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domenica 30 dicembre 2018

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Global Compact, se il governo italiano sceglie di non esserci

Nell’ostilità al Global Compact for Migrations l’Italia fa squadra con l’Ungheria di Viktor Orbán, che con i sovranisti di casa nostra ha in comune l’ostilità per la cultura, verso i migranti e per la stampa libera. Ma oltre a essere un’alleata un po’ riottosa che non sempre ci è fedele, per noi oggi l’Ungheria è anche uno specchio magico utile per capire dove finiremo con il Movimento 5 Stelle e la Lega al governo

DI ROBERTO SAVIANO
La Repubblica - 20 DICEMBRE 2018

Il dibattito sul Global Compact alla Camera (seguita rigorosamente su Radio Radicale) ci dà, su questo governo, un’altra informazione, e cioè che l’importante per i suoi rappresentanti è sempre posticipare, non decidere, non firmare: in definitiva, non esserci. Non esserci in Europa quando si decide in materia di immigrazione (vedi il Salvini europarlamentare assenteista), non esserci a Marrakech gli scorsi 10 e 11 dicembre, quando è stato formalmente approvato il testo del Global Compact di fronte ai rappresentanti di 150 paesi del mondo. Assente Conte, assente l’Italia. E qui c’è un corollario: con la mancata presenza fisica dove sarebbe invece necessario esserci, fa il paio una presenza eccessiva, tanto da risultare risibile, dove nella sostanza del fare politica è completamente inutile essere, ovvero sui social. E però questo basta, oggi, per dire: io c’ero. Non importa dove e non importa se a Marrakech a discutere di immigrazione o mentre sui social si mostra un piatto di crepes inondate di besciamella (ormai i social di Salvini sembrano la succursale della Prova del cuoco). Resterà la sensazione della presenza: lui c’era, era con me mentre scorrevo la home di Facebook. Tocca a noi, forse, spiegare che postare foto di uova al tegamino, se sei il ministro degli Interni, non è esattamente la stessa cosa che essere dove si decidono le sorti dell’Europa e quelle di milioni di esseri umani, compresi gli italiani che verrebbero prima. 

Questione di lana caprina? No. Non direi. Perché non esserci, se sei al governo e sei stato votato (ribaltando l’assioma caro ai Salvini e ai Di Maio: se non volevi esserci non ti candidavi), non è un’opzione possibile. Ma viene il dubbio che l’assenza serva a dire: io non c’entro, non ero d’accordo, se fosse dipeso da me le cose sarebbero andate diversamente. Ma questo discorso è valido prima di entrare nella stanza dei bottoni, dopo tocca decidere, farlo in maniera chiara e, possibilmente, nell’interesse del Paese. Ma l’assenza (mentre tutto questo accadeva stavo mangiando una pizza, testimoni i fan di Facebook) è necessaria per poter puntare il dito su qualcun altro. L’Europa, i giornaloni, gli esperti, le Ong, gli intellettuali.
Ma l’Italia, anzi, i politicanti che la governano, non sono soli, fanno squadra con altri politicanti con cui condividono presenze, assenze e forse anche uova al tegamino. 
Nell’ostilità al Global Compact for Migrations (torna la distinzione: i rifugiati sì, ma i migranti non li vogliamo) l’Italia fa squadra con l’Ungheria di Viktor Orbán, che con i sovranisti di casa nostra ha in comune l’ostilità per la cultura, verso i migranti e per la stampa libera. Ma oltre a essere un’alleata un po’ riottosa che non sempre ci è fedele, per noi oggi l’Ungheria è anche uno strumento di chiaroveggenza, uno specchio magico utile per capire dove finiremo con il Movimento 5 Stelle e la Lega al governo. E finiremo come chi è rimasto in silenzio mentre la stampa libera subiva colpi mortali (il mantra era: viviamo in democrazia, no? A cosa serve l’informazione?), mentre i centri del sapere venivano chiusi e banditi (chi doveva studiare in Ungheria ha studiato, gli altri si accontenteranno di Wikipedia), mentre la magistratura veniva assoggettata al governo (c’è una legge votata di recente dal Parlamento magiaro che affida la nomina di magistrati al ministro della Giustizia).
Finiremo come l’Ungheria, che oggi scende in piazza per manifestare contro quella che viene definita la «legge schiavitù», una norma appena approvata dal Parlamento che aumenta di 150 (da 250 a 400) il monte ore annuale degli straordinari che - su richiesta dei datori di lavoro - i dipendenti faranno e che difficilmente rifiuteranno di fare dato che i salari medi non arrivano a 1.000 euro al mese. Ma queste 150 ore aggiuntive potranno essere retribuite in tre anni, dunque il concetto è: prendiamo per la gola gli affamati, sfruttiamoli oggi che poi per pagarli c’è sempre tempo. E oltre alla norma in sé, è drammatica la motivazione che ha portato il Parlamento a votarla e che ha reso necessaria la sua formulazione: la scarsità di manodopera. Scarsità dovuta principalmente alla chiusura delle frontiere ai migranti e all’emorragia di ungheresi che lasciano il Paese. Vi ricorda qualcosa? No perché invece dovrebbe.
Ma per il premier Orbán e per i suoi fedelissimi, se gli ungheresi scendono in piazza non è perché vivono male, ma è per colpa di Soros: un capro espiatorio per ogni male e per ogni stagione.
Esattamente due anni fa apparve un video su Internet risalente alla fine degli anni Ottanta, a parlare era Viktor Orbán che raccontava della sua borsa di studio finanziata dalla fondazione di Soros. Avete capito bene: Orbán che era tra i principali oppositori del regime comunista, aveva ottenuto una borsa di studio da Soros che finanziava, appunto, gli oppositori al regime comunista.
Ma Orbán non è il solo ad aver studiato grazie a una borsa di studio finanziata dal suo nemico numero uno. Zoltán Kovács, Segretario di Stato ungherese e strenuo detrattore di Soros, negli anni Novanta aveva studiato ad Oxford proprio grazie a una borsa di studio da lui finanziata. E così Maria Schmidt, storica e ideologa di Orbán. Anche lei ha goduto di una borsa di studio finanziata da Soros e suo figlio ha ottenuto un dottorato all’Università dell’Europa Centrale, una delle migliori del Paese, fondata da Soros nel 1991 e che rischia di dover lasciare il Paese a causa della cosiddetta “legge Soros”, votata nel 2017 e che impone a tutte le università straniere in Ungheria di avere un campus anche nel loro Paese d’origine, che in questo caso sono gli Stati Uniti. “Mica perché sei miliardario puoi decidere autonomamente di fondare e finanziare una università?”, queste le critiche a Soros da chi, però, aveva goduto di borse di studio da lui finanziate e che ha avuto gioco facile a convincere i tanti sofferenti cui non bastano i soldi per arrivare a fine mese.
Gli attacchi a Soros e alla sua opera filantropica seguono due filoni, da un lato la guerra senza quartiere alle Ong da lui finanziate che tramerebbero per inondare l’Ungheria di immigrati (Luigi Di Maio con i suoi “taxi del mare” non ha inventato niente, ha semplicemente guardato all’Ungheria e preso ispirazione), dall’altro l’attacco alla cultura, sul presupposto che non sia un bene primario, che siccome siamo in democrazia (non importa quanto illiberale), studiare e informarsi sono pratiche superflue. Vi ricorda qualcosa? No perché invece dovrebbe. 
Ora, cosa deve accadere in Italia per capire che abbiamo preso una direzione che non prevede, in nessuna delle sue fasi, che vengano - come da slogan - prima gli italiani? 

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