La caduta degli dei della Silicon Valley è un fenomeno uscito da
tempo dalla penombra dei complotti e dei controcomplotti, e la riprova è
nella comparsa del termine angolofono apposito:
techlash,
l’epocale rinculo dell’opinione pubblica verso le grandi aziende
tecnologiche idolatrate fino a pochi anni fa. L’Economist l’ha inclusa
fra le parole più importanti dell’anno che verrà. Quando anche il
vocabolario si adegua, significa che lo Zeitgeist è maturo. Dopo i
decenni dell’entusiasmo avveniristico e del trasporto startupparo,
quando sembrava – anzi: era certo – che il portale verso un futuro
dell’umanità bello e progressista fosse dalle parti di San Francisco, e
da quello stesso propulsore sarebbe partito un altro “secolo americano”,
con abbondanti frutti di prosperità e democrazia per tutti, sono stati
rimpiazzati dal tempo dell’incertezza e del sospetto. E’ stata una
metamorfosi tutto sommato rapida, e viste con gli occhi di oggi alcune
immagini del recente passato appaiono ridicole o inquietanti: Mark
Zuckerberg che prima di suonare la campanella della Borsa dichiara che
“la nostra missione non è essere un’azienda quotata. La nostra missione è
rendere il mondo più aperto e connesso” ha qualcosa di orwelliano,
mentre fa un effetto straniante rivangare certe recensioni negative del
film The Social Network, anno 2010, dove si accusava il regista di avere
ingiustamente rappresentato, forse per invidia e risentimento, Zuck
come un sociopatico assetato di potere. La rappresentazione di David
Fincher, allora impopolare, oggi è mainstream. Riprendere a qualche anno
di distanza il profluvio di opinioni sui social network che avrebbero
fatto cadere i dittatori sotto il vento della primavera araba ha invece
qualcosa di grottesco e tragico. L’abbraccio moscovita fra Bashar el
Assad e Vladimir Putin per festeggiare la fine della guerra in Siria si
presta anche a una lettura di tipo tecnologico: il dittatore che ha
resistito al famoso tam-tam della rete che avrebbe dovuto muovere le
coscienze, e anche i caccia bombardieri, abbraccia il padre di tutti i
troll che s’infilano nelle maglie della rete per influenzare le elezioni
altrui. Chi avrebbe detto qualche anno fa che ci sarebbero stati attori
geopolitici di questa schiatta fra i più ricchi beneficiari della
comunicazione social?

Techlash, l'epocale rinculo dell'opinione pubblica verso le grandi aziende tecnologiche idolatrate fino a pochi anni fa
La Silicon Valley è passata dal lato giusto al lato sbagliato della
storia, e il passaggio repentino ci dovrebbe mettere in guardia
dall’abuso di questa presentazione manichea della storia. E’ rischioso
dividere lo svolgimento delle cose umane in due sponde radicalmente
separate: se un giorno si scopre che i buoni erano in realtà cattivi,
che si fa? Ronald Reagan amava le espressioni sul lato giusto e
sbagliato della storia, che pure usava con parsimonia, per ragioni
evidenti legate alla Guerra fredda; Bill Clinton ha reso lo schema
binario la storiografia ufficiale dell’ottimismo degli anni Novanta,
Barack Obama l’ha portata al parossismo. Negli stessi decenni la Silicon
Valley ha avuto alti e bassi, momenti sterili e favolosi eureka, bolle e
ripensamenti, ma finora la sua collocazione nel grande schema non è mai
stata messa in discussione. Apparteneva naturalmente alle forze del
bene. Si sta scoprendo invece in questi anni che la realtà è molto più
simile alla fantascienza, dove le cose più affascinanti sono anche
quelle più pericolose.
Non che in questi anni sia cambiato qualcosa nel modus operandi dei
giganti della galassia digitale, i quali perseverano nei loro
profittevoli modelli di business travestiti da servizi socialmente utili
e forse anche imprescindibili per vivere in questo tempo. Facebook non
si è messo di colpo a produrre armi di distruzione di massa, Google non
ha cambiato il suo motto in “do evil”, i social non sono diventati
attivi strumenti di morte. Quello che è cambiato è che lo “sciame
digitale” di Byung-Chul Han ha preso in qualche modo coscienza di sé:
“Arranchiamo dietro al medium digitale che, agendo sotto il livello di
decisione cosciente, modifica in modo decisivo il nostro comportamento,
la nostra percezione, la nostra sensibilità, il nostro pensiero, il
nostro vivere insieme. Oggi ci inebriamo del medium digitale, senza
essere in grado di valutare del tutto le conseguenze di una simile
ebbrezza”, scriveva il filosofo tedesco-coreano nel suo famoso pamphlet.
Il passaggio dall’utopia alla distopia è stata una eterogenesi, ognuno
ha visto il lato sinistro della Silicon Valley da un’angolazione
particolare, e alla fine in molti si sono trovati d’accordo nel mettere
la tecnologia sul banco degli imputati, ma per ragioni diverse. C’è chi
ha cambiato idea per motivi legati al brutale stradominio dei mercati
esercitato da un oligopolio ormai impossibile da nascondere sotto
l’affettato giovanilismo di una t-shirt.

Alla fine in molti si sono trovati d'accordo nel mettere la tecnologia sul banco degli imputati, ma per ragioni diverse
Soltanto nell’ultima trimestrale Amazon, Alphabet (Google), Apple,
Facebook e Microsoft hanno fatturato insieme 143 miliardi di dollari,
poco più del pil del Qatar, e non mostrano alcun segno di flessione.
Anzi, ciascuna di queste aziende sta mettendo in atto strategie per
allargare il proprio raggio d’azione. Google sta investendo da anni
sulla robotica e la medicina, mentre Amazon lavora per fare al settore
del trasporto marittimo delle merci quello che ha fatto all’editoria.
Lo scorso anno, senza grandi fanfare, l’azienda di Jeff Bezos ha
ottenuto la licenza per trasportare merci su nave per conto terzi, cosa
che gli permette di ridurre i costi di trasporto dei suoi partner cinesi
e apre la porta a un giro d’affari di 350 miliardi di dollari, se si
considerano soltanto le rotte nel Pacifico. La logistica via mare è un
settore ampio e con margini molto bassi, dove s’afferma chi ha le
infrastrutture più efficienti ed economiche, ed essere più efficienti di
Amazon nello smistamento delle merci è quasi impossibile. Chi dominerà
il trasporto navale nei prossimi decenni? Non è difficile capire perché
qualcuno guarda Google e Amazon come i no global negli anni Novanta
guardavano la Monsanto o la Nestlé, con la differenza non marginale che
aggirare le compagnie tech, per evitare di concedere loro i dati da cui
traggono profitto, è quasi impossibile. Tutta questa concentrazione di
potere ha scatenato meccanismi regolatori in tutto il mondo: la Cina
inasprisce la censura, la Commissione europea commina maxi multe, in
America si discute sugli aspetti fiscali e qualcuno propone di applicare
ai grandi player gli stessi regolamenti delle utility.

Una grande concentrazione di potere. Qualcuno guarda Google e
Amazon come i no global negli anni Novanta guardavano la Monsanto o la
Nestlé, con la differenza non marginale che aggirare le compagnie tech,
per evitare di concedere loro i dati da cui traggono profitto, è quasi
impossibile
Altri sono approdati alla tifoseria del techlash dal versante della
critica all’automazione. In fondo, Donald Trump è diventato presidente
aizzando i “forgotten men” americani che hanno perso i posti di lavoro
soprattutto a causa dei robot, ma poiché le intelligenze artificiali non
hanno patria e non si tengono lontane con i muri ha dovuto dare la
colpa alla manodopera dei clandestini messicani e alla concorrenza
sleale dei cinesi. Il tema politico è un altro fattore importante. La
Silicon Valley è ovviamente di sinistra e progressista, benché
attraversata da una breccia libertaria, e le élite costiere che sono a
favore della libertà di pensiero ma si scandalizzano quando scoprono che
qualcuno non la pensa come loro, come diceva William Buckley, hanno
sempre dato per scontata l’alleanza naturale fra il mondo della
tecnologia e l’agenda democratica. Fino al giorno in cui si è scoperto
che anche sovranisti e populisti potevano usare i prodotti tecnologici a
loro vantaggio.
Altri ancora assumono una postura critica per via della crescente
percezione della mole immensa di dati che questi soggetti raccolgono,
manipolano, rivendono, configurando il più imponente sistema di
controllo delle informazioni che la razza umana abbia concepito. Questa
critica va a braccetto con quella sulla segretezza. I paladini della
trasparenza non hanno nessuna voglia di essere scrutati. Ci sono voluti
mesi per trascinare i rappresentanti di Facebook davanti a una
commissione del Congresso – ma a porte chiuse – dopo che era stata
appurato che attraverso account fasulli certe troll farm russe legate al
Cremlino avevano acquistato e diffuso degli ads politici, fatti
circolare con la solita precisione algoritmica nei circoli trumpiani.
L’azienda ha minimizzato, ha fatto mea culpa, ha promesso grandi riforme
sperando che i problemi scomparissero da sé, e allo stesso tempo ha
rifiutato di presentarsi al Congresso in seduta pubblica, ben sapendo
che creare un precedente del genere potrebbe essere molto rischioso. Per
calmare le acque anche Sheryl Sandberg ha dovuto fare una concessione
formale: non immaginava che il loro prodotto per creare un mondo più
aperto e connesso potesse diventare complice di tali nefandezze, ha
ammesso.
Dietro a tutte questi motivi di inquietudine e malanimo intorno al
mondo della tecnologia c’è una domanda cruciale: il techlash è un fatto
accidentale o una necessità? In altre parole: la Silicon Valley ha preso
una sbandata oppure sta mostrando il suo vero volto? I peccati che
l’opinione pubblica le contesta sono la conseguenza inevitabile della
sua natura o in fondo si tratta soltanto di una congiuntura sfortunata,
di mele marce da scartare? Jaron Lanier è uno dei più importanti, forse
il più importante, rappresentante della prima scuola di pensiero. Quello
che stiamo vedendo, sostiene, non è che il disvelamento della logica
apocalittica, dogmatica e fondamentalmente malvagia di aziende che non
sono diventate cattive, sono nate proprio così. L’obiettivo è sempre
stato quello di creare una gigantesca e invisibile Skinner Box,
l’invenzione dello psicologo B. F. Skinner per addestrare i topi da
laboratorio a rispondere con certe azioni a certi stimoli. Per Skinner
il libero arbitrio era soltanto un’illusione, e sulla scorta della
scuola di Ivan Pavolv e John Watson considerava l’uomo un fascio di
comportamenti e reazioni che potevano essere modificati da un
addestratore sufficientemente preparato applicando gli stimoli giusti.
“Una persona in una Skinner box ha l’illusione del controllo ma è in
realtà controllata dalla box, e ancora più precisamente da chi sta
dietro alla box”, scrive. Lanier chiama Google e gli altri gli “imperi
della modificazione del comportamento” ed è convinto che il modello di
business di Facebook sia basato su una faustiana permuta di denaro degli
inserzionisti in cambio di un colossale nudge di massa verso i prodotti
che questi pubblicizzano (e qui andrebbe notato en passant che gli
inserzionisti, alle volte, sono troll russi che lavorano per modificare
la percezione dell’elettorato: sì, anche questo è nudge). Ed è perfino
peggio di così. Occorre pagare i custodi dei dati, dei codici e degli
algoritmi anche soltanto per stare nel mercato: “Una volta che Facebook
diventa onnipresente, è una specie di gigantesco racket dove, se non li
paghi, qualcun altro li pagherà per modificare il comportamento a tuo
svantaggio, perciò tutti devono pagare soltanto per rimanere in
equilibro nella stessa posizione in cui si troverebbero altrimenti”.

Lanier chiama Google e gli altri gli "imperi della modificazione
del comportamento" ed è convinto che il modello di business di Facebook
sia basato su una faustiana permuta di denaro degli inserzionisti in
cambio di un colossale nudge di massa verso i prodotti che questi
pubblicizzano
Lanier dice cose di questo tenore dai primi anni Novanta, quando ha
deciso di rinunciare all’opportunità di diventare un dio della Silicon
Valley e si è accontentato, fra molte virgolette, di essere un
rispettato attore del mondo tech ma fuori dagli schemi, dai social,
dalle feste, da Mountain View e da Menlo Park. Ma andiamo con ordine.
Chi è Jaron Lanier? Si tratta di un corpulento omaccione con occhi
azzurri straordinariamente bonari, dreadlocks lunghissimi e una
esagerata collezione di strumenti musicali. Da qualche anno lavora come
scienziato senza briglie per Microsoft ma negli anni Ottanta ha fatto
cose fondamentali nell’ambito dello sviluppo della realtà virtuale. Lui
era al centro di quella stagione fatta di occhialoni e guanti
sensoriali. Quando dicono che è il padre della realtà virtuale lui
risponde che dipende se si vuole credere alla madre, ma il concetto è
quello. Da tempo è una delle voci più critiche in circolazione sulla
cultura della Silicon Valley, e i suoi libri You’re Not a Gadget e Who
Owns the Future? sono arrivati sugli scaffali con diversi anni di
anticipo rispetto alla capacità ricettiva del pubblico. Metteva in
guardia dalla riduzione delle persone a dati da monetizzare quando il
mondo a bocca aperta stava scoprendo Facebook, denunciava l’eccessivo,
totalitario controllo dei flussi informativi esercitato dai suoi vecchi
amici quando le loro compagnie erano ancora considerate entità benevole,
alleate di un progresso che non avrebbe mai presentato il conto. La
Silicon Valley ha modi molto gentili per spingere (ancora una volta un
nudge) le voci critiche nel cono d’ombra dell’irrilevanza senza ridurle
al silenzio, ed è bastato inserire anche Lanier nel gruppo dei critici
del tecnologismo, presentato (sempre gentilmente) come il gruppo dei
trogloditi che fanno il tifo per il lato sbagliato della storia. Il
fatto è che l’ultimo libro di Lanier, Dawn of the New Everything:
Encounters with Reality and Virtual Reality, è invece uscito proprio nel
mezzo del teclash e gli argomenti che ripropone con rinnovato vigore
non possono essere più presi come gli ammonimenti di un bizzarro
malvissuto con i rasta che s’ostina ad annunciare il disastro
imminente.
“Ho scritto saggi su come la società sarebbe potuta un giorno
diventare assurda per via di guerre astratte fra algoritmi, e di come
dinamiche virali online potrebbero generare improvvise catastrofi
politiche e sociali. I miei avvertimenti sono stati apprezzati in certi
ambienti, ma evidentemente non hanno impedito gli eventi da cui mettevo
in guardia. Eccomi qui a provarci ancora, ma con una differenza. Sono
successe abbastanza cose da rendere i miei racconti non più degli
avvertimenti. Sto lasciando cadere delle briciole da seguire, per capire
come siamo arrivati dove siamo”, scrive. Questo le rende un libro
importante: non è il racconto del mondo che verrà, ma di quello che è.
Si tratta tecnicamente di un memoir, un racconto biografico, ma
viaggia su due binari. Da una parte l’aneddotica, dall’altra un
articolato insieme di considerazioni che finiscono per solidificarsi in
una specie di summa filosofica. Le due dimensioni si intrecciano
continuamente. La vicenda di Lanier è segnata da un misto di sofferenze e
stramberie che il protagonista racconta con il giusto distacco ironico.
La sua vita è segnata profondamente dalla morte della madre, una
pianista viennese che era riuscita a sfuggire ai nazisti convincendo le
guardie del campo di concentramento che era ariana, per via dei capelli
biondi e della carnagione chiarissima. E’ riuscita a produrre dei
documenti falsi e poi a fuggire in America. E’ morta in un incidente
stradale, perdendo il controllo dell’auto al ritorno dall’esame della
patente di guida, per un difetto di fabbrica che si è poi scoperto molti
anni dopo. Il padre era invece un uomo che aveva iniziato e mai portato
a termine decine di professioni, progetti e carriere, fra questa anche
quella di presentatore radiofonico. Leggenda vuole che sia stato lui a
propagare per primo il mito urbano dei coccodrilli che vivono nelle
fogne di New York. Per fare una sintesi di tutte le stranezze della vita
di Lanier basta considerare che quando era un teenager il padre gli ha
permesso di disegnare la casa in cui avrebbero vissuto dopo gli anni
dell’indigenza, quando, grazie al suo lavoro finalmente stabile come
maestro elementare, era riuscito a comprare un pezzo di terra in New
Mexico. Il giovane Jaron ha deciso di costruire una cupola geodetica con
gli interni argentati, come nei film di fantascienza, e così è stato.
Cosa c’entra questo con la critica ai padroni del mondo digitale? Anche
le stramberie servono a illustrare l’idea lanieriana su cos’è un essere
umano: è un “processo creativo”, un oggetto misterioso e incalcolabile,
dice, mentre il modello antropologico che guida l’industria dei
modificatori del comportamento è quello di un essere molto sofisticato
ma essenzialmente prevedibile. Un topo per gli esperimenti di Skinner,
soltanto con molte più variabili.

L'idea di Lanier su cos'è un essere umano: è un "processo
creativo", un oggetto misterioso e incalcolabile, dice, mentre il
modello antropologico che guida l'industria dei modificatori del
comportamento è quello di un essere molto sofisticato ma essenzialmente
prevedibile
Il padre della cibernetica, Norbert Wiener, nel suo libro The Human
Use of Human Beings, pubblicato nel 1950, aveva colto le conseguenze del
comportamentismo portato alle sue estreme conseguenze: “Leggete Wiener
con attenzione e vi sarà chiaro che con sensori abbastanza potenti,
computazione abbastanza potente e feedback dei sensori abbastanza
chiari, una Skinner box può essere costruita attorno a un essere umano
in stato di veglia senza che questa persona se ne accorga. Wiener
conforta il lettore notando che la difficoltà nel creare una macchina
computazionale e un network gigante è così alta che il pericolo è
soltanto teorico”. Lanier si fa carico di annunciare che la teoria è
diventata pratica. Mai sentito parlare di internet?
Raccontando l’impressionante sequenza di stranezze che compongono la
sua vita (Maureen Dowd ha sentenziato: “E’ la persona più strana che
abbia mai incontrato. E di persone strane ne ho incontrate tante”),
Lanier non ci rende edotti circa una vita piena di curiosità, ma
esemplifica una concezione dell’uomo che è in contrasto con quella che
domina l’industria tecnologica. Fra l’infinità di rilievi critici che
l’autore muove, due punti sono particolarmente importanti per afferrare
quanto sono profonde le radici di questo techlash: la legge di Moore e
la natura degli algoritmi. La legge di Moore dice che il numero dei
transistor in un circuito integrato cresce esponenzialmente con il
passare degli anni, e contemporaneamente il prezzo dei processori
diminuisce. La sofisticazione delle macchine aumenta con un ritmo in
costante accelerazione, tanto che nel mondo digitale in tempi molto
brevi si realizzano cose inimmaginabili per chi concepisce la crescita
in ragione aritmetica. In altre parole, la legge di Moore certifica e
garantisce l’inevitabilità del progresso cibernetico, “è la teologia
dietro l’idea di destino della Silicon Valley”. Lanier parla spesso
della Silicon Valley in termini religiosi, ché la valle ha i suoi
rituali e la sua escatologia, ma nulla dell’apparato dottrinario della
tecnologia è paragonabile per importanza al dogma dell’accelerazione che
la legge di Moore esprime. Epperò, sostiene l’autore, “non c’è nulla di
inevitabile riguardo alla computer science”, e anzi, la legge che sta
sulla sommità della tavola della legge digitale non se la passa tanto
bene: “Viene ripetuta di continuo anche se non è più così vera. I
computer non possono continuare a diventare più veloci e meno costosi
per sempre. Vediamo già un rallentamento, il presagio dell’ultimo
sospiro della legge di Moore. Potrebbe essere un po’ come il traumatico
momento americano in cui si è capito che non c’era più una frontiera in
occidente (“proporzionata all’immaginazione umana”), cosa alla quale il
paese ha risposto con una vuota Gilded Age. Non è molto diversa dalla
nostra situazione oggi”. Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ha
avuto anche l’effetto di convincere gli operatori tecnologici – e di
conseguenza il pubblico che li idolatrava – che anche la capacità umana
di capire la realtà cresce in modo esponenziale, una specie di derivato
della legge di Moore applicato all’intelligenza umana. Nel saggio The
Myth of AI Lanier scrive: “Poiché c’è in parte una crescita esponenziale
nella nostra capacità di capire, allora possiamo prevedere che presto
capiremo tutto. Per questo è folle, perché non sappiamo nemmeno qual è
lo scopo. Per quanto l’accelerazione possa sembrare impressionante,
anche la realtà è impressionante nei termini delle sfide e degli
ostacoli che pone. Non lo sappiamo”. Non lo sappiamo è l’opposto
dell’ethos della Silicon Valley, che oscilla fra il sappiamo già e il
presto sapremo. Altrove Lanier ha chiamato questa presunzione
gnoseologica “riduzione prematura del mistero”, uno stato in cui gli
scienziati non sono nemmeno in grado di ammettere ciò che non sanno. La
legge di Moore è la suprema risultante di questa concezione, ma questo è
il momento in cui si sta facendo largo il sentore che anche il più puro
dei dogmi forse è una superstizione.
L’algoritmo, strumento onnipresente e invisibile che influenza e
determina tutte nostre interazioni digitali, è l’altro grande capo di
imputazione in questo fase di inversione della percezione. Anche qui,
Lanier tenta di mostrare quanto sia illusoria la rappresentazione
dell’algoritmo come strumento matematico neutro, quando invece è latore
di una certa idea implicita del mondo, dell’uomo e della storia: “Quando
le compagnie disegnano gli algoritmi per suggerirti con chi andare a
letto o quale film guardare, si aspettano di avere di fronte una
apatica, credulona variante della specie umana. La gente non se ne
curerà, continuerà ad andare avanti senza vedere come vengono usati i
dati o come funzionano davvero gli algoritmi”. La versione apatica e
credulona dell’uomo è quella che si lascia trasportare dai suggerimenti
di Netflix: “Il motore delle raccomandazioni di Netflix equivale
all’illusione di un mago che ci distrae dal fatto che non tutto è
disponibile nel catalogo”, con il conseguente paradosso degli umani che
accettano di essere “in qualche modo ciechi” di fronte al fatto che una
formula matematica sta guidando le loro scelte “per far sembrare
l’algoritmo più intelligente”. Franklin Foer, autore del libro World
Without Mind, una requisitoria tagliente contro la Silicon Valley ma
scritta dall’esterno, ha descritto così la reale funzione degli
algoritmi: “Facebook non lo dirà mai in questo modo, ma gli algoritmi
sono fatti per distruggere la libertà, per togliere agli uomini il peso
della scelta, per spingerli nella direzione giusta. Gli algoritmi
alimentano un senso di onnipotenza, la convinzione fasulla che il nostro
comportamento possa essere alterato, senza che nemmeno ci rendiamo
conto della mano che ci guida in una direzione superiore”.
Nella concezione di Lanier l’uso pervasivo, soffocante di algoritmi
che ordinano i flussi informativi toglie necessariamente spazio
all’umano in quanto tale, perché “c’è bisogno di spazio attorno alla
persona perché una persona sia una persona”, altrimenti non è che un
insieme di input e output alla mercé di chi controlla l’algoritmo più
sofisticato. Per renderla più chiara anche ai suoi vecchi amici della
Silicon Valley l’ha messa sotto forma di equazione, ribattezzata
“l’equazione del terrore”: Turing Moore’s Law*(Pavolv, Watson, Skinner) =
Zombie Apocalypse.
Internet per giganti
La decisione americana sulla net neutrality è la fine degli spiriti animali della rete
15 Dicembre 2017 alle 22:06
Roma. Sulla net neutrality – il principio di difesa
dell’utilità pubblica della rete internet che una commissione federale
americana ha cancellato giovedì (la cosa vale solo per gli Stati Uniti,
ma potrebbe avere ripercussioni anche da noi) – ci sono due grandi
scuole di pensiero, egualmente allarmistiche. Veloce ripasso su cos’è la
net neutrality: l’idea in base alla quale la rete internet deve essere
considerata come una strada pubblica. Chi difende la net neutrality dice
che sulla strada di internet tutti i veicoli hanno diritto di
circolare, e che i gestori delle strade (nel nostro caso: i grossi
provider come Comcast in America o Telecom in Italia) devono essere
obbligati a far viaggiare tutti alla stessa velocità, che si tratti di
utilitarie o di enormi tir. Altri dicono che questa parità è
svantaggiosa per i gestori, che a forza di far viaggiare tutti non hanno
più soldi per sistemare le buche e costruire corsie nuove. Senza net
neutrality, i gestori della strada possono decidere di far pagare di più
i tir piuttosto che le automobili, o di offrire corsie a scorrimento
veloce. Possono perfino decidere di lasciare ferme alcune auto.
Ecco, giovedì la Fcc, la Commissione federale per le comunicazioni
americana, ha deciso di adottare questa seconda strategia, eliminare le
regole sulla net neutrality che c’erano in precedenza e lasciare ai
provider (a chi possiede i tubi, i cavi e in generale tutte le
infrastrutture in cui scorre internet) la piena libertà su come gestire
la rete. Per i fautori della net neutrality, questa è la fine della
rete. Internet nasce come una struttura end-to-end, in cui ogni snodo
della rete ha lo stesso peso di tutti gli altri. Se voglio aprire un
blog o un business online posso farlo perché con la net neutrality sulla
strada di internet tutte le automobili possono viaggiare alla stessa
velocità. Senza net neutrality, invece, ci sarà qualcuno ai caselli che
può bloccare o rallentare il mio business.
L’ipotesi più nera fatta dai fautori della net neutrality è che la
rete diventi come la tv satellitare e via cavo: se adesso paghiamo per
avere tutto internet, in un futuro internet potrebbe essere
venduto a pacchetti, come Sky Cinema o Sky Sport: vuoi usare Facebook?
Compra il pacchetto social a 29 euro. Vuoi fare acquisti su Amazon?
Compra il pacchetto ecommerce a 19 euro. Vuoi guardare Netflix?
Pacchetto streaming a 29 euro, più altri 4 euro e 99 se vuoi vedere le
serie ad alta definizione. E tutti gli altri siti che non sono nei
pacchetti? Non si sa, ma questa per ora è soltanto un’ipotesi, e i
provider americani (di nuovo: parliamo di Stati Uniti, l’Ue per ora
rimane fedele alla net neutrality) hanno detto che non avverrà. Ci sono
anche questioni di concorrenza: Comcast, per esempio, potrebbe decidere
di far caricare più veloce i video del suo servizio di streaming e di
far andare Netflix più lento. Insomma, senza net neutrality, dicono i
suoi fautori, internet libero è spacciato perché una nuova serie di
guardiani potrà decidere chi entra e chi no, chi ha successo e chi no.
Dall’altra parte della barricata, chi è contrario alla net
neutrality, come per esempio il capo della Fcc Ajit Pai e il Wall Street
Journal, dice che già adesso internet non è libero e la net
neutrality è una panzana. Certo, con la net neutrality chiunque ha
diritto a far vedere il proprio sito, ma davvero ha gli strumenti per
farlo arrivare al pubblico? No, perché su internet ci sono già potenti
guardiani come Google e Facebook che decidono con i loro algoritmi chi
entra e chi no, chi ha successo e chi no. E dunque, davanti a questo
strapotere monopolistico delle compagnie che detengono il completo
controllo sui contenuti (la Silicon Valley), deregolamentare e dare più
potere alla compagnie che gestiscono le infrastrutture (i provider della
rete) non può far male. La net neutrality serve a difendere Google e
Facebook, dicono i suoi detrattori, a difendere i consumatori ci pensa
l’antitrust.
Le due posizioni sembrano inconciliabili. Da un lato chi dice che
internet è minacciato dai monopoli dei provider (Comcast, AT&T, che
in America equivalgono a Telecom e Fastweb), dall’altro chi dice che
internet è minacciato dai monopoli dei gestori di contenuti (Facebook,
Google e così via).
L’opzione peggiore di tutte
Qui vogliamo assumere una posizione ancora più pessimista: e se fossero giuste entrambe le posizioni? I detrattori della net neutrality hanno ragione quando dicono che internet è già pieno di gatekeeper
e monopoli. Ma compiono un errore quando, anziché di cercare di
eliminare questi gatekeeper, ne aggiungono altri nella figura dei
provider. Da ieri, internet in America è dominato da due forze
ugualmente spaventose: grandi aziende che hanno potere assoluto
sull’infrastruttura e grandi aziende che hanno potere assoluto sui
contenuti. Schiacciati in mezzo ci sono gli utenti (cioè noi), che
rischiano di vedere i prezzi salire e la qualità dei contenuti
degradarsi. Soprattutto, potrebbe esserci l’innovazione. Ora che
internet è un affare per giganti, storie come quella di Facebook, nato
per gioco all’università e diventato una superpotenza, sono impossibili.
Se una startup innovativa si mostrasse all’orizzonte, sarebbe
schiacciata subito dai titani. Forse il fenomeno è fisiologico: è ora
che gli spiriti animali di internet si plachino e diventino più
istituzionali. Ma l’anarchia di internet ci ha dato così tante cose
belle (e folli e pericolose e perverse) che ora è difficile rinunciarvi.