Trump succube preferisce Putin all’America
Se Trump era così remissivo in pubblico, figurarsi come cedeva nel faccia a faccia con il russo
Roma. Si pensava che l’incontro tra il presidente americano Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin a Helsinki
potesse andare male, ma non si pensava che potesse andare così male e
in modo così aperto e così evidente a tutti. Finita la conferenza stampa
congiunta con i giornalisti americani e russi, la grande questione
nell’aria era: se Trump si comporta in modo così debole davanti a Putin
quando è alla presenza dei media di tutto il mondo, allora come si è
comportato nel segreto della stanza dove ha parlato con Putin per
novanta minuti, più del previsto, unici testimoni i due traduttori? La
seconda questione era: cosa resta della credibilità di Trump? Molti
alleati si chiedono: e adesso dovremmo credere che il presidente
verrebbe in nostro aiuto se la Russia minacciasse i nostri paesi? La
questione investe a catena tutta l’architettura di accordi tra America e
resto del mondo.
Il
peccato originale del presidente americano è che su di lui incombe il
sospetto di essere stato aiutato dalla Russia a vincere le elezioni
presidenziali nel 2016 e anche il sospetto che sia in qualche modo
in debito con il Cremlino, al punto che si ipotizza che i servizi
segreti russi abbiano materiale compromettente su di lui raccolto quando
era un semplice businessman americano in visita a Mosca – kompromat,
in russo, una tattica molto comune che però quella volta centrò un
bersaglio grosso: il businessman è poi diventato presidente. Ecco, Trump
si è rifiutato di dire qualsiasi cosa che potesse essere anche
lontanamente fastidiosa per Putin, si è comportato in modo remissivo e
non ha annunciato alcun progresso chiaro a proposito delle questioni
internazionali che potevano essere discusse, dall’Ucraina alla Siria. Da
una parte lui, che evitava di entrare in collisione a qualsiasi costo, e
dall’altra il russo con l’aria del gatto che ha il sorcio in bocca. Di
più: Trump ha messo in questione i servizi segreti americani. Lo aveva
già fatto, ma dal podio accanto a Putin questo voltare le spalle ai suoi
è stato di una potenza mai vista prima.
Quando gli hanno chiesto se si fida di più delle agenzie di
intelligence americane oppure più di Putin, si è sottratto alla domanda
secca producendosi in una lunga risposta senza senso, in cui ha detto di
avere fiducia in entrambe le parti, e che “però non vedo la ragione per
cui dovrebbe essere stata la Russia”, e che prima vuole vedere le mail
di Hillary Clinton (era un grande classico dei comizi 2016, ma a
Helsinki non aveva senso tirarle di nuovo in ballo) e che si fida della
sua intelligence ma “Putin è stato molto convincente e incredibilmente
forte a negare”, e che ha pure fatto “un’offerta incredibile: ha offerto
ai nostri che stanno investigando sulle spie russe di venire e di
lavorare in collaborazione con gli investigatori russi. E’ un’offerta
incredibile”. Il russo ha precisato: “In cambio, per reciprocità,
manderemo i nostri investigatori in America” per chiarire alcune
faccende che premono al Cremlino.
A metà conferenza stampa ha ricevuto un pallone dei Mondiali da
Putin come regalo – “ora la palla è nel vostro campo”, ma lui non ha
capito la metafora e ha accarezzato il pallone tutto contento. Se questo
era il piano dell’intelligence di Mosca fin dall’inizio, sta andando
benissimo. Putin è atterrato a Helsinki con una serie di crisi in corso,
dall’annessione illegale della Crimea alle sanzioni internazionali
all’abbattimento di un aereo passeggeri con 298 persone a bordo sopra il
confine ucraino – oggi è il quarto anniversario – fino al dossier
Siria, dove Iran e Israele si fronteggiano. Riparte senza che l’America
lo abbia messo in difficoltà per un solo minuto.
Se POTUS conferma le bufale
russe
Trump cerca
di rimangiarsi quello che detto alla conferenza di Helsinki. La propaganda
putiniana adesso ha un alleato "better than super"
Il Foglio - 18 Luglio
2018
Roma. La conferenza stampa di Trump e Putin
a Helsinki è stata molto importante per molte ragioni, una in particolare è che
il presidente americano ha legittimato il modo russo di raccontare quello che
succede nel mondo. Non importa se poi succede, come è accaduto ieri, che Trump cerca di rimangiarsi quello che
ha detto al cospetto del presidente russo e di cambiare il senso
delle parole che ha pronunciato, come se qualcuno gli avesse spiegato le
conseguenze delle sue dichiarazioni. Per esempio, ora accetta le conclusioni dell’intelligence
americana sulle interferenze russe (che ci sono state) e tenta di
dire che intendeva “non c’è ragione perché non sia stata la Russia a
interferire con le elezioni americane”.
A Helsinki,
in realtà ha detto che “non c’è ragione per dire che sia stata la Russia”, come
ha capito tutto il mondo collegato in diretta. Dicevamo: la conferenza stampa
insieme con il capo del Cremlino è stata importante perché Trump ha legittimato
il modo russo di raccontare quello che succede nel mondo. Come si sa, da anni
ormai Mosca investe molte risorse e molto tempo nella propaganda di stato per
dare una versione dei fatti sempre molto conveniente, anche se fraudolenta: la
Russia non ha mai colpe e la responsabilità per le brutture che accadono è
sempre dei suoi nemici. Il governo di Putin ha detto di non sapere nulla degli
uomini in divisa verde che hanno occupato la Crimea nel marzo 2014 prima
dell’annessione (salvo poi ammettere che erano forze speciali russe, in seguito
furono premiate con medaglie), di non sapere nulla di un intervento militare
russo in Siria (nell’agosto 2015, i bombardamenti russi in Siria cominciarono
due settimane dopo), di non essere responsabile dell’abbattimento di un aereo
passeggeri in Ucraina nel luglio 2014 (la commissione d’inchiesta creata dal
governo olandese ha incolpato ufficialmente la Russia lo scorso maggio), di non
sapere nulla del tentato omicidio di un dirigente dell’intelligence russa
scappato in Gran Bretagna dopo la diserzione (il New York Times ha tre fonti
dei servizi inglesi e americani che accusano l’intelligence militare russa), di
non sapere nulla delle operazioni per entrare nei computer del Partito
democratico (il procuratore speciale Robert Mueller cinque giorni fa ha
incriminato dodici agenti dell’intelligence militare russa) e si può
continuare.
Questo
ombrello della propaganda difende spesso anche gli alleati: la Russia sostiene
che gli attacchi con armi chimiche in Siria o non sono veri (la commissione
d’inchiesta dell’Opcw però ha confermato gli attacchi chimici e ha detto che le
sostanze usate erano uguali a quelle dell’arsenale chimico siriano, sta ancora
lavorando sull’ultimo attacco con il cloro a Douma), oppure che sono stati
inscenati da governi occidentali. Di fatto la Russia per schermare il lato
oscuro della propria politica estera produce una cortina permanente di fake
news, che spesso sono accolte in occidente da una folla adorante. A furia di
fake news, è nato un fake world: un mondo alternativo – in cui Hillary Clinton
ha creato lo Stato islamico e Angela Merkel si è fatta un selfie con uno
stragista di Bruxelles (sono entrambe notizie false, nel caso foste abitanti
del fake world) – in cui molti sguazzano felici senza più ricordare cosa c’è
fuori.
Dopo le
proteste per le sue affermazioni sulle interferenze del Cremlino, The Donald
sostiene di essersi espresso male a Helsinki
Se questo è
il contesto, da anni ormai, allora il presidente americano dovrebbe guidare le
operazioni a ciclo continuo per smontare la propaganda che viene da est,
nell’interesse dell’America e dei suoi alleati in Europa. Dovrebbe guidare le
incursioni nel fake world. Dovrebbe mettere in luce le contraddizioni e fare da
fonte autorevole, considerato che il budget che il governo americano fornisce
alle sue agenzie per farsi i fatti degli altri e raccogliere informazioni
genuine è il più alto della storia dell’umanità. E invece a un certo punto della
conferenza stampa di Helsinki assieme a Putin un giornalista ha chiesto al
presidente americano: “Do you hold Russia at all accountable for anything in
particular?”. C’è una cosa in particolare di cui ritiene la Russia
responsabile, almeno una? Lui ha risposto: “We are all to blame”, possiamo
essere tutti accusati di qualcosa. In pratica ha risposto: no. Siamo tutti
sullo stesso piano, non c’è vero o falso. Si capisce perché molti media
americani il giorno dopo hanno descritto l’incontro come una “capitolazione”
davanti a Putin e anche perché c’era molta soddisfazione da parte della Russia,
tanto che il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha detto che
l’incontro è stato “magnifico”: “Better than super”
E invece con
un meccanismo classico di rovesciamento ieri Trump, dopo essersi rifiutato di
contestare le fake news russe, ha attaccato i media americani perché hanno
raccontato male l’incontro con Putin, che è andato persino meglio di quello già
ottimo – secondo lui – con la Nato. “The Fake News is going Crazy!”.
Il piano Trump-Putin contro l’Europa
Mueller
rovina a Trump la photo opportunity con la Regina e l’incontro con
Putin: dodici funzionari dell’intelligence russa incriminati per aver
rubato le mail del Partito democratico. Lo sgretolamento delle
fondamenta dell’occidente

Foto LaPresse
Roma. La presenza di Vladimir Putin si è fatta sentire
anche mentre Donald Trump era in visita dalla regina Elisabetta, nella
seconda tappa del suo viaggio europeo. Dodici funzionari
dell’intelligence russa sono stati incriminati per aver violato e
sottratto dati dai sistemi informatici del Partito democratico e dal
team di Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016,
provvedimento preso nell’ambito dell’inchiesta sulla collusione con il
Cremlino guidata dallo special counsel, Robert Mueller. Ad annunciarlo è
stato il viceprocuratore generale, Rod Rosenstein – che però è il
titolare dell’inchiesta, dato che Jeff Sessions si è ricusato – in una
conferenza stampa che ha rimesso al centro la questione russa dopo i
giorni dominati dai litigi e dalle smentite fra gli alleati della Nato.
In un comunicato, la Casa Bianca ha ribadito che l’incriminazione non
prova alcun tipo di collusione, e non ha condannato l’azione dei
funzionari d’intelligence russi.
Dallo scorso anno diversi media scrivono che il procuratore speciale
aveva in mano elementi per incriminare alcune spie del Gru, ma il
provvedimento ufficiale è arrivato tre giorni prima dell’incontro fra
Trump e Putin a Helsinki, l’appuntamento attorno a cui ruota tutta la
missione transatlantica del presidente. La notizia complica una
spedizione che Trump aveva concepito come una manovra di avvicinamento
in tre tappe per presentarsi da Putin con la postura giusta.
Prima di partire aveva detto che le tappe di Bruxelles e Londra
sarebbero state probabilmente le più difficili. Al confronto con i
dialoghi tra i membri dell’alleanza militare e i titolari della “special
relationship”, il colloquio con il competitor delle affinità elettive
sarebbe stata una passeggiata di salute. A Bruxelles si è adirato e
smentito, ha minacciato e si è intestato vittorie inesistenti,
picconando il più rumorosamente possibile un’alleanza che poi, alla
prova dei fatti, ha lasciato tale e quale; in Gran Bretagna ha violato
protocollo e buonsenso politico mettendo il dito – al solito
indelicatamente – negli affari interni dell’alleato più importante.
I primi segmenti del viaggio si stanno mostrando per ciò che sono:
preparativi per presentarsi da Putin con l’abito e il trucco giusti.
Guardata con la lente d’ingrandimento la spedizione trumpiana è un
coacervo di elementi contraddittori e non rivoluzionari, ma se si
osserva con un grandangolo, dall’alto, l’immagine che ne esce non
potrebbe essere più gradita al presidente russo. Lo spettacolo
indecifrabile a cui il mondo ha assistito in questi giorni è funzionale
all’avvicinamento alla corte di Putin, è un rito preparatorio per
rinsaldare la relazione speciale che Trump non ha mai fatto mistero di
coltivare. A Bruxelles e a Londra ha in qualche modo dimostrato di saper
battere i pugni sui tavoli degli alleati, destabilizzando certezze
consolidate, e questo agitarsi furioso all’interno del blocco
occidentale è la gioia di Putin. Si tratterà di vedere se e come i
provvedimenti contro gli agenti russi cambieranno la posizione di Trump
che ha già ampiamente dimostrato di essere impermeabile ai fatti, quando
vuole. La performance del presidente che abbaia agli alleati “è
deludente ma alla fine prevedibile” ha detto il senatore John McCain,
sottolineando che Putin “è un nemico dell’America perché ha scelto di
esserlo”. Trump, ha scritto McCain, deve chiedere conto a Putin delle
sue azioni in Crimea, in Siria e altrove, e “se non lo farà
pregiudicherà la leadership americana nel mondo”.
In questi giorni Trump ha occasionalmente attaccato Putin, ha
accusato la Germania di essere “prigioniera” di Mosca e ha firmato,
assieme agli altri membri, una dichiarazione fortemente antirussa, ma il
generale indebolimento della Nato è l’obiettivo primario di Putin, il
quale è ben disposto a subire qualche formale presa di posizione
antagonista in cambio di un generale indebolimento o di un rinnovato
clima di confusione nei ranghi dell’Alleanza atlantica.
Nell’improvvisata conferenza stampa di Bruxelles Trump si è lasciato
sfuggire un commento positivo sul fatto che in Crimea i russi
costruiscono ponti, cosa che ha eclissato altre frasi critiche sulla
situazione della penisola, e ha detto che parleranno della possibilità
di cancellare le esercitazioni militari sul confine russo.
In cambio Trump potrebbe chiedere l’allentamento
dei rapporti con l’Iran, cosa caldeggiata da Israele e Arabia Saudita,
ma la recente storia dei negoziati diplomatici racconta che il
presidente duro con gli alleati ha una certa inclinazione a concedere
qualcosa in cambio di nulla. E’ il caso delle esercitazioni cancellate
nella penisola coreana a fronte di nebulose promesse di
denuclearizzazione.
Una tesi è che tutto questo sia parte di una
grande tattica negoziale. In fondo, Trump ha firmato a Bruxelles una
dichiarazione solida e tradizionale, ha aumentato le truppe americane
sul confine est della Nato, ha allargato il budget per la difesa degli
alleati europei e ha fatto diverse manovre per consolidare le alleanza.
Tutte “cose vere, ma che non contano” ha scritto lo storico Bob Kagan
sul Washington Post, sottolineando che aumenti incrementali di truppe o
finanziamenti “non significano molto quando le fondamenta dell’alleanza
si sgretolano”. Secondo Kagan, lo show di Trump in preparazione
all’incontro di Helsinki non è una normale lite in famiglia, ma il segno
che “l’alleanza democratica che è stata la roccia su cui l’ordine
liberale a trazione americana è stato fondato, oggi è consumata”.
Nessuno meglio di Putin conosce questa lezione.
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