri tempi e con altri governi sarebbero stati
condannati e puniti.
Lo scorso luglio, per esempio, Trump partecipò a una conferenza stampa a Helsinki, in Finlandia, dopo avere incontrato Putin. Alcuni
giornalisti gli chiesero di commentare il fatto che l’intelligence
statunitense avesse concluso in modo unanime che la Russia aveva
attaccato gli Stati Uniti durante la campagna elettorale presidenziale
del 2016. Trump, tra lo stupore di molti, diede una risposta molto
sgangherata: citò alcune screditate teorie del complotto su Hillary
Clinton, scagionò la Russia e fece capire chiaramente che si fidava più
di Putin che dalla sua stessa intelligence. Poi fu molto criticato,
anche all’interno del suo stesso partito, e fu definito una “marionetta”
nelle mani del presidente russo: 24 ore dopo cercò goffamente di ritrattare, ma senza grande successo.
La strenua difesa di Putin non è stata l’unica che Trump ha garantito
a un leader autoritario nei suoi due anni di presidenza. Lo scorso
giugno, poche ore dopo lo storico ma inconcludente
incontro con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, Trump scrisse un
tweet che diceva: «Non c’è più alcuna minaccia nucleare dalla Corea del
Nord», un commento quanto meno azzardato e prematuro. Nelle settimane
successive, Trump si impegnò a celebrare l’intesa di massima raggiunta a
Singapore con Kim, sovrastimando in maniera evidente i risultati
dell’incontro – che non prevedono alcun disarmo – e mettendo da parte
qualsiasi discorso sulle gravi e sistematiche violazioni dei diritti
umani compiute in Corea del Nord, dove governa da decenni uno dei regimi
più brutali e violenti del mondo.
Donald Trump e Kim Jong-un all’hotel Capella di Sentosa, Singapore, 12 giugno 2018
Il caso più eclatante, comunque, è quello dell’Arabia Saudita, un
paese in cui l’Islam è interpretato e applicato nella sua versione più
intransigente e conservatrice. Negli ultimi due anni Trump ha accettato
dal regime saudita, nell’ambito della sua contesa regionale con l’Iran:
che venisse imposto una specie di embargo al Qatar,
che i sauditi accusano di essere troppo amico dell’Iran ma che allo
stesso tempo ospita sul suo territorio la principale base militare
americana nel Golfo Persico; che venisse sequestrato per giorni il primo
ministro libanese Saad Hariri, accusato di essere troppo conciliante
con Hezbollah, gruppo radicale libanese molto vicino all’Iran; che
venissero bombardati i civili in Yemen, dove l’intervento saudita ha
provocato una gravissima crisi umanitaria a cui non si vede soluzione
nel breve periodo; e che venisse ucciso in un ufficio diplomatico
saudita a Istanbul il giornalista Jamal Khashoggi, che da tempo viveva
in Virginia e lavorava come opinionista al Washington Post.
È difficile elencare con precisione tutti i motivi per cui Trump ha
scelto di essere così diverso da tutti i presidenti che lo hanno
preceduto. Come hanno sostenuto alcuni analisti e giornalisti americani,
soprattutto dopo l’incontro avvenuto a Singapore con Kim Jong-un, una
delle ragioni sembra essere l’ambizione di diventare IL presidente in
grado di risolvere problemi molto complessi, grazie a un modo di fare
molto più personale e diretto.
Questo approccio probabilmente non è dovuto solo a una scelta consapevole di Trump, ma anche alle sue conoscenze molto approssimative
e limitate sia di cosa succede nel mondo – è noto che Trump legga poco e
niente, anche adesso, e si annoi molto quando i suoi consiglieri lo
aggiornano – che dei meccanismi della diplomazia (uno degli episodi più
incredibili fu quando Trump riprese pari pari
una ricostruzione storica molto controversa del presidente cinese Xi
Jinping che fece arrabbiare il governo sudcoreano, alleato degli Stati
Uniti). Trump ha mostrato inoltre di non avere molto il senso della
misura dei successi suoi e della sua amministrazione. Per fare un altro
esempio: lo scorso settembre, durante una riunione dell’Assemblea
generale dell’ONU, Trump disse
che il suo governo aveva ottenuto risultati migliori di quasi ogni
altra amministrazione nella storia degli Stati Uniti. La frase provocò
le risate fragorose dell’aula, che furono ricevute da Trump con un
commento stupito: «Non era questa la reazione che mi aspettavo, ma va
bene lo stesso».
Donald Trump: "My administration has accomplished more than almost any administration in the history of this country"US President's opening remarks raise muted laughs as he addresses UN General Assembly in New York https://t.co/g0QdKS5FWa pic.twitter.com/JOnfvvGn99
— BBC News (World) (@BBCWorld) September 25, 2018
C’è poi un’altra cosa da considerare, che spiega molto
dell’atteggiamento conciliante di Trump verso Mohammed bin Salman. Trump
ha sempre visto la politica estera come una serie di accordi
commerciali, spogliati dal sistema di valori su cui gli Stati Uniti
hanno costruito la propria forza nell’ultimo secolo.
Nel comunicato diffuso dalla Casa Bianca martedì sera, per esempio,
Trump ha parlato di 450 miliardi di dollari di investimenti sauditi
negli Stati Uniti, che secondo lui avrebbero creato centinaia di
migliaia di posti di lavoro, uno sviluppo economico notevole e generale
benessere per i cittadini americani. Al di là del fatto che sono cifre
completamente false, come spiegato
in diversi articoli, la logica di Trump è: possiamo rinunciare al
sistema di valori che ci ha reso grandi e importanti – e che include
l’appoggio a modelli democratici e le pressioni per ottenere il rispetto
dei diritti umani – se il risultato è un guadagno economico. Questo è
un approccio che Trump aveva già mostrato di voler usare nella lunga e controversa discussione
con gli altri paesi membri della NATO, in particolare con quelli
europei: Trump li accusava di essersi approfittati per decenni degli
Stati Uniti senza dare niente in cambio, e pretendeva che cominciassero a
pagare per la propria sicurezza.
La
cancelliera tedesca Angela Merkel di fronte a Donald Trump al secondo
giorno di G7 in Canada, 9 giugno 2018 (Jesco Denzel /Bundesregierung via
Getty Images)
La difesa di Trump a leader autoritari e dittatori in giro per il
mondo, in altre parole, fa parte di un nuovo modo di pensare gli Stati
Uniti, unico nella storia recente americana. Come ha scritto CNN,
Trump ha deciso di rinunciare al cosiddetto “American exceptionalism”,
“eccezionalismo americano”, ovvero quell’idea che gli Stati Uniti siano
impegnati in una specie di missione di appoggio ai valori della
democrazia e della libertà. L’approccio di Trump in politica estera è
invece basato su concetti diversi: il rifiuto del cosiddetto
“globalismo”, l’interpretazione molto volatile di “interesse nazionale”,
la diffidenza verso l’attuale ordine internazionale, ambizioni
personali molto forti e prevalenza di logiche economiche su valutazioni
politiche.
È difficile dire ora quanto potrà durare l’atteggiamento conciliante
di Trump verso dittatori e leader autoritari, anche perché negli ultimi
mesi sono emersi diversi malumori all’interno del suo stesso partito. Le
amicizie meno digerite sembrano essere quelle con Vladimir Putin,
simbolo di una Russia aggressiva e osteggiata da molti Repubblicani, e
con Mohammed bin Salman, che soprattutto dopo l’omicidio di Khashoggi è
diventato un personaggio per molti impresentabile. Nel Congresso si sta
elaborando una proposta bipartisan, quindi appoggiata sia da Democratici
che da Repubblicani, per prendere misure più dure contro il regime
saudita, che vadano oltre le limitate sanzioni decise finora
(per esempio approvando il blocco della vendita delle armi). Per Trump
potrebbe non essere facile uscirne, soprattutto dopo le elezioni di metà
mandato con cui i Democratici hanno preso il controllo della Camera.
Ma l’Arabia Saudita non stava cambiando?
Dietro all'assurda sparizione del giornalista Jamal Khashoggi c'è il principe Mohammed bin Salman, lo stesso delle patenti alle donne e degli annunci sull'Islam moderato
È passata più di una settimana dalla scomparsa del giornalista
saudita Jamal Khashoggi, e ancora non si sa con certezza cosa sia
successo. Negli ultimi giorni diverse fonti –
rimaste per lo più anonime, ma considerate molto affidabili – hanno
parlato con i principali giornali internazionali, in particolare con il New York Times e il Washington Post, e hanno sostenuto che Khashoggi sia stato ucciso
da uomini sauditi all’interno del consolato dell’Arabia Saudita a
Istanbul, in Turchia, dove era entrato poco dopo le 13 del 2 ottobre per
ottenere dei documenti di divorzio. Khashoggi era residente negli Stati
Uniti da tempo: è un opinionista del Washington Post noto soprattutto per le sue posizioni molto critiche verso il principe ereditario saudita, il potentissimo Mohammed bin Salman.
Dopo i primi giorni di indagini e inchieste giornalistiche,
sembra non esserci più alcun dubbio sul coinvolgimento della famiglia
reale saudita nella scomparsa – molto più probabilmente omicidio – di
Khashoggi. Ci sono diversi elementi che lo fanno pensare: i 15 uomini
arrivati da Riyadh a Istanbul su voli charter e coinvolti nella vicenda, la sparizione dei video delle telecamere di sicurezza all’interno del consolato, e soprattutto alcune intercettazioni dell’intelligence statunitense
che mostrano che fu Mohammed bin Salman a ordinare la cattura di
Khashoggi e il suo trasferimento in Arabia Saudita. A questo punto il
lettore distratto potrebbe chiedersi: ma Mohammed bin Salman non era
quello delle grandi riforme, delle patenti di guida alle donne, dei concerti live, dell’Islam moderato e della riapertura dei cinema?
Le riforme inaspettate, la feroce repressione
La stampa internazionale si accorse di Mohammed bin Salman, o MbS, per
un enorme e ambizioso piano di riforme presentato nell’aprile 2016 e chiamato “Vision 2030”,
che avrebbe dovuto rendere l’Arabia Saudita indipendente dall’andamento
dei mercati petroliferi entro il 2030. MbS ricevette allora grandissime
attenzioni e le sfruttò per scalare pezzo dopo pezzo la famiglia reale
saudita, fino a farsi nominare erede al trono da re Salman, suo padre, e diventare il politico più potente e importante del regno.
Nell’ultimo anno e mezzo MbS è finito più volte sulle prime pagine
dei giornali internazionali, presentato come promotore di un’Arabia
Saudita diversa, meno legata alla precedente rigida interpretazione
dell’Islam. Lo scorso anno Thomas Friedman, storico opinionista del New York Times, scrisse per esempio
che «il più significativo processo di riforme in corso oggi in tutto il
Medio Oriente si sta verificando in Arabia Saudita. Si avete letto
bene. Nonostante sia venuto qui all’inizio dell’inverno saudita, ho
trovato un paese che sta attraversando la propria Primavera araba, in
stile saudita». Friedman, insieme a molti altri, commentava le
inaspettate riforme di MbS, che sembravano poter cambiare la vita
quotidiana di tanti sauditi e saudite. Allo stesso tempo, però, altri
analisti mettevano in guardia sugli innamoramenti esteri verso MbS: il
principe ereditario stava già perseguitando sistematicamente tutti
quelli in grado di minacciare il suo potere, e stava trasformando
l’Arabia Saudita in un paese ancora più repressivo e autoritario
(Friedman viene ancora molto criticato per quell’editoriale).
I più critici verso MbS non parlavano a caso. All’inizio di novembre
dello scorso anno decine di principi e politici sauditi furono
improvvisamente arrestati da una “commissione anti-corruzione” nata
appena poche ore prima. Molti di loro furono detenuti per settimane
nell’hotel Ritz-Carlton della capitale Riyadh, usato come prigione di
lusso, mentre subivano pressioni per “risarcire” lo Stato dei presunti
beni sottratti con la corruzione. Nei mesi successivi le forze di
sicurezza saudite agli ordini di MbS arrestarono – spesso sequestrarono –
diversi dissidenti, oppositori e critici verso il regime. Come
dimostrano le informazioni d’intelligence ottenute dal Washington Post e pubblicate oggi,
il regime saudita progettava da tempo il sequestro di Khashoggi: l’idea
era “prelevarlo” dal territorio di uno stato straniero e riportarlo in
Arabia Saudita, così che non avesse più modo di criticare il regno di
MbS.
Quello che si chiedono in molti è: cos’è l’Arabia Saudita oggi? Il
paese delle riforme sui cinema, sui concerti, sulle patenti alle donne, o
il regime autoritario che persegue dissidenti e critici con una ferocia
e un’impunità raramente viste nel passato? Entrambe le cose,
probabilmente, ma soprattutto è il regno di un sovrano assoluto.
Un paese riformatore o un regime autoritario?
Le riforme avviate da MbS nel corso dell’ultimo anno hanno avuto l’obiettivo di cambiare faccia all’Arabia Saudita e dargliene una più “presentabile”, diciamo così, per allentare la pressione dei media occidentali, darsi l’immagine del rinnovatore, favorire gli investimenti esteri e migliorare i rapporti politici con i propri alleati, tra cui gli Stati Uniti. In un certo senso ha funzionato, ma a un prezzo altissimo.
Le riforme avviate da MbS nel corso dell’ultimo anno hanno avuto l’obiettivo di cambiare faccia all’Arabia Saudita e dargliene una più “presentabile”, diciamo così, per allentare la pressione dei media occidentali, darsi l’immagine del rinnovatore, favorire gli investimenti esteri e migliorare i rapporti politici con i propri alleati, tra cui gli Stati Uniti. In un certo senso ha funzionato, ma a un prezzo altissimo.
Il giornalista Peter Bergen, esperto di sicurezza per CNN, ha scritto
che MbS ha proseguito nelle misure che hanno reso l’Arabia Saudita «una
dittatura totalitaria, nella quale tutti gli aspetti della società sono
controllati da lui e tutte le forme di dissenso sono soffocate, un
approccio che si è ulteriormente rafforzato con la sparizione di
Khashoggi». Il fatto è che MbS ha avviato sì delle riforme, ma ha deciso
di dettarne il ritmo e di non tollerare alcuna interferenza esterna: «È
una vecchia tecnica che risale a Luigi XIV di Francia, che si pensa
abbia detto: “L’état, c’est moi”, ovvero “Lo stato sono io”», ha
aggiunto Bergen. Nell’ultimo anno e mezzo, in altre parole, MbS è stato
ossessionato dall’accentrare il potere su di sé, eliminare tutti i suoi
nemici politici e i suoi critici, facendo mosse così spregiudicate da
sembrare incomprensibili e lasciare stupefatti.
Far sparire Khashoggi in un proprio consolato è solo l’ultima di una
serie di mosse che non sembrano rispondere a logiche precise se non
quella di esercitare sempre più potere. Nell’ultimo anno e mezzo, per
dirne due, MbS ha deciso di imporre un embargo praticamente totale al Qatar,
accusato di essere troppo vicino all’Iran, dando inizio a una crisi che
finora non gli ha portato alcun vantaggio; e ha di fatto sequestrato e obbligato alle dimissioni
il primo ministro del Libano, Saad Hariri, che poi una volta tornato in
Libano si è ripreso la sua carica come se nulla fosse successo.
Perché MbS è così spregiudicato?
In poche parole: perché può farlo.
In poche parole: perché può farlo.
C’è una cosa da tenere a mente al riguardo: l’Arabia Saudita non è
uno stato democratico, non ha un elettorato in grado di punire i
governanti della famiglia reale, non concede libertà di espressione e di
dissenso, non permette l’esistenza di un’opposizione politica come la
intendiamo noi. È uno stato autoritario che non si deve preoccupare
dell’indignazione popolare per avere fatto sparire un dissidente sotto
gli occhi di tutto il mondo nel proprio consolato in un paese membro
della NATO, come è la Turchia. E tutto questo nonostante le recenti
riforme. Tolta l’inesistente pressione interna, c’è solo una cosa che
avrebbe potuto rendere MbS meno spregiudicato: il rischio di perdere il
più importante alleato e amico dell’Arabia Saudita, cioè il governo
degli Stati Uniti. E questo è un punto importante.
Due anni fa, ha scritto il Washington Post in un editoriale,
sarebbe stato inconcepibile che i governanti dell’Arabia Saudita
fossero sospettati di sequestrare o uccidere un dissidente che viveva a
Washington e scriveva regolarmente per un giornale così importante. I
rapporti tra l’Arabia Saudita di re Salman e gli Stati Uniti di Barack
Obama erano tesi e ai minimi storici, soprattutto per l’opposizione saudita all’accordo sul nucleare iraniano
e per l’insofferenza statunitense verso le violenze saudite nella
guerra in Yemen, ma proprio per questo il governo saudita evitava
provocazioni e mosse spregiudicate: perdere del tutto l’amicizia con gli
americani, in uno dei momenti di massimo confronto con l’Iran, sarebbe
stato un durissimo colpo. Con Trump, però, le cose sono cambiate in
maniera rapida e profonda.
Trump fece la prima tappa del suo primo viaggio ufficiale all’estero,
quella che di solito è riservata agli alleati più stretti e fidati,
proprio in Arabia Saudita, sorprendendo un po’ tutti. Quando nel
novembre 2017 MbS ordinò l’arresto di decine di principi e politici
nella presunta operazione anti-corruzione, Trump approvò e disse: «Ho
grande fiducia in re Salman e nel principe ereditario dell’Arabia
Saudita [MbS]. Sanno esattamente cosa stanno facendo». Quando MbS visitò
Washington lo scorso marzo, Trump lo ricevette senza menzionare nemmeno
una volta i diritti umani: «La nostra relazione è probabilmente più
forte che mai», commentò. L’amministrazione statunitense non reagì
troppo nemmeno a crisi più serie, per esempio di fronte all’imposizione
dell’embargo sul Qatar, paese dove tra l’altro gli Stati Uniti hanno la
loro più importante base militare del Golfo Persico, e al sequestro del
libanese Hariri. Nel frattempo Trump aveva ritirato l’adesione degli
Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, concedendo un’altra
grande vittoria a MbS. L’idea di diversi analisti era semplice: gli
Stati Uniti di Trump avevano dato praticamente “carta bianca” a MbS, che
aveva cominciato a comportarsi di conseguenza.
Questa idea è stata ripresa anche oggi, dopo la sparizione di
Khashoggi (che, peraltro, è appunto residente negli Stati Uniti e
regolare opinionista di uno dei principali quotidiani americani). Da
Trump non sono arrivate dichiarazioni indignate o tweet sopra le righe, e
non è nemmeno stato convocato l’ambasciatore saudita a Washington per
avere spiegazioni, una pratica diplomatica usata anche in situazioni
molto meno gravi di questa. MbS in questo senso ha dimostrato di avere
avuto ragione: lo poteva fare, senza temere conseguenze.
L’uccisione o il sequestro di Khashoggi, ha scritto il Washington Post,
«potrebbe anche riflettere l’influenza del presidente Trump, che ha
spinto il principe ereditario a credere – erroneamente, crediamo – che
anche le sue mosse più spericolate e illegali avrebbero avuto il
sostegno degli Stati Uniti». Di parere simile sono diversi altri
analisti, che tra le altre cose sono andati a ripescare un rapporto riservato
redatto nel maggio 2017 per l’allora segretario di Stato americano Rex
Tillerson e scritto dal suo principale consigliere, Brian Hook. Nel
rapporto si parlava della necessità per gli Stati Uniti di chiudere un
occhio di fronte alle violazioni dei diritti umani di paesi alleati come
l’Arabia Saudita.
Per il momento l’amministrazione Trump non ha alzato la voce con
l’Arabia Saudita e non ha cambiato il tono pubblico del dibattito,
nonostante sia sempre più chiaro che dietro la sparizione di Khashoggi
ci siano i sauditi. Aspettarsi però che siano i sauditi a dare una
spiegazione su quanto successo sembra oggi completamente inutile:
nonostante gli annunci delle riforme tanto pubblicizzate negli ultimi
mesi, chi governa l’Arabia Saudita non deve rendere conto quasi a
nessuno, se non eventualmente ai propri alleati, perché così fanno gli
stati autoritari.
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