Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

mercoledì 15 agosto 2018

Metodo putiniano /C'era una volta l'America

Meglio non fare tanto gli snob con le operazioni di disinformazia russa

Si dice: non mi faccio dire come votare da un tizio su Twitter. Sarebbe bello se fosse davvero così. Però ci sono un paio di elementi che suggeriscono di essere pessimisti



Il Foglio - 4 Novembre 2017 alle 06:19

Roma. Non saremo mai così fessi da farci condizionare prima del voto da un post su Facebook vero? Questa settimana si è parlato molto delle interferenze via internet da parte del governo russo per guidare gli elettori in altri paesi. E’ cominciata con le audizioni di Facebook, Twitter e Google davanti al Congresso americano – culminate nel silenzio patetico alla domanda: “Accettavate pubblicità politiche pagate in rubli. Come avete fatto a non fare due più due?” – ed è finita con la copertina dell’Economist di ieri, “La minaccia dei social media alla democrazia”. Ma la risposta a questo dossier che ogni giorno diventa sempre più dettagliato sui giornali americani è in molti casi una scrollata di spalle. Non mi faccio dire come votare da un tizio su Twitter, non me lo farò dire mai. Sarebbe bello se fosse davvero così e se le campagne di disinformazione su internet fossero un elemento marginale del gioco politico, e però ci sono un paio di elementi che suggeriscono di essere pessimisti.
Il primo è che per ogni elettore informato che si sente invulnerabile alla propaganda di bassa fattura ce ne sono di più che invece sono esposti – espostissimi – a questo genere di operazioni. Secondo il centro Pew di ricerca statistica, il 67 per cento degli americani nel 2017 (fino al mese di agosto) ha appreso alcune notizie dai social media ogni giorno, nel 2016 era il 62 per cento. Gli americani che vedono le notizie “quasi soltanto” su Facebook sono molti meno, circa il 20 per cento, ma si tratta pur sempre di un quinto dell’audience e nessuno sano di mente – in particolare il direttore di un canale televisivo o il capo di una campagna elettorale – direbbe che il 20 per cento è una percentuale bassa. Inoltre sappiamo che è destinata ad aumentare. Insomma: ci sono elettori che leggono l’ultimo libro di Roberto Calasso e hanno una mazzetta di quotidiani e riviste sul tavolo di lavoro, ma sono rappresentativi della maggioranza? Probabilmente no.
Il secondo motivo per essere pessimisti è che queste operazioni di disinformazia non sono così grossolane come le immaginiamo. In questi giorni stiamo scoprendo che i troll russi che impersonavano cittadini americani su Twitter facevano un lavoro di ottimo livello, sopra ogni aspettativa. “Jenna Abrams”, una finta blogger americana recitata su Twitter da un russo, creava molta attenzione, aveva un seguito di settantamila persone, battibeccava con l’ex ambasciatore americano in Russia, Michael McFaul, e faceva una sfegatata opera di proselitismo a favore di Trump. Settantamila è un numero basso? Non sappiamo quanti si sono fatti persuadere dai suoi argomenti, forse nessuno? Può essere, ma “Jenna Abrams” è stata citata da Yahoo News, Washington Post, Sky News, Telegraph, Independent, Business Insider, National Post, Cnn, Bbc, Times of India, France 24, BuzzFeed, Daily Mail, New York Times e molti altri, inclusi ovviamente Russia Today e Sputnik, i due canali ufficiali della propaganda di Mosca. Immaginate le risate, alla sera, negli uffici dell’agenzia del governo russo che si occupa di prendere per scemi gli iscritti a Twitter con la foto falsa di una bella blogger americana. Costo quasi zero, effetti ancora non compresi. Quanti follower ci vogliono per definire un clima politico? E contano più mille follower comuni oppure un follower prestigioso? Michael Flynn, ex consigliere per la Sicurezza americana di Trump, durante la campagna seguiva cinque impostori russi e a volte li ritwittava. E anche la manager della campagna Kellyanne Conway, il figlio di Trump Donald Trump Jr. e il direttore della campagna digitale Brad Parscale seguivano questi account finti mantenuti da dipendenti pagati con i soldi delle tasse dei contribuenti russi. E sebbene ci fossero molti sospetti tra alcuni unhappy few, la stragrande maggioranza trovava lo spettacolo perfettamente normale. La vittoria di Trump dovrebbe servire come promemoria a chi ancora crede che siamo meglio di così: siamo figli di un bot minore, meglio fare attenzione e mettersi a studiare.

Come si lavora nelle fabbriche dei troll di Putin

Un ex dipendente svela alla tv russa i tentativi riusciti di interferire nella politica americana, fa tutti i nomi e dice: era dadaismo
 Il Foglio - 30 Ottobre 2017

“Era postmodernismo puro. Postmodernismo, dadaismo, surrealismo”, dice Alan Baskayev alle telecamere dell’emittente russa Dozhd Tv. Pelato, occhiali da vista e una maglietta rossa con la bandiera a stelle a strisce e al centro la scritta “Top Out”, Baskayev è il primo impiegato di una fabbrica di troll che ha rivelato la sua identità e ha spiegato come attraverso i social media i russi sono riusciti a interferire nelle le presidenziali americane. “Ci divertivamo, ci chiedevano cose assurde e noi ci passavamo la notte”, dice l’ex troll che ha lavorato per la Internet Research Agency di San Pietroburgo, l’agenzia accusata di aver lanciato una massiccia campagna attraverso le piattaforme social per fomentare le tensioni razziali durante le elezioni del 2016. Alan non ha smentito nulla e durante l’intervista si è cimentato in un dettagliato racconto sulla vita dei troll all’interno dell’agenzia: “Avevo bisogno di soldi, come tutti”, dice senza l’intento di scusarsi. “Guadagnavo cinquantamila rubli, circa 860 dollari, ben al di sopra della media”.
L’intervistatrice non fa domande, non servono, l’ex troll è immerso nel suo monologo. “Subito ho pensato che fosse un buon affare, non ero obbligato a fare i conti con la mia coscienza perché questo lavoro non aveva nulla a che fare con la coscienza”. Baskayev ha ammesso di aver lavorato per l’agenzia russa tra il novembre del 2014 e l’aprile del 2015, fa i nomi, cita i luoghi e le strategie, non smentisce nessuna accusa e soprattutto lo fa con leggerezza. Durante l’intervista esce fuori anche il nome di Yevgeny Prigozhin, l’uomo d’affari russo noto come chef di Putin, che secondo i racconti di Baskayev sarebbe “il nostro uomo, è lui che ci dava i soldi”.
La confessione è molto diversa rispetto alle scene alle quali avevamo assistito finora: Baskayev non si presenta incappucciato, non viene ripreso alle spalle, non ha la voce modificata. Guarda dritto la telecamera e ammette: “Il mio compito era quello di partecipare a discussioni in forum che parlassero di politica”, e spiega, “se tu digitavi la parola ‘politics’ in un forum, i primi risultati e probabilmente anche quelli sulla seconda pagina, erano nostri. Il compito dei troll era quello di monopolizzare le discussioni, in modo che uscissero solo risultati mirati”. Stessa cosa se l’utente scriveva “politics forum U.S.”. Dozhd Tv cita tre ex troll che hanno collaborato in passato e che, preferendo rimanere anonimi, avevano rivelato il nome di Dzheykhun Aslanov, un ragazzo di ventisette anni di origine azerbaigiana che si faceva chiamare “Jay Z“. “Jay era un pessimo manager, non era competente”, conferma Baskayev. “Francamente parlando era proprio scarso, ma aveva séguito”.
Dopo aver lasciato la Internet Research Agency, l’ex troll si è trasferito in Thailandia, dove lavora come insegnante di russo, e da lì ha spiegato all’emittente russa come veniva fatto il lavoro. “Interpretavo vari personaggi, ero uno zotico del Kentucky, poi assumevo il ruolo di un uomo bianco del Minnesota che per tutta la vita non aveva fatto altro che lavorare, pagare le tasse e ora era ridotto in povertà, poi, quindici minuti dopo mi trasformavo e iniziavo a scrivere nello slang usato dai neri di New York”. Così i troll prendevano il controllo dei forum. “Usavamo dei proxy server, ossia dei server che facevano da intermediari, per evitare di essere localizzati”, ma poi spiega: “Regolarmente venivamo bloccati”. In un forum, sui venti account che Baskayev utilizzava, soltanto due non sono stati bannati. “Ci divertivamo, era un baccanale. Eravamo dei ventenni, giovanotti allegri impegnati a fare delle cose orribili”, ride. Baskayev era nella squadra dei “giovanotti allegri” che hanno realizzato un falso sex tape di Hillary Clinton: “Avevamo assunto un nero e una donna che somigliasse alla Clinton, dovevamo pagarli per girare un porno da diffondere in rete, poi non lo abbiamo fatto, ma lei era uguale”, dice esaltat. “Però l’accento non era quello giusto”.“Ho dovuto lasciare, il gioco stava diventando troppo pericoloso”, dice Baskayev in chiusura, “C’è quel meme di una fabbrica di troll in cui tutti lavorano in silenzio, a testa bassa sovrastati da una foto di Putin e da un bandiera russa”, scuote la testa. “No no, non era così. Io facevo il turno di notte e noi abbiamo fatto cose folli, ridicole, creative. Arte”. 

La Silicon Valley è stata uno strumento di manipolazione russo, non c'è difesa che tenga

Facebook, Google e Twitter ieri e oggi al Parlamento americano per deporre. La guerra di lobby e i nuovi dati sui troll del Cremlino
Il Foglio - 1 Novembre 2017
Roma. Fino a oggi, la Silicon Valley non ha sentito il peso della crisi politica che le è scoppiata in faccia dopo le elezioni americane dell’anno scorso. Le trimestrali veleggiano, i ricavi crescono a doppia cifra, gli utenti, secondo gli ultimi sondaggi, non hanno ridotto particolarmente il loro livello di fiducia in Facebook, Twitter e Google. La bolla di indignazione che si sta gonfiando a Washington e sui media internazionali, quella che accusa Google e i grandi social network di essere stati uno strumento più o meno inconsapevole – ma certo colpevole di omesso controllo – dei piani di manipolazione del processo democratico americano da parte della Russia e del Cremlino, finora non è scoppiata nel mondo reale. Ma ora che questi piani vengono alla luce più nel dettaglio, che la loro effettiva portata si amplifica oltre ogni ipotesi, che i loro collegamenti reali o presunti con l’Amministrazione Trump iniziano a produrre mandati d’arresto, che la definizione generica di “troll russo” diventa specifica e porta dritto al Cremlino, potrebbe diventare più difficile per le grandi compagnie tech americane dire: ci dispiace, siamo stati giocati, non succederà più.
Ieri la commissione Giustizia del Senato, presieduta dal falco repubblicano Lindsay Graham, ha interrogato Colin Stretch, responsabile legale di Facebook, Richard Salgado, direttore del settore sicurezza di Google, e Sean Edgett, responsabile legale di Twitter. Oggi ci sarà un nuovo giro di incontri, con Stretch ed Edgett che si presenteranno davanti alle commissioni Intelligence della Camera e del Senato, raggiunti da Kent Walker, il responsabile legale di Google. Il contenuto delle deposizioni delle tre aziende tech è stato passato ai media americani fin da lunedì notte, e i numeri sono molto diversi da quelli diffusi pubblicamente da Facebook, Twitter e Google. Finora le grandi compagnie della Valley avevano diffuso i dati delle inserzioni pubblicitarie di carattere politico comprate dagli agenti russi sulle loro piattaforme. Com’è comprensibile, si trattava di numeri relativamente piccoli: Facebook diceva che gli annunci comprati a sua insaputa dalla Internet Research Agency (Ira) – la compagnia legata al Cremlino che è diventata, secondo l’intelligence americana, la centrale delle operazioni di manipolazione politica da parte dei russi – erano stati visti dieci milioni di volte. Il numero sembra grande, ma si perde nel mare delle visualizzazioni di Facebook. Il problema è che nelle ultime rivelazioni pubblicate dai giornali Facebook integra il numero degli annunci pagati con tutti gli altri contenuti pubblicati dall’Ira, come post, foto ed eventi, ed ecco che improvvisamente il numero di cittadini americani raggiunti dai contenuti realizzati da agenti russi con scopi di manipolazione politica raggiunge la cifra ragguardevole di 29 milioni. Se poi ci spostiamo dall’Ira e contiamo tutti gli account e le pagine gestiti da agenti russi, Facebook arriva a contare che sono stati raggiunti da contenuti propalati da entità vicine al Cremlino 126 milioni di americani tra il gennaio 2015 e l’agosto 2017. I cittadini americani con più di 18 anni sono circa 220 milioni. Questo significa che ben più della metà della popolazione adulta americana ha visto contenuti prodotti da agenti russi negli ultimi due anni. Certo, gli americani hanno visto anche un sacco di altre cose: nello stesso periodo, gli utenti hanno visualizzato 11 mila miliardi di contenuti. Ma ecco: gli agenti russi non si limitavano a postare meme anti Hillary o a scrivere invettive su Facebook. Il peso specifico di una campagna di disgregazione democratica ben orchestrata da professionisti assoldati da una potenza esterna è infinitamente maggiore del rumore di fondo abituale che si genera sui social.
In un’inchiesta pubblicata lunedì, per esempio, il Wall Street Journal racconta come, usando Facebook, gli agenti russi fossero riusciti a organizzare e finanziare decine di eventi e manifestazioni nel mondo reale riguardanti temi altamente divisivi per la società americana, come i conflitti razziali e le violenze della polizia. Secondo il Journal nel luglio 2016, mentre l’America era tormentata dalle uccisioni di giovani afroamericani da parte di poliziotti troppo zelanti, gli agenti russi organizzavano nello stesso giorno a Dallas una manifestazione “Blue lives matter” pro polizia, e a Minneapolis un’altra marcia a sostegno di Philando Castile, un ragazzo nero ucciso durante un controllo di polizia. A entrambi gli eventi ha partecipato qualche centinaio di persone. Come si nota, gli agenti russi non cercavano di sostenere qualche partito o formazione, il loro unico obiettivo era disseminare discordia e divisione, creando meccanismi di disgregazione del tessuto sociale.
Facebook è il principale imputato, ma Twitter non è messo meglio. Secondo i documenti congressuali, gli agenti russi dell’Ira hanno pubblicato sul social network 131 mila tweet di argomento politico tra il settembre e il novembre 2016, e in tutto i tweet ricollegabili a organizzazioni russe sono 1,4 milioni, visualizzati in tutto 288 milioni di volte. Anche in questo caso Twitter sottolinea che si tratta di meno dell’un per cento dei tweet totali, esattamente come Google, che ha scoperto che account vicini al governo russo hanno pubblicato su YouTube video di carattere politico visti 306 mila volte in America.
I giganti tech, per la prima volta nella loro storia, si trovano così a dover difendersi davanti al Parlamento americano dall’accusa di essere stati strumento di un grande piano di disgregazione democratica prodotto da una potenza straniera. In teoria, parlare davanti a deputati e senatori non dovrebbe preoccupare i rappresentanti di Google, Facebook e Twitter: come riporta Politico, i tre hanno contribuito alle campagne elettorali di 52 dei 55 parlamentari che compongono le tre commissioni (la commissione Giustizia del Senato e le commissioni Intelligence delle due Camere). Le condizioni però sono molto cambiate rispetto a quando i grandi social erano i beniamini di Washington, e oggi le tre aziende tech hanno molto da temere da un legislativo ostile. Alcuni parlamentari hanno già presentato proposte di legge per costringere la Silicon Valley a un maggior livello di trasparenza su chi pubblicizza e chi visualizza i contenuti di tipo politico. Facebook e Twitter hanno già cercato di correre ai ripari adottando da sé misure di maggiore trasparenza, e Facebook per esempio ha creato un database pubblico degli annunci pubblicati sul suo social. L’intersezione tra la crisi tecnologica e quella politica legata alle indagini del procuratore speciale Mueller, però, fa pensare che per Facebook, Twitter e Google sia soltanto l’inizio.

La Russia ci batte al nostro gioco

Perché siamo così in ritardo a capire cosa hanno fatto i russi con Google, Facebook e Twitter
Roma. Con lo scoop di ieri del Washington Post abbiamo appreso che anche Google, oltre a Facebook e Twitter, aveva accettato pubblicità pagate da intermediari del governo russo per condizionare la campagna elettorale americana nel 2016. Questo tipo di pubblicità sui social è più subdola di quella normale, perché i contenuti appaiono come se fossero scritti da cittadini americani per cittadini americani, e invece sono il risultato del lavoro di tecnici stranieri esperti in propaganda. Questo spiega anche perché ci stiamo mettendo così tanto a capire il funzionamento di queste operazioni di inquinamento dei social, con rivelazioni che ci arrivano strato dopo strato e soltanto dopo numerose smentite – non è successo nulla! – che nel giro di appena pochi giorni suonano ridicole. Questa situazione ci porta a una domanda. Perché il governo russo ha intuito così in anticipo questa potenzialità dei social media – molto più facili da manipolare che i media normali, e molto più efficienti nell’indottrinare l’audience – e invece Europa e America cominciano a capire adesso? Perché c’è questo ritardo culturale e anche di sicurezza rispetto a Mosca, che per esempio da anni ha creato le fabbriche dei troll dove personale pagato si occupa tra le altre cose di bombardare di commenti positivi o negativi gli articoli di giornali online a seconda di quanto viene loro detto dai superiori e a seconda della linea del governo russo?
La risposta sta nel modo diverso di vedere il mondo. In occidente consideriamo i social media come uno spazio libero, in cui io scrivo la mia opinione, tu scrivi la tua, non c’è una gerarchia calata dall’alto e non c’è uno scopo ulteriore che non sia dichiarato. Capiamo che la pubblicità del supermercato che ci appare su facebook fa parte del gioco e la accettiamo perché è esplicita e perché sappiamo che il profitto è necessario alle piattaforme social per funzionare. Ma l’idea che questo sistema sia occupato a nostra insaputa e ritorto contro di noi per plasmare le nostre convinzioni politiche non ci sfiora. Siamo noi che generiamo i contenuti. Consideriamo facebook come l’agorà, la piazza pubblica dove gli ateniesi discutevano, l’agorà è di tutti, quindi non è di nessuno. Giusto? No, sbagliato, è una visione ingenua. I russi hanno invece una visione più vicina alla realtà delle cose, i social sono il mezzo di propaganda che agisce sulle nostre teste come i telegiornali e i giornali non possono più fare, il primo che ne occupa un pezzo e ne approfitta vince – come infatti è successo. I russi sono più duri, meno interessati al funzionamento ideale delle cose e più attenti a come ricavarne un vantaggio e hanno fregato la Silicon Valley al suo stesso gioco – o forse le compagnie americane erano molto desiderose di farsi fregare, è tutta pubblicità pagata.
Si chiama distopia, pensavi che la libertà di circolazione delle idee su internet avrebbe emancipato le donne musulmane – e chissà che non lo stia facendo – e invece nel frattempo ti sorbisci un meme prodotto da una equipe russa che però finge di essere un movimento di protesta texano. Non c’è soluzione a breve termine. Certo che però a essere un po’ più preparati si diventa anche meno vulnerabili alla schiuma che ti arriva addosso da ogni parte, sia quella artificiale, prodotta per scopi politici, sia quella naturale, prodotta dagli scemi veri.

@TEN_GOP, per essere un vero troll russo bisogna diventare un autentico patriota americano

L’Atlantic Council ha ricostruito la storia di un account che sui social è riuscito a diventare una voce autorevole dell'estrema destra

Il Foglio - 19 Novembre 2017



Ben Nimmo, Senior Fellow dell’Information Defense all' Atlantic Council, ha raccontato su Medium la storia di @TEN_GOP, un account Twitter gestito dalla Internet research agency, la fabbrica di troll di San Pietroburgo, che per anni è riuscito a far credere a utenti e media di essere un cittadino americano conservatore. Passo dopo passo, tweet dopo tweet, il ricercatore ha studiato come il troll è riuscito a costruirsi una credibilità sui social fino a diventare una voce importante nell’ambiente della destra americana. Aveva più di centotrentamila follower ed era talmente attendibile che veniva ritwittato anche dai sostenitori di Donald Trump. Quando a luglio di quest’anno Twitter ha eliminato l’account, molti americani hanno iniziato a lamentarsi e per protestare avevano scritto sulla piattaforma social “@TEN_GOP one of us”.
“Per almeno due anni”, scrive Nimmo, “ha elogiato Trump, ha encomiato l’esercito americano, ha promosso la Brexit e le destre europee”. L’account interagiva regolarmente con gli altri conservatori, attaccava Hillary Clinton, i liberali, i musulmani e i media. Twitter ha confermato i sospetti e lo ha eliminato rimuovendo i suoi tweet. Alcuni però sono rimasti in un archivio, tra le segnalazioni che PropOrNot, agenzia che si occupa di rintracciare la propaganda russa,  aveva fatto all’Atlantic Council.
Il successo dell’account è stato una questione di metodo e precisione. “Per nascondere la sua identità, postava tweet con benedizioni agli Stati Uniti, auguri di Natale, accorati ringraziamenti alla polizia”. I tweet servivano ad americanizzare e a umanizzare il troll. Questi sentimenti sbandierati come autentici si trasformavano spesso in veementi attacchi politici soprattutto contro Hillary Clinton, imputata di essere una bugiarda o di fare accordi con l’Isis. Anche la Cnn era un bersaglio frequente dei suoi tweet, all’emittente televisiva venivano rivolte le accuse di diffondere notizie false.
Il troll insultava regolarmente chi sulla piattaforma social era critico nei confronti di Trump, dava man forte ai commentatori di estrema destra. In questo modo @TEN_GOP era riuscito a diventare una voce autorevole nell’ambiente. I retweet, i commenti e i tag non facevano altro che legittimare l’americanità del suo account. Come dimostra Ben Nimmo, in meno di due anni  era diventato talmente influente da essere menzionato anche da personaggi pubblici come Michael Flynn o dal figlio di Trump. “Nessuno di loro era a conoscenza del fatto che si trattasse di un troll russo e inconsapevolmente hanno  amplificato la voce della propaganda russa senza rendersene conto”, commenta Ben Nimmo.
Sono stati i giornali e i giornalisti a dare a @TEN_GOP lo status di rappresentante affidabile dell’estrema destra. Prima Glenn Greenwald di Intercept, poi gli stessi Washington Post, LA Times e Huffington Post lo hanno presentato come una voce della fazione più conservatrice del Partito repubblicano. Seguendo queste strategie, per più di diciotto mesi, un account russo è riuscito a mascherarsi da americano, è stato un potente e autorevole megafono di disinformazione. Il suo successo, come scrive Nimmo, è dovuto soprattutto all’approccio paziente e graduale. Dapprima @TEN_GOP si è limitato a imitare un qualsiasi commentatore di estrema destra, riproponeva i tweet delle voci più autorevoli, le commentava. Poi la sua presenza costante sui social e soprattutto la risposta degli altri utenti lo hanno legittimato fino a trasformarlo in una autorità. Tweet dopo tweet, un troll russo si è trasformando in un patriota americano, in un nemico dell’islam e in un critico del liberismo. Il profilo perfetto dell’elettorato trumpiano. Forse troppo.

Lo scandalo russo della Silicon Valley mostra che la dittatura dei clic è la tomba della democrazia

I giganti tecnologici sono diventati un pericolo per la democrazia? Facebook e Google, oggi, hanno un monopolio quasi assoluto su alcuni elementi chiave delle democrazie occidentali
Il Foglio - 2 Novembre 2017


Era successo con Big Food e Big Tobacco, con i grandi network televisivi negli anni Duemila, al culmine della loro potenza, e adesso è arrivato il turno di Big Tech. Tra ieri e martedì tre diverse commissioni del Congresso americano hanno sentito in udienza i rappresentanti legali di Facebook, Google e Twitter ponendosi una spaventosa domanda di fondo: i giganti tecnologici che possiedono i nostri dati personali e controllano il modo in cui i cittadini si informano sono diventati un pericolo per la democrazia?
I giganti stessi, interrogati, non hanno fornito risposte soddisfacenti. Tutti e tre sono stati accusati di essere diventati strumento inconsapevole di una campagna di disgregazione del tessuto sociale e democratico americano (e occidentale) portata avanti da una potenza straniera, la Russia. Su questo non ci piove: tutti e tre hanno ammesso di essere stati la piattaforma di diffusione di falsità e disinformazione da parte di agenti russi coordinati a livello centralizzato, e hanno ammesso che queste falsità hanno raggiunto centinaia di milioni di elettori prima e dopo la campagna elettorale americana dell’anno scorso.
Ora però la questione da risolvere diventa se possibile più grande, e cioè: potrebbe capitare di nuovo? Potrebbe succedere all’Italia o alla Germania di essere attaccate al cuore del sistema democratico dall’Iran o dalla Corea del nord? Insomma: lo strapotere dei social network è diventato un problema per la tenuta dei nostri sistemi democratici? I legali di Facebook, Google e Twitter, davanti alle domande pressanti di senatori e deputati, si sono attenuti al copione scritto, hanno ammesso i problemi ma vi hanno fatto fronte annunciando cure palliative: più assunzioni per monitorare i contenuti controversi, più intelligenza artificiale e così via. Nessuno ha voluto ammettere che ormai Google e Facebook sono “media company”, vale a dire società editoriali con una responsabilità sui contenuti che ospitano, e nessuno ha voluto sostenere le iniziative legislative che chiedono più trasparenza. Per la Silicon Valley, se un errore c’è stato è ormai in fase di risoluzione, e bisogna sbrigarsi a far tornare tutto come era prima. Non basta.
Facebook e Google, oggi, hanno un monopolio quasi assoluto su alcuni elementi chiave delle democrazie occidentali: l’informazione e la capacità di mobilitare e di influenzare i cittadini. Le informazioni su internet scorrono attraverso Google, i grandi media (lo abbiamo visto di recente) sono dipendenti per i loro ricavi pubblicitari dall’algoritmo di Facebook. In un’edicola di quartiere degli anni Novanta, paradossalmente, c’era più pluralismo di opinione di quanto ne può trovare oggi un utente medio su Facebook. Fino a dieci anni fa, quando internet era una miriade frammentata di siti, blog e piattaforme, una campagna di guerra alla democrazia come quella orchestrata dalla Russia non sarebbe stata possibile: gli obiettivi sarebbero stati troppi. Oggi il monopolio di due sole compagnie sull’opinione pubblica online rende tutto più facile, come ha notato sul Wall Street Journal Luther Lowe (che è vicepresidente di Yelp, e dunque ha degli interessi in gioco).
La democrazia si basa sulla competizione delle idee, ma il dominio di poche grandi compagnie sta trasformando internet (ergo: il posto dove oggi più che mai le idee si formano) in un luogo anti competitivo. Lo vediamo perfino in ambito tecnologico, dove le startup muoiono mangiate dai giganti: dove sono le nuove Uber e Airbnb? La Silicon Valley, luogo di nascita della disruption, massimo principio di concorrenza, è dominata oggi da pochi giganteschi conglomerati che non permettono alle nuove aziende di farsi strada. Per salvare la democrazia dalla dittatura del clic e dalle ingerenze di potenze malevole bisogna riportare la competizione in quello che era il suo tempio.

Sulla disinformazia russa non guasta fare meno battutine e più attenzione

Chi butta in vacca il dossier sulla propaganda del Cremlino dimentica un dettaglio: è un problema reale



Il Foglio - 12 Dicembre 2017
Sulla disinformazia russa non guasta fare meno battutine e più attenzione


Roma. Ovviamente appena un argomento serio tocca la politica italiana si sgonfia e perde di credibilità. Sta succedendo così anche con il dossier gigantesco che riguarda la disinformazione russa – un dossier che non è spuntato fuori da adesso: è un problema da anni – che qui da noi è finito in mezzo al dibattito che precede le elezioni del 2018 e quindi è stato svilito e spernacchiato come se fosse un’invenzione scema, una bischerata di cui farsi beffe. “Ha stato Putin”, dicono quelli che si credono furbi e si danno di gomito.
“Ha stato Putin” però è una freddurina che non fa ridere, la campagna di disinformazione russa bene organizzata e ben finanziata esiste. L’Agenzia di ricerca internet conosciuta anche come Glavset o come “la fabbrica dei troll di San Pietroburgo” dove più di mille dipendenti stipendiati dal governo di Mosca si danno il cambio ogni giorno per disseminare propaganda: è reale. I russi che ci lavorano e sono pagati per fare finta di essere americani e spargere commenti su Twitter e Facebook: sono reali. Il rapporto delle agenzie di intelligence americane che nel 2016 conclusero che il governo russo ha diretto un’offensiva a favore di Donald Trump durante le elezioni e che questa campagna include sia l’hacking dei computer del Partito democratico (e guarda un po’, nulla sui repubblicani) sia la circolazione deliberata e abnorme di notizie false: è reale pure quello. Gli esempi pacchiani di disinformazia del Cremlino sono da anni discussi e smascherati, molto prima che in Italia si cominciasse a parlarne in modo superficiale. Quando un aereo di linea con 283 passeggeri a bordo fu abbattuto nel luglio 2014 vicino al confine fra Ucraina e Russia, il ministero della Difesa russo ha offerto molte spiegazioni alternative e fantasiose – e tutte sbugiardate – per coprire il fatto che l’aereo è stato colpito da un missile terra-aria russo che operava in una zona controllata dai separatisti filorussi, come hanno stabilito i periti della commissione d’inchiesta olandese che si è occupata del caso (perché la maggior parte dei passeggeri era olandese). 
La proposta da parte del governo malese di un tribunale internazionale per indagare sui responsabili è stata approvata a maggioranza dal Consiglio di sicurezza, ma la Russia ha messo il veto quindi non se ne fa nulla. Quando nel settembre 2015 gli aerei russi hanno cominciato a bombardare in Siria, la Difesa russa ha messo i video su internet e ha detto che stavano colpendo posizioni dello Stato islamico, ma gli esperti hanno visto subito che il terreno raccontava un’altra verità: in alcuni casi gli obiettivi erano in zone non controllate dallo Stato islamico, ma tirare in ballo sempre lo Stato islamico suonava meglio con l’opinione pubblica. Quando nell’aprile di quest’anno un jet siriano ha sganciato una bomba con agente nervino su un villaggio e ha ucciso quasi cento civili il governo russo ha sposato subito una storia convoluta e pazzesca – “la bomba ha casualmente centrato un deposito segreto di agente nervino dei ribelli” – ma è stato smentito dalla commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, che però è stata sciolta a novembre perché la Russia ha messo il veto sul prolungamento del mandato per investigare.
Insomma, la disinformazia russa non decide le sorti del mondo – dalla Brexit alle elezioni americane al referendum in Italia del 4 dicembre 2016 – come dicono qui in Italia soprattutto quelli che vogliono buttare tutto in burla. Ma è un fattore da tenere d’occhio. Lo spiega di nuovo la giornalista di lingua russa Julia Ioffe sulla rivista americana The Atlantic, in un pezzo di ieri: Vladimir Putin non è questo eccelso manipolatore che governa le elezioni altrui – sarebbe essere troppo generosi con lui – è più semplicemente uno che ci prova, uno scommettitore che ci tenta e che a volte vince.

Nessun commento: