Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

domenica 22 luglio 2018

Trumputin /5

Trump succube preferisce Putin all’America

Se Trump era così remissivo in pubblico, figurarsi come cedeva nel faccia a faccia con il russo

Il Foglio - 17 Luglio 2018



Roma. Si pensava che l’incontro tra il presidente americano Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin a Helsinki potesse andare male, ma non si pensava che potesse andare così male e in modo così aperto e così evidente a tutti. Finita la conferenza stampa congiunta con i giornalisti americani e russi, la grande questione nell’aria era: se Trump si comporta in modo così debole davanti a Putin quando è alla presenza dei media di tutto il mondo, allora come si è comportato nel segreto della stanza dove ha parlato con Putin per novanta minuti, più del previsto, unici testimoni i due traduttori? La seconda questione era: cosa resta della credibilità di Trump? Molti alleati si chiedono: e adesso dovremmo credere che il presidente verrebbe in nostro aiuto se la Russia minacciasse i nostri paesi? La questione investe a catena tutta l’architettura di accordi tra America e resto del mondo.
Il peccato originale del presidente americano è che su di lui incombe il sospetto di essere stato aiutato dalla Russia a vincere le elezioni presidenziali nel 2016 e anche il sospetto che sia in qualche modo in debito con il Cremlino, al punto che si ipotizza che i servizi segreti russi abbiano materiale compromettente su di lui raccolto quando era un semplice businessman americano in visita a Mosca – kompromat, in russo, una tattica molto comune che però quella volta centrò un bersaglio grosso: il businessman è poi diventato presidente. Ecco, Trump si è rifiutato di dire qualsiasi cosa che potesse essere anche lontanamente fastidiosa per Putin, si è comportato in modo remissivo e non ha annunciato alcun progresso chiaro a proposito delle questioni internazionali che potevano essere discusse, dall’Ucraina alla Siria. Da una parte lui, che evitava di entrare in collisione a qualsiasi costo, e dall’altra il russo con l’aria del gatto che ha il sorcio in bocca. Di più: Trump ha messo in questione i servizi segreti americani. Lo aveva già fatto, ma dal podio accanto a Putin questo voltare le spalle ai suoi è stato di una potenza mai vista prima. 
Quando gli hanno chiesto se si fida di più delle agenzie di intelligence americane oppure più di Putin, si è sottratto alla domanda secca producendosi in una lunga risposta senza senso, in cui ha detto di avere fiducia in entrambe le parti, e che “però non vedo la ragione per cui dovrebbe essere stata la Russia”, e che prima vuole vedere le mail di Hillary Clinton (era un grande classico dei comizi 2016, ma a Helsinki non aveva senso tirarle di nuovo in ballo) e che si fida della sua intelligence ma “Putin è stato molto convincente e incredibilmente forte a negare”, e che ha pure fatto “un’offerta incredibile: ha offerto ai nostri che stanno investigando sulle spie russe di venire e di lavorare in collaborazione con gli investigatori russi. E’ un’offerta incredibile”. Il russo ha precisato: “In cambio, per reciprocità, manderemo i nostri investigatori in America” per chiarire alcune faccende che premono al Cremlino.
A metà conferenza stampa ha ricevuto un pallone dei Mondiali da Putin come regalo – “ora la palla è nel vostro campo”, ma lui non ha capito la metafora e ha accarezzato il pallone tutto contento. Se questo era il piano dell’intelligence di Mosca fin dall’inizio, sta andando benissimo. Putin è atterrato a Helsinki con una serie di crisi in corso, dall’annessione illegale della Crimea alle sanzioni internazionali all’abbattimento di un aereo passeggeri con 298 persone a bordo sopra il confine ucraino – oggi è il quarto anniversario – fino al dossier Siria, dove Iran e Israele si fronteggiano. Riparte senza che l’America lo abbia messo in difficoltà per un solo minuto.


Se POTUS conferma le bufale russe
Trump cerca di rimangiarsi quello che detto alla conferenza di Helsinki. La propaganda putiniana adesso ha un alleato "better than super" 

Il Foglio - 18 Luglio 2018

Roma. La conferenza stampa di Trump e Putin a Helsinki è stata molto importante per molte ragioni, una in particolare è che il presidente americano ha legittimato il modo russo di raccontare quello che succede nel mondo. Non importa se poi succede, come è accaduto ieri, che Trump cerca di rimangiarsi quello che ha detto al cospetto del presidente russo e di cambiare il senso delle parole che ha pronunciato, come se qualcuno gli avesse spiegato le conseguenze delle sue dichiarazioni. Per esempio, ora accetta le conclusioni dell’intelligence americana sulle interferenze russe (che ci sono state) e tenta di dire che intendeva “non c’è ragione perché non sia stata la Russia a interferire con le elezioni americane”. 
A Helsinki, in realtà ha detto che “non c’è ragione per dire che sia stata la Russia”, come ha capito tutto il mondo collegato in diretta. Dicevamo: la conferenza stampa insieme con il capo del Cremlino è stata importante perché Trump ha legittimato il modo russo di raccontare quello che succede nel mondo. Come si sa, da anni ormai Mosca investe molte risorse e molto tempo nella propaganda di stato per dare una versione dei fatti sempre molto conveniente, anche se fraudolenta: la Russia non ha mai colpe e la responsabilità per le brutture che accadono è sempre dei suoi nemici. Il governo di Putin ha detto di non sapere nulla degli uomini in divisa verde che hanno occupato la Crimea nel marzo 2014 prima dell’annessione (salvo poi ammettere che erano forze speciali russe, in seguito furono premiate con medaglie), di non sapere nulla di un intervento militare russo in Siria (nell’agosto 2015, i bombardamenti russi in Siria cominciarono due settimane dopo), di non essere responsabile dell’abbattimento di un aereo passeggeri in Ucraina nel luglio 2014 (la commissione d’inchiesta creata dal governo olandese ha incolpato ufficialmente la Russia lo scorso maggio), di non sapere nulla del tentato omicidio di un dirigente dell’intelligence russa scappato in Gran Bretagna dopo la diserzione (il New York Times ha tre fonti dei servizi inglesi e americani che accusano l’intelligence militare russa), di non sapere nulla delle operazioni per entrare nei computer del Partito democratico (il procuratore speciale Robert Mueller cinque giorni fa ha incriminato dodici agenti dell’intelligence militare russa) e si può continuare.
Questo ombrello della propaganda difende spesso anche gli alleati: la Russia sostiene che gli attacchi con armi chimiche in Siria o non sono veri (la commissione d’inchiesta dell’Opcw però ha confermato gli attacchi chimici e ha detto che le sostanze usate erano uguali a quelle dell’arsenale chimico siriano, sta ancora lavorando sull’ultimo attacco con il cloro a Douma), oppure che sono stati inscenati da governi occidentali. Di fatto la Russia per schermare il lato oscuro della propria politica estera produce una cortina permanente di fake news, che spesso sono accolte in occidente da una folla adorante. A furia di fake news, è nato un fake world: un mondo alternativo – in cui Hillary Clinton ha creato lo Stato islamico e Angela Merkel si è fatta un selfie con uno stragista di Bruxelles (sono entrambe notizie false, nel caso foste abitanti del fake world) – in cui molti sguazzano felici senza più ricordare cosa c’è fuori.
Dopo le proteste per le sue affermazioni sulle interferenze del Cremlino, The Donald sostiene di essersi espresso male a Helsinki
Se questo è il contesto, da anni ormai, allora il presidente americano dovrebbe guidare le operazioni a ciclo continuo per smontare la propaganda che viene da est, nell’interesse dell’America e dei suoi alleati in Europa. Dovrebbe guidare le incursioni nel fake world. Dovrebbe mettere in luce le contraddizioni e fare da fonte autorevole, considerato che il budget che il governo americano fornisce alle sue agenzie per farsi i fatti degli altri e raccogliere informazioni genuine è il più alto della storia dell’umanità. E invece a un certo punto della conferenza stampa di Helsinki assieme a Putin un giornalista ha chiesto al presidente americano: “Do you hold Russia at all accountable for anything in particular?”. C’è una cosa in particolare di cui ritiene la Russia responsabile, almeno una? Lui ha risposto: “We are all to blame”, possiamo essere tutti accusati di qualcosa. In pratica ha risposto: no. Siamo tutti sullo stesso piano, non c’è vero o falso. Si capisce perché molti media americani il giorno dopo hanno descritto l’incontro come una “capitolazione” davanti a Putin e anche perché c’era molta soddisfazione da parte della Russia, tanto che il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha detto che l’incontro è stato “magnifico”: “Better than super”  
E invece con un meccanismo classico di rovesciamento ieri Trump, dopo essersi rifiutato di contestare le fake news russe, ha attaccato i media americani perché hanno raccontato male l’incontro con Putin, che è andato persino meglio di quello già ottimo – secondo lui – con la Nato. “The Fake News is going Crazy!”.

Il piano Trump-Putin contro l’Europa

Mueller rovina a Trump la photo opportunity con la Regina e l’incontro con Putin: dodici funzionari dell’intelligence russa incriminati per aver rubato le mail del Partito democratico. Lo sgretolamento delle fondamenta dell’occidente
Il Foglio - 15 Luglio 2018
Metti un russo e un americano a Helsinki
Foto LaPresse
Roma. La presenza di Vladimir Putin si è fatta sentire anche mentre Donald Trump era in visita dalla regina Elisabetta, nella seconda tappa del suo viaggio europeo. Dodici funzionari dell’intelligence russa sono stati incriminati per aver violato e sottratto dati dai sistemi informatici del Partito democratico e dal team di Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016, provvedimento preso nell’ambito dell’inchiesta sulla collusione con il Cremlino guidata dallo special counsel, Robert Mueller. Ad annunciarlo è stato il viceprocuratore generale, Rod Rosenstein – che però è il titolare dell’inchiesta, dato che Jeff Sessions si è ricusato – in una conferenza stampa che ha rimesso al centro la questione russa dopo i giorni dominati dai litigi e dalle smentite fra gli alleati della Nato. In un comunicato, la Casa Bianca ha ribadito che l’incriminazione non prova alcun tipo di collusione, e non ha condannato l’azione dei funzionari d’intelligence russi.
Dallo scorso anno diversi media scrivono che il procuratore speciale aveva in mano elementi per incriminare alcune spie del Gru, ma il provvedimento ufficiale è arrivato tre giorni prima dell’incontro fra Trump e Putin a Helsinki, l’appuntamento attorno a cui ruota tutta la missione transatlantica del presidente. La notizia complica una spedizione che Trump aveva concepito come una manovra di avvicinamento in tre tappe per presentarsi da Putin con la postura giusta.
Prima di partire aveva detto che le tappe di Bruxelles e Londra sarebbero state probabilmente le più difficili. Al confronto con i dialoghi tra i membri dell’alleanza militare e i titolari della “special relationship”, il colloquio con il competitor delle affinità elettive sarebbe stata una passeggiata di salute. A Bruxelles si è adirato e smentito, ha minacciato e si è intestato vittorie inesistenti, picconando il più rumorosamente possibile un’alleanza che poi, alla prova dei fatti, ha lasciato tale e quale; in Gran Bretagna ha violato protocollo e buonsenso politico mettendo il dito – al solito indelicatamente – negli affari interni dell’alleato più importante.
I primi segmenti del viaggio si stanno mostrando per ciò che sono: preparativi per presentarsi da Putin con l’abito e il trucco giusti. Guardata con la lente d’ingrandimento la spedizione trumpiana è un coacervo di elementi contraddittori e non rivoluzionari, ma se si osserva con un grandangolo, dall’alto, l’immagine che ne esce non potrebbe essere più gradita al presidente russo. Lo spettacolo indecifrabile a cui il mondo ha assistito in questi giorni è funzionale all’avvicinamento alla corte di Putin, è un rito preparatorio per rinsaldare la relazione speciale che Trump non ha mai fatto mistero di coltivare. A Bruxelles e a Londra ha in qualche modo dimostrato di saper battere i pugni sui tavoli degli alleati, destabilizzando certezze consolidate, e questo agitarsi furioso all’interno del blocco occidentale è la gioia di Putin. Si tratterà di vedere se e come i provvedimenti contro gli agenti russi cambieranno la posizione di Trump che ha già ampiamente dimostrato di essere impermeabile ai fatti, quando vuole. La performance del presidente che abbaia agli alleati “è deludente ma alla fine prevedibile” ha detto il senatore John McCain, sottolineando che Putin “è un nemico dell’America perché ha scelto di esserlo”. Trump, ha scritto McCain, deve chiedere conto a Putin delle sue azioni in Crimea, in Siria e altrove, e “se non lo farà pregiudicherà la leadership americana nel mondo”.
In questi giorni Trump ha occasionalmente attaccato Putin, ha accusato la Germania di essere “prigioniera” di Mosca e ha firmato, assieme agli altri membri, una dichiarazione fortemente antirussa, ma il generale indebolimento della Nato è l’obiettivo primario di Putin, il quale è ben disposto a subire qualche formale presa di posizione antagonista in cambio di un generale indebolimento o di un rinnovato clima di confusione nei ranghi dell’Alleanza atlantica. Nell’improvvisata conferenza stampa di Bruxelles Trump si è lasciato sfuggire un commento positivo sul fatto che in Crimea i russi costruiscono ponti, cosa che ha eclissato altre frasi critiche sulla situazione della penisola, e ha detto che parleranno della possibilità di cancellare le esercitazioni militari sul confine russo. 
In cambio Trump potrebbe chiedere l’allentamento dei rapporti con l’Iran, cosa caldeggiata da Israele e Arabia Saudita, ma la recente storia dei negoziati diplomatici racconta che il presidente duro con gli alleati ha una certa inclinazione a concedere qualcosa in cambio di nulla. E’ il caso delle esercitazioni cancellate nella penisola coreana a fronte di nebulose promesse di denuclearizzazione.
Una tesi è che tutto questo sia parte di una grande tattica negoziale. In fondo, Trump ha firmato a Bruxelles una dichiarazione solida e tradizionale, ha aumentato le truppe americane sul confine est della Nato, ha allargato il budget per la difesa degli alleati europei e ha fatto diverse manovre per consolidare le alleanza. Tutte “cose vere, ma che non contano” ha scritto lo storico Bob Kagan sul Washington Post, sottolineando che aumenti incrementali di truppe o finanziamenti “non significano molto quando le fondamenta dell’alleanza si sgretolano”. Secondo Kagan, lo show di Trump in preparazione all’incontro di Helsinki non è una normale lite in famiglia, ma il segno che “l’alleanza democratica che è stata la roccia su cui l’ordine liberale a trazione americana è stato fondato, oggi è consumata”. Nessuno meglio di Putin conosce questa lezione.

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