Global Compact, se il governo italiano sceglie di non
esserci
Nell’ostilità al
Global Compact for Migrations l’Italia fa squadra con l’Ungheria di Viktor
Orbán, che con i sovranisti di casa nostra ha in comune l’ostilità per la
cultura, verso i migranti e per la stampa libera. Ma oltre a essere un’alleata
un po’ riottosa che non sempre ci è fedele, per noi oggi l’Ungheria è anche uno
specchio magico utile per capire dove finiremo con il Movimento 5 Stelle e la
Lega al governo
DI ROBERTO SAVIANO
La Repubblica - 20 DICEMBRE 2018
Il dibattito sul Global Compact alla Camera (seguita rigorosamente su Radio
Radicale) ci dà, su questo governo, un’altra informazione, e cioè che
l’importante per i suoi rappresentanti è sempre posticipare, non decidere, non
firmare: in definitiva, non esserci. Non esserci in Europa quando si decide in
materia di immigrazione (vedi il Salvini europarlamentare assenteista), non
esserci a Marrakech gli scorsi 10 e 11 dicembre, quando è stato formalmente
approvato il testo del Global Compact di fronte ai rappresentanti di 150 paesi
del mondo. Assente Conte, assente l’Italia. E qui c’è un corollario: con la
mancata presenza fisica dove sarebbe invece necessario esserci, fa il paio una
presenza eccessiva, tanto da risultare risibile, dove nella sostanza del fare
politica è completamente inutile essere, ovvero sui social. E però questo
basta, oggi, per dire: io c’ero. Non importa dove e non importa se a Marrakech
a discutere di immigrazione o mentre sui social si mostra un piatto di crepes
inondate di besciamella (ormai i social di Salvini sembrano la succursale della
Prova del cuoco). Resterà la sensazione della presenza: lui c’era, era con me
mentre scorrevo la home di Facebook. Tocca a noi, forse, spiegare che postare
foto di uova al tegamino, se sei il ministro degli Interni, non è esattamente
la stessa cosa che essere dove si decidono le sorti dell’Europa e quelle di
milioni di esseri umani, compresi gli italiani che verrebbero prima.
Questione di lana caprina? No. Non direi. Perché non esserci, se sei al governo
e sei stato votato (ribaltando l’assioma caro ai Salvini e ai Di Maio: se non
volevi esserci non ti candidavi), non è un’opzione possibile. Ma viene il
dubbio che l’assenza serva a dire: io non c’entro, non ero d’accordo, se fosse
dipeso da me le cose sarebbero andate diversamente. Ma questo discorso è valido
prima di entrare nella stanza dei bottoni, dopo tocca decidere, farlo in
maniera chiara e, possibilmente, nell’interesse del Paese. Ma l’assenza (mentre
tutto questo accadeva stavo mangiando una pizza, testimoni i fan di Facebook) è
necessaria per poter puntare il dito su qualcun altro. L’Europa, i giornaloni,
gli esperti, le Ong, gli intellettuali.
Ma l’Italia, anzi, i politicanti che la governano, non sono soli, fanno squadra
con altri politicanti con cui condividono presenze, assenze e forse anche uova
al tegamino.
Nell’ostilità al Global Compact for Migrations (torna la distinzione: i
rifugiati sì, ma i migranti non li vogliamo) l’Italia fa squadra con l’Ungheria
di Viktor Orbán, che con i sovranisti di casa nostra ha in comune l’ostilità
per la cultura, verso i migranti e per la stampa libera. Ma oltre a essere
un’alleata un po’ riottosa che non sempre ci è fedele, per noi oggi l’Ungheria
è anche uno strumento di chiaroveggenza, uno specchio magico utile per capire
dove finiremo con il Movimento 5 Stelle e la Lega al governo. E finiremo come
chi è rimasto in silenzio mentre la stampa libera subiva colpi mortali (il
mantra era: viviamo in democrazia, no? A cosa serve l’informazione?), mentre i
centri del sapere venivano chiusi e banditi (chi doveva studiare in Ungheria ha
studiato, gli altri si accontenteranno di Wikipedia), mentre la magistratura
veniva assoggettata al governo (c’è una legge votata di recente dal Parlamento
magiaro che affida la nomina di magistrati al ministro della Giustizia).
Finiremo come l’Ungheria, che oggi scende in piazza per manifestare contro
quella che viene definita la «legge schiavitù», una norma appena approvata dal
Parlamento che aumenta di 150 (da 250 a 400) il monte ore annuale degli
straordinari che - su richiesta dei datori di lavoro - i dipendenti faranno e
che difficilmente rifiuteranno di fare dato che i salari medi non arrivano a
1.000 euro al mese. Ma queste 150 ore aggiuntive potranno essere retribuite in
tre anni, dunque il concetto è: prendiamo per la gola gli affamati,
sfruttiamoli oggi che poi per pagarli c’è sempre tempo. E oltre alla norma in
sé, è drammatica la motivazione che ha portato il Parlamento a votarla e che ha
reso necessaria la sua formulazione: la scarsità di manodopera. Scarsità dovuta
principalmente alla chiusura delle frontiere ai migranti e all’emorragia di
ungheresi che lasciano il Paese. Vi ricorda qualcosa? No perché invece
dovrebbe.
Ma per il premier Orbán e per i suoi fedelissimi, se gli ungheresi scendono in
piazza non è perché vivono male, ma è per colpa di Soros: un capro espiatorio
per ogni male e per ogni stagione.
Esattamente due anni fa apparve un video su Internet risalente alla fine degli
anni Ottanta, a parlare era Viktor Orbán che raccontava della sua borsa di
studio finanziata dalla fondazione di Soros. Avete capito bene: Orbán che era
tra i principali oppositori del regime comunista, aveva ottenuto una borsa di
studio da Soros che finanziava, appunto, gli oppositori al regime comunista.
Ma Orbán non è il solo ad aver studiato grazie a una borsa di studio finanziata
dal suo nemico numero uno. Zoltán Kovács, Segretario di Stato ungherese e
strenuo detrattore di Soros, negli anni Novanta aveva studiato ad Oxford
proprio grazie a una borsa di studio da lui finanziata. E così Maria Schmidt,
storica e ideologa di Orbán. Anche lei ha goduto di una borsa di studio
finanziata da Soros e suo figlio ha ottenuto un dottorato all’Università
dell’Europa Centrale, una delle migliori del Paese, fondata da Soros nel 1991 e
che rischia di dover lasciare il Paese a causa della cosiddetta “legge Soros”,
votata nel 2017 e che impone a tutte le università straniere in Ungheria di
avere un campus anche nel loro Paese d’origine, che in questo caso sono gli
Stati Uniti. “Mica perché sei miliardario puoi decidere autonomamente di
fondare e finanziare una università?”, queste le critiche a Soros da chi, però,
aveva goduto di borse di studio da lui finanziate e che ha avuto gioco facile a
convincere i tanti sofferenti cui non bastano i soldi per arrivare a fine mese.
Gli attacchi a Soros e alla sua opera filantropica seguono due filoni, da un
lato la guerra senza quartiere alle Ong da lui finanziate che tramerebbero per
inondare l’Ungheria di immigrati (Luigi Di Maio con i suoi “taxi del mare” non
ha inventato niente, ha semplicemente guardato all’Ungheria e preso
ispirazione), dall’altro l’attacco alla cultura, sul presupposto che non sia un
bene primario, che siccome siamo in democrazia (non importa quanto illiberale),
studiare e informarsi sono pratiche superflue. Vi ricorda qualcosa? No perché
invece dovrebbe.
Ora, cosa deve accadere in Italia per capire che abbiamo preso una direzione
che non prevede, in nessuna delle sue fasi, che vengano - come da slogan - prima
gli italiani?
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