Le cupe fantasie del discorso inaugurale di Trump
di Simon Schama
Non
lasciatevi ingannare dalle chimere di un uomo rabbioso. Di tutte le fantasie
perpetrate in quel cupo delirio che è stato il discorso inaugurale di Donald
Trump, nessuna è più assurda di quel presentare l’uomo dell’ascensore dorato
come Difensore del Popolo. La crociata del presidente in nome dell’americano
medio inizierà con un immenso taglio delle imposte per i ricchi, e se la
famiglia dell’americano medio dovesse avere pre-esistenti problemi di salute
che le compagnie di assicurazione non considerano ricevibili, vedrà svanire la
propria assistenza sanitaria. Con amici del genere…
Come il
senatore Roy Blunt ha ricordato alla folla nella sua introduzione, i discorsi
inaugurali per tradizione elevano, riuniscono. Nel 1860 Abramo Lincoln fece
appello «ai migliori angeli della nostra natura», malgrado la repubblica fosse
sull’orlo della guerra civile. Nel 1932, al culmine della Grande Depressione,
Franklin Roosevelt rassicurò un’America angosciata che «non aveva nulla da
temere, se non la paura stessa». Ronald Reagan promise «un’alba» all’America
colpita dall'inflazione e umiliata dalla crisi degli ostaggi in Iran.
Questo
presidente, invece, considera proprio dovere assicurarsi che l’America sappia
quanto fosse miserevole prima della sua venuta, malgrado i fatti puntino in
direzione opposta. Assistiamo forse a «un massacro americano» nella Chicago
delle bande criminali, ma a livello nazionale il tasso di criminalità è al
livello più basso da decenni. L’economia che Trump dipinge inaridita dall'outsourcing
è alla piena occupazione, e il Dow Jones ai massimi. Durante il secondo mandato
di Barack Obama gli impieghi nella manifattura sono tornati in America, non
viceversa. E quelli che non tornano sono in gran parte la conseguenza di
automazione e robotica; e continueranno a non tornare, a meno di non mettere
sotto chiave i dirigenti aziendali finché non accettino di abbassare la
produttività.
Tutto questo
non vi è nuovo? Certo che no. Il 45° presidente non è soltanto un uomo
irascibile; malgrado continui a ripetere che lavorerà «per la gente» finché
avrà fiato in corpo, è anche un indolente che non ha voglia di leggere i
rapporti quotidiani dell’intelligence, e il cui discorso era un arrangiamento
ridotto e mal scongelato della tirata pronunciata a Cleveland (quando accettò
la nomination repubblicana, ndt): una provocazione rabberciata di altrui
retorica di seconda mano. “America First” era lo slogan coniato da Woodrow
Wilson nel 1916, prima di cambiare idea e portare l’America in guerra; e poi
riciclato quale vessilo xenofobo per la campagna di Pat Buchanan, nel 2000.
“Far di nuovo grande l’America” era slogan di Reagan, per la sua campagna del
1980; mentre “l’uomo dimenticato” è stato vergognosamente rubato alla campagna
di FDR, 1932. Steve Bannon, il chief strategist del presidente, sta
forse pensando di ridare vita agli investimenti nelle infrastrutture del New
Deal, ma se la memoria storica ha un senso, Roosevelt in realtà non iniziò con
un taglio fiscale massiccio per quell’1% di contribuenti della fascia più alta.
Con ogni
probabilità il presidente non si darà pensiero per le minutaglie, riemergendo
ogni tanto dal campo da golf per ringhiare contro dirigenti terrorizzati,
minacciando di portargli via i loro giochetti se non fileranno immediatamente
ad aprire una fabbrica di qualche aggeggio. Il vero lavoro pesante verrà
delegato al suo governo, che corrisponde a quello che i greci chiamavano
“kakistocrazia”: il governo dei meno qualificati.
Tra loro c’è
chi ha pendenti etici giganteschi, come Tom Price, nominato come segretario per
la Sanità e i Servizi umani, impegnato in trading di titoli di aziende su cui
il Congresso stava deliberando. Poi ci sono quelli semplicemente incompetenti,
senza alcuna esperienza o conoscenza dei ministeri che dovrebbero dirigere. Ma
questo non dispiace ai falchi repubblicani, dal momento che l’obiettivo finale
di questa presidenza è l’autodistruzione del settore pubblico. Ma quando si
tratta invece di Rick Perry, nominato come segretario all’Energia senza sapere
che il proprio dipartimento è responsabile delle scorte nucleari americane,
l’incredula derisione si fa allarme rosso.
E c’è dell’altro.
Grazie agli anacronismi del collegio elettorale, il voto di una minoranza ha
imposto le priorità dell’America rurale e dei piccoli centri alle grandi,
popolose città cosmopolite. Tra i tagli al budget proposti nel
ridimensionamento draconiano del presidente Trump, potete scommettere il collo
che non verranno sfiorati gli straripanti sussidi ai grandi business agricoli.
Il resto del mondo potrebbe essere tentato di accogliere con una scrollata di
spalle questa sterzata verso l’isolazionismo, quest’avvento di un’America più
piccola e stretta, e non più grande: se non fosse per il fatto che per quanto
Trump sia determinato a spazzarla via a suon di decreti, l’interconnessione
globale è una realtà inevitabile della vita nel XXI secolo. Un’America che si
contrae può lasciare un buco nero di pericoli per il resto del mondo: che si
tratti di scivolare in guerre commerciali, di abbandonare l’accordo sul
controllo del clima o, cosa più pericolosa di tutte, disintegrare la Nato e le
alleanze del Pacifico. Tutto questo fa pensare alla Russia di essere davvero di
nuovo grande. Dopo essere intervenuto nella politica americana per veder
installare alla Casa Bianca il proprio servizievole amico, perché Vladimir
Putin non dovrebbe spostare le truppe sui confini baltici? Le reiterate
dichiarazioni di Trump sull’obsolescenza della Nato, i dubbi che ha gettato
sull’obbligo, sancito dal Patto atlantico, di considerare l’attacco a un membro
dell’alleanza come un attacco a tutti, sono un incoraggiamento all’avventurismo
dei russi.
L’abbandono
dell’America del Piano Marshall, della Carta atlantica e della Nato,
dell’America che con FDR, Eisenhower, con John F Kennedy e con Reagan considerò
la libertà e la sicurezza dell’Europa e del resto del mondo come parte
intrinseca dei propri doveri democratici, non è solo una prospettiva
vergognosa, ma terrificante. Naturalmente è stata salutata in Europa da
fascisti e ultranazionalisti con quella gioia perversa dei bulli di spiaggia
che distruggono a calci un castello di sabbia. Ma loro che immaginano un mondo
di Stati nazione separati e disconnessi, anche loro vivono in una fantasia
pericolosa. Se non li fermiamo subito, i loro sogni diventeranno i nostri
incubi.
«Il tempo
delle parole vuote è finito. È l’ora di agire», ha proclamato il presidente. La
maggioranza degli americani, moltitudini che guardano sbigottiti e nauseati
alle sue proposte, devono prendere queste parole alla lettera.
Copyright The Financial Times Limited 2017
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