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sabato 24 novembre 2018

Populisti cinici e Stati canaglia

La dottrina Trump

Con un comunicato senza precedenti sull’Arabia Saudita, la Casa Bianca ha fatto passare un messaggio importante: chi è dalla parte degli Stati Uniti può fare quello che vuole

Il Post - 21 novembre 2018

 https://www.ilpost.it/2018/11/21/dottrina-trump-khashoggi/

Martedì sera il presidente statunitense Donald Trump ha diffuso il comunicato forse più incredibile e unico nella storia recente delle comunicazioni pubbliche della Casa Bianca. In sintesi, Trump ha fatto sapere che il suo governo continuerà in ogni caso ad appoggiare l’Arabia Saudita e il suo politico più potente, il principe ereditario Mohammed bin Salman, indipendentemente dalla responsabilità del regime saudita nell’omicidio del giornalista e dissidente Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita a Istanbul, in Turchia, lo scorso 2 ottobre. Secondo diverse ricostruzioni affidabili, e secondo la CIA, Khashoggi è stato torturato, ucciso e fatto a pezzi su ordine di Mohammed bin Salman.
Il comunicato di Trump – scritto in maniera sgangherata e informale, con vari errori e punti esclamativi, e pieno di informazioni e dati falsi – ha provocato grande scalpore perché non è solo un comunicato: è una specie di manifesto della sua politica estera, basata sulla completa preminenza della sfera economica su quella politica e sul rifiuto di buona parte dei concetti che hanno mosso gli Stati Uniti nel mondo nel corso dell’ultimo secolo.
In particolare, nel comunicato è formalizzata un’idea che era già emersa nei primi due anni di presidenza Trump: chi sta dalla parte degli Stati Uniti – non importa se sia un dittatore o un leader autoritario – può fare quasi tutto ciò che vuole, senza limiti, perché il presidente e la sua amministrazione chiuderanno un occhio. Può sequestrare un primo ministro straniero, provocare una delle più gravi crisi umanitarie di sempre, torturare e uccidere un importante giornalista e opinionista residente in America – cose che ha fatto il regime saudita nel corso dell’ultimo anno, senza vere conseguenze – purché salvaguardi i rapporti economici e di amicizia con gli Stati Uniti. Tutto questo fa parte di quella che probabilmente passerà alla storia come la “dottrina Trump”. 
 
Non è la prima volta che le posizioni di Trump verso leader quanto meno discutibili vengono messe sotto accusa da politici e commentatori, anche perché il presidente degli Stati Uniti usa le sue parole più gentili verso i dittatori, mentre si è espresso molte volte in modo brusco e minaccioso verso i più antichi e pacifici alleati statunitensi, come l’Europa e il Canada. Va specificata comunque una cosa: Trump non è certo il primo presidente della storia degli Stati Uniti che appoggia regimi autoritari e repressivi: ci sono decine di esempi che dicono il contrario, e negli ultimi decenni i governi americani sono arrivati anche a sostenere colpi di stato contro regimi eletti in maniera democratica. La particolarità di Trump è la spregiudicatezza delle sue politiche, la sua incapacità ad anticipare le conseguenze delle sue decisioni, e la sua indifferenza verso quelle norme che regolano la politica internazionale e che hanno fatto permesso agli Stati Uniti di essere la potenza dominante per molto tempo.
I tre casi più noti, quelli che hanno definito più chiaramente la politica estera di Trump finora, riguardano i rapporti con il presidente russo Vladimir Putin, il dittatore nordcoreano Kim Jong-un e, per l’appunto, il principe ereditario Mohammed bin Salman, che viene considerato oggi il vero “uomo forte” della famiglia reale saudita. Ci sono due cose che accomunano le relazioni che Trump ha sviluppato con tutti questi leader: un’attitudine del presidente a credere più alle loro parole che alle informazioni provenienti dal suo stesso governo e dalla sua intelligence, e una tendenza a chiudere un occhio di fronte a episodi eclatanti che in altri tempi e con altri governi sarebbero stati condannati e puniti.
Lo scorso luglio, per esempio, Trump partecipò a una conferenza stampa a Helsinki, in Finlandia, dopo avere incontrato Putin. Alcuni giornalisti gli chiesero di commentare il fatto che l’intelligence statunitense avesse concluso in modo unanime che la Russia aveva attaccato gli Stati Uniti durante la campagna elettorale presidenziale del 2016. Trump, tra lo stupore di molti, diede una risposta molto sgangherata: citò alcune screditate teorie del complotto su Hillary Clinton, scagionò la Russia e fece capire chiaramente che si fidava più di Putin che dalla sua stessa intelligence. Poi fu molto criticato, anche all’interno del suo stesso partito, e fu definito una “marionetta” nelle mani del presidente russo: 24 ore dopo cercò goffamente di ritrattare, ma senza grande successo.
La strenua difesa di Putin non è stata l’unica che Trump ha garantito a un leader autoritario nei suoi due anni di presidenza. Lo scorso giugno, poche ore dopo lo storico ma inconcludente incontro con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, Trump scrisse un tweet che diceva: «Non c’è più alcuna minaccia nucleare dalla Corea del Nord», un commento quanto meno azzardato e prematuro. Nelle settimane successive, Trump si impegnò a celebrare l’intesa di massima raggiunta a Singapore con Kim, sovrastimando in maniera evidente i risultati dell’incontro – che non prevedono alcun disarmo – e mettendo da parte qualsiasi discorso sulle gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani compiute in Corea del Nord, dove governa da decenni uno dei regimi più brutali e violenti del mondo.
Donald Trump e Kim Jong-un all’hotel Capella di Sentosa, Singapore, 12 giugno 2018
Il caso più eclatante, comunque, è quello dell’Arabia Saudita, un paese in cui l’Islam è interpretato e applicato nella sua versione più intransigente e conservatrice. Negli ultimi due anni Trump ha accettato dal regime saudita, nell’ambito della sua contesa regionale con l’Iran: che venisse imposto una specie di embargo al Qatar, che i sauditi accusano di essere troppo amico dell’Iran ma che allo stesso tempo ospita sul suo territorio la principale base militare americana nel Golfo Persico; che venisse sequestrato per giorni il primo ministro libanese Saad Hariri, accusato di essere troppo conciliante con Hezbollah, gruppo radicale libanese molto vicino all’Iran; che venissero bombardati i civili in Yemen, dove l’intervento saudita ha provocato una gravissima crisi umanitaria a cui non si vede soluzione nel breve periodo; e che venisse ucciso in un ufficio diplomatico saudita a Istanbul il giornalista Jamal Khashoggi, che da tempo viveva in Virginia e lavorava come opinionista al Washington Post.
È difficile elencare con precisione tutti i motivi per cui Trump ha scelto di essere così diverso da tutti i presidenti che lo hanno preceduto. Come hanno sostenuto alcuni analisti e giornalisti americani, soprattutto dopo l’incontro avvenuto a Singapore con Kim Jong-un, una delle ragioni sembra essere l’ambizione di diventare IL presidente in grado di risolvere problemi molto complessi, grazie a un modo di fare molto più personale e diretto.
Questo approccio probabilmente non è dovuto solo a una scelta consapevole di Trump, ma anche alle sue conoscenze molto approssimative e limitate sia di cosa succede nel mondo – è noto che Trump legga poco e niente, anche adesso, e si annoi molto quando i suoi consiglieri lo aggiornano – che dei meccanismi della diplomazia (uno degli episodi più incredibili fu quando Trump riprese pari pari una ricostruzione storica molto controversa del presidente cinese Xi Jinping che fece arrabbiare il governo sudcoreano, alleato degli Stati Uniti). Trump ha mostrato inoltre di non avere molto il senso della misura dei successi suoi e della sua amministrazione. Per fare un altro esempio: lo scorso settembre, durante una riunione dell’Assemblea generale dell’ONU, Trump disse che il suo governo aveva ottenuto risultati migliori di quasi ogni altra amministrazione nella storia degli Stati Uniti. La frase provocò le risate fragorose dell’aula, che furono ricevute da Trump con un commento stupito: «Non era questa la reazione che mi aspettavo, ma va bene lo stesso».
C’è poi un’altra cosa da considerare, che spiega molto dell’atteggiamento conciliante di Trump verso Mohammed bin Salman. Trump ha sempre visto la politica estera come una serie di accordi commerciali, spogliati dal sistema di valori su cui gli Stati Uniti hanno costruito la propria forza nell’ultimo secolo.
Nel comunicato diffuso dalla Casa Bianca martedì sera, per esempio, Trump ha parlato di 450 miliardi di dollari di investimenti sauditi negli Stati Uniti, che secondo lui avrebbero creato centinaia di migliaia di posti di lavoro, uno sviluppo economico notevole e generale benessere per i cittadini americani. Al di là del fatto che sono cifre completamente false, come spiegato in diversi articoli, la logica di Trump è: possiamo rinunciare al sistema di valori che ci ha reso grandi e importanti – e che include l’appoggio a modelli democratici e le pressioni per ottenere il rispetto dei diritti umani – se il risultato è un guadagno economico. Questo è un approccio che Trump aveva già mostrato di voler usare nella lunga e controversa discussione con gli altri paesi membri della NATO, in particolare con quelli europei: Trump li accusava di essersi approfittati per decenni degli Stati Uniti senza dare niente in cambio, e pretendeva che cominciassero a pagare per la propria sicurezza.
La cancelliera tedesca Angela Merkel di fronte a Donald Trump al secondo giorno di G7 in Canada, 9 giugno 2018 (Jesco Denzel /Bundesregierung via Getty Images)
La difesa di Trump a leader autoritari e dittatori in giro per il mondo, in altre parole, fa parte di un nuovo modo di pensare gli Stati Uniti, unico nella storia recente americana. Come ha scritto CNN, Trump ha deciso di rinunciare al cosiddetto “American exceptionalism”, “eccezionalismo americano”, ovvero quell’idea che gli Stati Uniti siano impegnati in una specie di missione di appoggio ai valori della democrazia e della libertà. L’approccio di Trump in politica estera è invece basato su concetti diversi: il rifiuto del cosiddetto “globalismo”, l’interpretazione molto volatile di “interesse nazionale”, la diffidenza verso l’attuale ordine internazionale, ambizioni personali molto forti e prevalenza di logiche economiche su valutazioni politiche.
È difficile dire ora quanto potrà durare l’atteggiamento conciliante di Trump verso dittatori e leader autoritari, anche perché negli ultimi mesi sono emersi diversi malumori all’interno del suo stesso partito. Le amicizie meno digerite sembrano essere quelle con Vladimir Putin, simbolo di una Russia aggressiva e osteggiata da molti Repubblicani, e con Mohammed bin Salman, che soprattutto dopo l’omicidio di Khashoggi è diventato un personaggio per molti impresentabile. Nel Congresso si sta elaborando una proposta bipartisan, quindi appoggiata sia da Democratici che da Repubblicani, per prendere misure più dure contro il regime saudita, che vadano oltre le limitate sanzioni decise finora (per esempio approvando il blocco della vendita delle armi). Per Trump potrebbe non essere facile uscirne, soprattutto dopo le elezioni di metà mandato con cui i Democratici hanno preso il controllo della Camera.

 

Ma l’Arabia Saudita non stava cambiando?

Dietro all'assurda sparizione del giornalista Jamal Khashoggi c'è il principe Mohammed bin Salman, lo stesso delle patenti alle donne e degli annunci sull'Islam moderato

di Elena Zacchetti
Il Post -  11 ottobre 2018
https://www.ilpost.it/2018/10/11/arabia-saudita-stato-autoritario-omicidio-khashoggi/
È passata più di una settimana dalla scomparsa del giornalista saudita Jamal Khashoggi, e ancora non si sa con certezza cosa sia successo. Negli ultimi giorni diverse fonti – rimaste per lo più anonime, ma considerate molto affidabili – hanno parlato con i principali giornali internazionali, in particolare con il New York Times e il Washington Post, e hanno sostenuto che Khashoggi sia stato ucciso da uomini sauditi all’interno del consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, in Turchia, dove era entrato poco dopo le 13 del 2 ottobre per ottenere dei documenti di divorzio. Khashoggi era residente negli Stati Uniti da tempo: è un opinionista del Washington Post noto soprattutto per le sue posizioni molto critiche verso il principe ereditario saudita, il potentissimo Mohammed bin Salman.
Dopo i primi giorni di indagini e inchieste giornalistiche, sembra non esserci più alcun dubbio sul coinvolgimento della famiglia reale saudita nella scomparsa – molto più probabilmente omicidio – di Khashoggi. Ci sono diversi elementi che lo fanno pensare: i 15 uomini arrivati da Riyadh a Istanbul su voli charter e coinvolti nella vicenda, la sparizione dei video delle telecamere di sicurezza all’interno del consolato, e soprattutto alcune intercettazioni dell’intelligence statunitense che mostrano che fu Mohammed bin Salman a ordinare la cattura di Khashoggi e il suo trasferimento in Arabia Saudita. A questo punto il lettore distratto potrebbe chiedersi: ma Mohammed bin Salman non era quello delle grandi riforme, delle patenti di guida alle donne, dei concerti live, dell’Islam moderato e della riapertura dei cinema?
Le riforme inaspettate, la feroce repressione
La stampa internazionale si accorse di Mohammed bin Salman, o MbS, per un enorme e ambizioso piano di riforme presentato nell’aprile 2016 e chiamato “Vision 2030”, che avrebbe dovuto rendere l’Arabia Saudita indipendente dall’andamento dei mercati petroliferi entro il 2030. MbS ricevette allora grandissime attenzioni e le sfruttò per scalare pezzo dopo pezzo la famiglia reale saudita, fino a farsi nominare erede al trono da re Salman, suo padre, e diventare il politico più potente e importante del regno.
Nell’ultimo anno e mezzo MbS è finito più volte sulle prime pagine dei giornali internazionali, presentato come promotore di un’Arabia Saudita diversa, meno legata alla precedente rigida interpretazione dell’Islam. Lo scorso anno Thomas Friedman, storico opinionista del New York Times, scrisse per esempio che «il più significativo processo di riforme in corso oggi in tutto il Medio Oriente si sta verificando in Arabia Saudita. Si avete letto bene. Nonostante sia venuto qui all’inizio dell’inverno saudita, ho trovato un paese che sta attraversando la propria Primavera araba, in stile saudita». Friedman, insieme a molti altri, commentava le inaspettate riforme di MbS, che sembravano poter cambiare la vita quotidiana di tanti sauditi e saudite. Allo stesso tempo, però, altri analisti mettevano in guardia sugli innamoramenti esteri verso MbS: il principe ereditario stava già perseguitando sistematicamente tutti quelli in grado di minacciare il suo potere, e stava trasformando l’Arabia Saudita in un paese ancora più repressivo e autoritario (Friedman viene ancora molto criticato per quell’editoriale).
I più critici verso MbS non parlavano a caso. All’inizio di novembre dello scorso anno decine di principi e politici sauditi furono improvvisamente arrestati da una “commissione anti-corruzione” nata appena poche ore prima. Molti di loro furono detenuti per settimane nell’hotel Ritz-Carlton della capitale Riyadh, usato come prigione di lusso, mentre subivano pressioni per “risarcire” lo Stato dei presunti beni sottratti con la corruzione. Nei mesi successivi le forze di sicurezza saudite agli ordini di MbS arrestarono – spesso sequestrarono – diversi dissidenti, oppositori e critici verso il regime. Come dimostrano le informazioni d’intelligence ottenute dal Washington Post e pubblicate oggi, il regime saudita progettava da tempo il sequestro di Khashoggi: l’idea era “prelevarlo” dal territorio di uno stato straniero e riportarlo in Arabia Saudita, così che non avesse più modo di criticare il regno di MbS.
Quello che si chiedono in molti è: cos’è l’Arabia Saudita oggi? Il paese delle riforme sui cinema, sui concerti, sulle patenti alle donne, o il regime autoritario che persegue dissidenti e critici con una ferocia e un’impunità raramente viste nel passato? Entrambe le cose, probabilmente, ma soprattutto è il regno di un sovrano assoluto.
Un paese riformatore o un regime autoritario?
Le riforme avviate da MbS nel corso dell’ultimo anno hanno avuto l’obiettivo di cambiare faccia all’Arabia Saudita e dargliene una più “presentabile”, diciamo così, per allentare la pressione dei media occidentali, darsi l’immagine del rinnovatore, favorire gli investimenti esteri e migliorare i rapporti politici con i propri alleati, tra cui gli Stati Uniti. In un certo senso ha funzionato, ma a un prezzo altissimo.
Il giornalista Peter Bergen, esperto di sicurezza per CNN, ha scritto che MbS ha proseguito nelle misure che hanno reso l’Arabia Saudita «una dittatura totalitaria, nella quale tutti gli aspetti della società sono controllati da lui e tutte le forme di dissenso sono soffocate, un approccio che si è ulteriormente rafforzato con la sparizione di Khashoggi». Il fatto è che MbS ha avviato sì delle riforme, ma ha deciso di dettarne il ritmo e di non tollerare alcuna interferenza esterna: «È una vecchia tecnica che risale a Luigi XIV di Francia, che si pensa abbia detto: “L’état, c’est moi”, ovvero “Lo stato sono io”», ha aggiunto Bergen. Nell’ultimo anno e mezzo, in altre parole, MbS è stato ossessionato dall’accentrare il potere su di sé, eliminare tutti i suoi nemici politici e i suoi critici, facendo mosse così spregiudicate da sembrare incomprensibili e lasciare stupefatti.
Far sparire Khashoggi in un proprio consolato è solo l’ultima di una serie di mosse che non sembrano rispondere a logiche precise se non quella di esercitare sempre più potere. Nell’ultimo anno e mezzo, per dirne due, MbS ha deciso di imporre un embargo praticamente totale al Qatar, accusato di essere troppo vicino all’Iran, dando inizio a una crisi che finora non gli ha portato alcun vantaggio; e ha di fatto sequestrato e obbligato alle dimissioni il primo ministro del Libano, Saad Hariri, che poi una volta tornato in Libano si è ripreso la sua carica come se nulla fosse successo.
Perché MbS è così spregiudicato?
In poche parole: perché può farlo.
C’è una cosa da tenere a mente al riguardo: l’Arabia Saudita non è uno stato democratico, non ha un elettorato in grado di punire i governanti della famiglia reale, non concede libertà di espressione e di dissenso, non permette l’esistenza di un’opposizione politica come la intendiamo noi. È uno stato autoritario che non si deve preoccupare dell’indignazione popolare per avere fatto sparire un dissidente sotto gli occhi di tutto il mondo nel proprio consolato in un paese membro della NATO, come è la Turchia. E tutto questo nonostante le recenti riforme. Tolta l’inesistente pressione interna, c’è solo una cosa che avrebbe potuto rendere MbS meno spregiudicato: il rischio di perdere il più importante alleato e amico dell’Arabia Saudita, cioè il governo degli Stati Uniti. E questo è un punto importante.
Due anni fa, ha scritto il Washington Post in un editoriale, sarebbe stato inconcepibile che i governanti dell’Arabia Saudita fossero sospettati di sequestrare o uccidere un dissidente che viveva a Washington e scriveva regolarmente per un giornale così importante. I rapporti tra l’Arabia Saudita di re Salman e gli Stati Uniti di Barack Obama erano tesi e ai minimi storici, soprattutto per l’opposizione saudita all’accordo sul nucleare iraniano e per l’insofferenza statunitense verso le violenze saudite nella guerra in Yemen, ma proprio per questo il governo saudita evitava provocazioni e mosse spregiudicate: perdere del tutto l’amicizia con gli americani, in uno dei momenti di massimo confronto con l’Iran, sarebbe stato un durissimo colpo. Con Trump, però, le cose sono cambiate in maniera rapida e profonda.
Trump fece la prima tappa del suo primo viaggio ufficiale all’estero, quella che di solito è riservata agli alleati più stretti e fidati, proprio in Arabia Saudita, sorprendendo un po’ tutti. Quando nel novembre 2017 MbS ordinò l’arresto di decine di principi e politici nella presunta operazione anti-corruzione, Trump approvò e disse: «Ho grande fiducia in re Salman e nel principe ereditario dell’Arabia Saudita [MbS]. Sanno esattamente cosa stanno facendo». Quando MbS visitò Washington lo scorso marzo, Trump lo ricevette senza menzionare nemmeno una volta i diritti umani: «La nostra relazione è probabilmente più forte che mai», commentò. L’amministrazione statunitense non reagì troppo nemmeno a crisi più serie, per esempio di fronte all’imposizione dell’embargo sul Qatar, paese dove tra l’altro gli Stati Uniti hanno la loro più importante base militare del Golfo Persico, e al sequestro del libanese Hariri. Nel frattempo Trump aveva ritirato l’adesione degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, concedendo un’altra grande vittoria a MbS. L’idea di diversi analisti era semplice: gli Stati Uniti di Trump avevano dato praticamente “carta bianca” a MbS, che aveva cominciato a comportarsi di conseguenza.
Questa idea è stata ripresa anche oggi, dopo la sparizione di Khashoggi (che, peraltro, è appunto residente negli Stati Uniti e regolare opinionista di uno dei principali quotidiani americani). Da Trump non sono arrivate dichiarazioni indignate o tweet sopra le righe, e non è nemmeno stato convocato l’ambasciatore saudita a Washington per avere spiegazioni, una pratica diplomatica usata anche in situazioni molto meno gravi di questa. MbS in questo senso ha dimostrato di avere avuto ragione: lo poteva fare, senza temere conseguenze.
L’uccisione o il sequestro di Khashoggi, ha scritto il Washington Post, «potrebbe anche riflettere l’influenza del presidente Trump, che ha spinto il principe ereditario a credere – erroneamente, crediamo – che anche le sue mosse più spericolate e illegali avrebbero avuto il sostegno degli Stati Uniti». Di parere simile sono diversi altri analisti, che tra le altre cose sono andati a ripescare un rapporto riservato redatto nel maggio 2017 per l’allora segretario di Stato americano Rex Tillerson e scritto dal suo principale consigliere, Brian Hook. Nel rapporto si parlava della necessità per gli Stati Uniti di chiudere un occhio di fronte alle violazioni dei diritti umani di paesi alleati come l’Arabia Saudita.
Per il momento l’amministrazione Trump non ha alzato la voce con l’Arabia Saudita e non ha cambiato il tono pubblico del dibattito, nonostante sia sempre più chiaro che dietro la sparizione di Khashoggi ci siano i sauditi. Aspettarsi però che siano i sauditi a dare una spiegazione su quanto successo sembra oggi completamente inutile: nonostante gli annunci delle riforme tanto pubblicizzate negli ultimi mesi, chi governa l’Arabia Saudita non deve rendere conto quasi a nessuno, se non eventualmente ai propri alleati, perché così fanno gli stati autoritari.
 

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