Meglio non fare tanto gli snob con le operazioni di disinformazia russa
Si
dice: non mi faccio dire come votare da un tizio su Twitter. Sarebbe
bello se fosse davvero così. Però ci sono un paio di elementi che
suggeriscono di essere pessimisti
Il Foglio - 4 Novembre 2017 alle 06:19
Come si lavora nelle fabbriche dei troll di Putin
Un
ex dipendente svela alla tv russa i tentativi riusciti di interferire
nella politica americana, fa tutti i nomi e dice: era dadaismo
Il Foglio - 30 Ottobre 2017
“Era postmodernismo puro. Postmodernismo, dadaismo, surrealismo”, dice Alan Baskayev
alle telecamere dell’emittente russa Dozhd Tv. Pelato, occhiali da
vista e una maglietta rossa con la bandiera a stelle a strisce e al
centro la scritta “Top Out”, Baskayev è il primo impiegato di una
fabbrica di troll che ha rivelato la sua identità e ha spiegato come
attraverso i social media i russi sono riusciti a interferire nelle le
presidenziali americane. “Ci divertivamo, ci chiedevano cose assurde e
noi ci passavamo la notte”, dice l’ex troll che ha lavorato per la
Internet Research Agency di San Pietroburgo, l’agenzia accusata di aver
lanciato una massiccia campagna attraverso le piattaforme social per
fomentare le tensioni razziali durante le elezioni del 2016. Alan non ha
smentito nulla e durante l’intervista si è cimentato in un dettagliato
racconto sulla vita dei troll all’interno dell’agenzia: “Avevo bisogno
di soldi, come tutti”, dice senza l’intento di scusarsi. “Guadagnavo
cinquantamila rubli, circa 860 dollari, ben al di sopra della media”.
L’intervistatrice non fa domande, non servono, l’ex troll è
immerso nel suo monologo. “Subito ho pensato che fosse un buon affare,
non ero obbligato a fare i conti con la mia coscienza perché questo
lavoro non aveva nulla a che fare con la coscienza”. Baskayev ha ammesso
di aver lavorato per l’agenzia russa tra il novembre del 2014 e
l’aprile del 2015, fa i nomi, cita i luoghi e le strategie, non
smentisce nessuna accusa e soprattutto lo fa con leggerezza. Durante
l’intervista esce fuori anche il nome di Yevgeny Prigozhin, l’uomo
d’affari russo noto come chef di Putin, che secondo i racconti di
Baskayev sarebbe “il nostro uomo, è lui che ci dava i soldi”.
La confessione è molto diversa rispetto alle scene alle quali
avevamo assistito finora: Baskayev non si presenta incappucciato, non
viene ripreso alle spalle, non ha la voce modificata. Guarda dritto la
telecamera e ammette: “Il mio compito era quello di partecipare a
discussioni in forum che parlassero di politica”, e spiega, “se tu
digitavi la parola ‘politics’ in un forum, i primi risultati e
probabilmente anche quelli sulla seconda pagina, erano nostri. Il
compito dei troll era quello di monopolizzare le discussioni, in modo
che uscissero solo risultati mirati”. Stessa cosa se l’utente scriveva
“politics forum U.S.”. Dozhd Tv cita tre ex troll che hanno collaborato
in passato e che, preferendo rimanere anonimi, avevano rivelato il nome
di Dzheykhun Aslanov, un ragazzo di ventisette anni di origine
azerbaigiana che si faceva chiamare “Jay Z“. “Jay era un pessimo
manager, non era competente”, conferma Baskayev. “Francamente parlando
era proprio scarso, ma aveva séguito”.
Dopo aver lasciato la Internet Research Agency, l’ex troll si è
trasferito in Thailandia, dove lavora come insegnante di russo, e da lì
ha spiegato all’emittente russa come veniva fatto il lavoro.
“Interpretavo vari personaggi, ero uno zotico del Kentucky, poi assumevo
il ruolo di un uomo bianco del Minnesota che per tutta la vita non
aveva fatto altro che lavorare, pagare le tasse e ora era ridotto in
povertà, poi, quindici minuti dopo mi trasformavo e iniziavo a scrivere
nello slang usato dai neri di New York”. Così i troll prendevano il
controllo dei forum. “Usavamo dei proxy server, ossia dei server che
facevano da intermediari, per evitare di essere localizzati”, ma poi
spiega: “Regolarmente venivamo bloccati”. In un forum, sui venti account
che Baskayev utilizzava, soltanto due non sono stati bannati. “Ci
divertivamo, era un baccanale. Eravamo dei ventenni, giovanotti allegri
impegnati a fare delle cose orribili”, ride.
Baskayev era nella squadra dei “giovanotti allegri” che hanno
realizzato un falso sex tape di Hillary Clinton: “Avevamo assunto un
nero e una donna che somigliasse alla Clinton, dovevamo pagarli per
girare un porno da diffondere in rete, poi non lo abbiamo fatto, ma lei
era uguale”, dice esaltat. “Però l’accento non era quello giusto”.“Ho
dovuto lasciare, il gioco stava diventando troppo pericoloso”, dice
Baskayev in chiusura, “C’è quel meme di una fabbrica di troll in cui
tutti lavorano in silenzio, a testa bassa sovrastati da una foto di
Putin e da un bandiera russa”, scuote la testa. “No no, non era così. Io
facevo il turno di notte e noi abbiamo fatto cose folli, ridicole,
creative. Arte”.
La Silicon Valley è stata uno strumento di manipolazione russo, non c'è difesa che tenga
Facebook,
Google e Twitter ieri e oggi al Parlamento americano per deporre. La
guerra di lobby e i nuovi dati sui troll del Cremlino
di
Eugenio Cau
Roma. Fino a oggi, la Silicon Valley non ha sentito il peso
della crisi politica che le è scoppiata in faccia dopo le elezioni
americane dell’anno scorso. Le trimestrali veleggiano, i ricavi crescono
a doppia cifra, gli utenti, secondo gli ultimi sondaggi, non hanno
ridotto particolarmente il loro livello di fiducia in Facebook, Twitter e
Google. La bolla di indignazione che si sta gonfiando a Washington e
sui media internazionali, quella che accusa Google e i grandi social
network di essere stati uno strumento più o meno inconsapevole – ma
certo colpevole di omesso controllo – dei piani di manipolazione del
processo democratico americano da parte della Russia e del Cremlino,
finora non è scoppiata nel mondo reale. Ma ora che questi piani vengono
alla luce più nel dettaglio, che la loro effettiva portata si amplifica
oltre ogni ipotesi, che i loro collegamenti reali o presunti con
l’Amministrazione Trump iniziano a produrre mandati d’arresto, che la
definizione generica di “troll russo” diventa specifica e porta dritto
al Cremlino, potrebbe diventare più difficile per le grandi compagnie
tech americane dire: ci dispiace, siamo stati giocati, non succederà
più.
Ieri la commissione Giustizia del Senato, presieduta dal falco
repubblicano Lindsay Graham, ha interrogato Colin Stretch, responsabile
legale di Facebook, Richard Salgado, direttore del settore sicurezza di
Google, e Sean Edgett, responsabile legale di Twitter. Oggi ci sarà un
nuovo giro di incontri, con Stretch ed Edgett che si presenteranno
davanti alle commissioni Intelligence della Camera e del Senato,
raggiunti da Kent Walker, il responsabile legale di Google. Il contenuto
delle deposizioni delle tre aziende tech è stato passato ai media
americani fin da lunedì notte, e i numeri sono molto diversi da quelli
diffusi pubblicamente da Facebook, Twitter e Google. Finora le grandi
compagnie della Valley avevano diffuso i dati delle inserzioni
pubblicitarie di carattere politico comprate dagli agenti russi sulle
loro piattaforme. Com’è comprensibile, si trattava di numeri
relativamente piccoli: Facebook diceva che gli annunci comprati a sua
insaputa dalla Internet Research Agency (Ira) – la compagnia legata al
Cremlino che è diventata, secondo l’intelligence americana, la centrale
delle operazioni di manipolazione politica da parte dei russi – erano
stati visti dieci milioni di volte. Il numero sembra grande, ma si perde
nel mare delle visualizzazioni di Facebook. Il problema è che nelle
ultime rivelazioni pubblicate dai giornali Facebook integra il numero
degli annunci pagati con tutti gli altri contenuti pubblicati dall’Ira,
come post, foto ed eventi, ed ecco che improvvisamente il numero di
cittadini americani raggiunti dai contenuti realizzati da agenti russi
con scopi di manipolazione politica raggiunge la cifra ragguardevole di
29 milioni. Se poi ci spostiamo dall’Ira e contiamo tutti gli account e
le pagine gestiti da agenti russi, Facebook arriva a contare che sono
stati raggiunti da contenuti propalati da entità vicine al Cremlino 126
milioni di americani tra il gennaio 2015 e l’agosto 2017. I cittadini
americani con più di 18 anni sono circa 220 milioni. Questo significa
che ben più della metà della popolazione adulta americana ha visto
contenuti prodotti da agenti russi negli ultimi due anni. Certo, gli
americani hanno visto anche un sacco di altre cose: nello stesso
periodo, gli utenti hanno visualizzato 11 mila miliardi di contenuti. Ma
ecco: gli agenti russi non si limitavano a postare meme anti Hillary o a
scrivere invettive su Facebook. Il peso specifico di una campagna di
disgregazione democratica ben orchestrata da professionisti assoldati da
una potenza esterna è infinitamente maggiore del rumore di fondo
abituale che si genera sui social.
In un’inchiesta pubblicata lunedì, per esempio, il Wall Street
Journal racconta come, usando Facebook, gli agenti russi fossero
riusciti a organizzare e finanziare decine di eventi e manifestazioni
nel mondo reale riguardanti temi altamente divisivi per la società
americana, come i conflitti razziali e le violenze della polizia.
Secondo il Journal nel luglio 2016, mentre l’America era tormentata
dalle uccisioni di giovani afroamericani da parte di poliziotti troppo
zelanti, gli agenti russi organizzavano nello stesso giorno a Dallas una
manifestazione “Blue lives matter” pro polizia, e a Minneapolis
un’altra marcia a sostegno di Philando Castile, un ragazzo nero ucciso
durante un controllo di polizia. A entrambi gli eventi ha partecipato
qualche centinaio di persone. Come si nota, gli agenti russi non
cercavano di sostenere qualche partito o formazione, il loro unico
obiettivo era disseminare discordia e divisione, creando meccanismi di
disgregazione del tessuto sociale.
Facebook è il principale imputato, ma Twitter non è messo meglio. Secondo i documenti congressuali, gli agenti russi dell’Ira hanno pubblicato sul social network 131 mila tweet di argomento politico tra il settembre e il novembre 2016, e in tutto i tweet ricollegabili a organizzazioni russe sono 1,4 milioni, visualizzati in tutto 288 milioni di volte. Anche in questo caso Twitter sottolinea che si tratta di meno dell’un per cento dei tweet totali, esattamente come Google, che ha scoperto che account vicini al governo russo hanno pubblicato su YouTube video di carattere politico visti 306 mila volte in America.
I giganti tech, per la prima volta nella loro storia, si trovano
così a dover difendersi davanti al Parlamento americano dall’accusa di
essere stati strumento di un grande piano di disgregazione democratica
prodotto da una potenza straniera. In teoria, parlare davanti a deputati
e senatori non dovrebbe preoccupare i rappresentanti di Google,
Facebook e Twitter: come riporta Politico, i tre hanno contribuito alle
campagne elettorali di 52 dei 55 parlamentari che compongono le tre
commissioni (la commissione Giustizia del Senato e le commissioni
Intelligence delle due Camere). Le condizioni però sono molto cambiate
rispetto a quando i grandi social erano i beniamini di Washington, e
oggi le tre aziende tech hanno molto da temere da un legislativo ostile.
Alcuni parlamentari hanno già presentato proposte di legge per
costringere la Silicon Valley a un maggior livello di trasparenza su chi
pubblicizza e chi visualizza i contenuti di tipo politico. Facebook e
Twitter hanno già cercato di correre ai ripari adottando da sé misure di
maggiore trasparenza, e Facebook per esempio ha creato un database
pubblico degli annunci pubblicati sul suo social. L’intersezione tra la
crisi tecnologica e quella politica legata alle indagini del procuratore
speciale Mueller, però, fa pensare che per Facebook, Twitter e Google
sia soltanto l’inizio.
Facebook è il principale imputato, ma Twitter non è messo meglio. Secondo i documenti congressuali, gli agenti russi dell’Ira hanno pubblicato sul social network 131 mila tweet di argomento politico tra il settembre e il novembre 2016, e in tutto i tweet ricollegabili a organizzazioni russe sono 1,4 milioni, visualizzati in tutto 288 milioni di volte. Anche in questo caso Twitter sottolinea che si tratta di meno dell’un per cento dei tweet totali, esattamente come Google, che ha scoperto che account vicini al governo russo hanno pubblicato su YouTube video di carattere politico visti 306 mila volte in America.
La Russia ci batte al nostro gioco
Perché siamo così in ritardo a capire cosa hanno fatto i russi con Google, Facebook e Twitter
Il Foglio - 11 Ottobre 2017
@TEN_GOP, per essere un vero troll russo bisogna diventare un autentico patriota americano
L’Atlantic
Council ha ricostruito la storia di un account che sui social è riuscito
a diventare una voce autorevole dell'estrema destra
“Per almeno due anni”, scrive Nimmo, “ha elogiato Trump, ha encomiato l’esercito americano, ha promosso la Brexit e le destre europee”. L’account interagiva regolarmente con gli altri conservatori, attaccava Hillary Clinton, i liberali, i musulmani e i media. Twitter ha confermato i sospetti e lo ha eliminato rimuovendo i suoi tweet. Alcuni però sono rimasti in un archivio, tra le segnalazioni che PropOrNot, agenzia che si occupa di rintracciare la propaganda russa, aveva fatto all’Atlantic Council.
Sono stati i giornali e i giornalisti a dare a @TEN_GOP lo status di rappresentante affidabile dell’estrema destra. Prima Glenn Greenwald di Intercept, poi gli stessi Washington Post, LA Times e Huffington Post lo hanno presentato come una voce della fazione più conservatrice del Partito repubblicano. Seguendo queste strategie, per più di diciotto mesi, un account russo è riuscito a mascherarsi da americano, è stato un potente e autorevole megafono di disinformazione. Il suo successo, come scrive Nimmo, è dovuto soprattutto all’approccio paziente e graduale. Dapprima @TEN_GOP si è limitato a imitare un qualsiasi commentatore di estrema destra, riproponeva i tweet delle voci più autorevoli, le commentava. Poi la sua presenza costante sui social e soprattutto la risposta degli altri utenti lo hanno legittimato fino a trasformarlo in una autorità. Tweet dopo tweet, un troll russo si è trasformando in un patriota americano, in un nemico dell’islam e in un critico del liberismo. Il profilo perfetto dell’elettorato trumpiano. Forse troppo.
Lo scandalo russo della Silicon Valley mostra che la dittatura dei clic è la tomba della democrazia
I
giganti tecnologici sono diventati un pericolo per la
democrazia? Facebook e Google, oggi, hanno un monopolio quasi assoluto
su alcuni elementi chiave delle democrazie occidentali
di
Eugenio Cau
Il Foglio - 2 Novembre 2017
Era successo con Big Food e Big Tobacco, con i grandi network televisivi negli anni Duemila, al culmine della loro potenza, e adesso è arrivato il turno di Big Tech. Tra ieri e martedì tre diverse commissioni del Congresso americano hanno sentito in udienza i rappresentanti legali di Facebook, Google e Twitter ponendosi una spaventosa domanda di fondo: i giganti tecnologici che possiedono i nostri dati personali e controllano il modo in cui i cittadini si informano sono diventati un pericolo per la democrazia?
I giganti stessi, interrogati, non hanno fornito risposte soddisfacenti. Tutti e tre sono stati accusati di essere diventati strumento inconsapevole di una campagna di disgregazione del tessuto sociale e democratico americano (e occidentale) portata avanti da una potenza straniera, la Russia. Su questo non ci piove: tutti e tre hanno ammesso di essere stati la piattaforma di diffusione di falsità e disinformazione da parte di agenti russi coordinati a livello centralizzato, e hanno ammesso che queste falsità hanno raggiunto centinaia di milioni di elettori prima e dopo la campagna elettorale americana dell’anno scorso.
La democrazia si basa sulla competizione delle idee, ma il dominio di poche grandi compagnie sta trasformando internet (ergo: il posto dove oggi più che mai le idee si formano) in un luogo anti competitivo. Lo vediamo perfino in ambito tecnologico, dove le startup muoiono mangiate dai giganti: dove sono le nuove Uber e Airbnb? La Silicon Valley, luogo di nascita della disruption, massimo principio di concorrenza, è dominata oggi da pochi giganteschi conglomerati che non permettono alle nuove aziende di farsi strada. Per salvare la democrazia dalla dittatura del clic e dalle ingerenze di potenze malevole bisogna riportare la competizione in quello che era il suo tempio.
Sulla disinformazia russa non guasta fare meno battutine e più attenzione
Chi butta in vacca il dossier sulla propaganda del Cremlino dimentica un dettaglio: è un problema reale
Roma. Ovviamente appena un argomento serio tocca la politica italiana si sgonfia e perde di credibilità. Sta succedendo così anche con il dossier gigantesco che riguarda la disinformazione russa – un dossier che non è spuntato fuori da adesso: è un problema da anni – che qui da noi è finito in mezzo al dibattito che precede le elezioni del 2018 e quindi è stato svilito e spernacchiato come se fosse un’invenzione scema, una bischerata di cui farsi beffe. “Ha stato Putin”, dicono quelli che si credono furbi e si danno di gomito.
“Ha stato Putin” però è una freddurina che non fa ridere, la campagna di disinformazione russa bene organizzata e ben finanziata esiste. L’Agenzia di ricerca internet conosciuta anche come Glavset o come “la fabbrica dei troll di San Pietroburgo” dove più di mille dipendenti stipendiati dal governo di Mosca si danno il cambio ogni giorno per disseminare propaganda: è reale. I russi che ci lavorano e sono pagati per fare finta di essere americani e spargere commenti su Twitter e Facebook: sono reali. Il rapporto delle agenzie di intelligence americane che nel 2016 conclusero che il governo russo ha diretto un’offensiva a favore di Donald Trump durante le elezioni e che questa campagna include sia l’hacking dei computer del Partito democratico (e guarda un po’, nulla sui repubblicani) sia la circolazione deliberata e abnorme di notizie false: è reale pure quello. Gli esempi pacchiani di disinformazia del Cremlino sono da anni discussi e smascherati, molto prima che in Italia si cominciasse a parlarne in modo superficiale. Quando un aereo di linea con 283 passeggeri a bordo fu abbattuto nel luglio 2014 vicino al confine fra Ucraina e Russia, il ministero della Difesa russo ha offerto molte spiegazioni alternative e fantasiose – e tutte sbugiardate – per coprire il fatto che l’aereo è stato colpito da un missile terra-aria russo che operava in una zona controllata dai separatisti filorussi, come hanno stabilito i periti della commissione d’inchiesta olandese che si è occupata del caso (perché la maggior parte dei passeggeri era olandese).
Insomma, la disinformazia russa non decide le sorti del mondo – dalla Brexit alle elezioni americane al referendum in Italia del 4 dicembre 2016 – come dicono qui in Italia soprattutto quelli che vogliono buttare tutto in burla. Ma è un fattore da tenere d’occhio. Lo spiega di nuovo la giornalista di lingua russa Julia Ioffe sulla rivista americana The Atlantic, in un pezzo di ieri: Vladimir Putin non è questo eccelso manipolatore che governa le elezioni altrui – sarebbe essere troppo generosi con lui – è più semplicemente uno che ci prova, uno scommettitore che ci tenta e che a volte vince.
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