Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

lunedì 5 dicembre 2016

La Grande Impostura dell'ammucchiata conservatrice - editoriale

Renzi, tutti gli errori. E la grande, pavida impostura
Pubblicato il 5 dicembre 2016 15:11
di Mino Fuccillo
ROMA – Renzi, il fine commentatore/analista politico (in assonanza con l’elettore moderato e progressista e non entusiasta e populista) su di lui, dopo dotta e documentata disamina, sentenzia: “Se l’è voluta e cercata”. Segue o precede lunga e nota lista degli errori di Renzi.
Primo errore: risultare antipatico, apparire sbruffone, dare perfino un po’ sui nervi alla pubblica opinione, dotta o plebea che sia. Ma questo non è proprio un errore, ci si nasce. Antipatico e cicciottello, logorroico e urticante non è errore politico, caso mai politico handicap. Il primo errore c’è nei fatti, ma non sostiene, non regge la fine architettura dell’analisi “se l’è voluta e cercata”.
Il secondo errore: il jobs act. Poteva lasciar perdere gli suggerisce a babbo morto il ceto dirigente del paese per bocca dei fini dicitori dell’analisi politica. Già poteva lasciar perdere e non farsi tanti nemici a sinistra, non diventare il nemico pubblico numero uno dei Cobas, della Cgil, dei “compagni per sempre”. Poteva lasciar perdere e fare come tutti: osservare sereno e immobile un paese dove i vecchi guadagnano, risparmiano, possiedono più dei giovani. Si è voluto impicciare, mettendo le mani niente meno che nel mercato del lavoro che da noi funziona con ritmi consolidati: precariato, graduatoria del tempo di precariato, assunzione di fatto, assunzione di diritto, pensionamento magari pre. Poteva lasciar perdere Renzi come hanno fatto tutti in materia, come ha fatto Berlusconi, come ha fatto D’Alema premier. Meglio lasciar perdere, ci si fa male a impicciarsi.
Il terzo errore: la legge sulla scuola. Anche qui era meglio per lui lasciar perdere gli ricordano le voci pensanti e scriventi del ceto dirigente. Andare a impicciarsi, con precari, cattedre e assunzioni. Nella scuola? Lì funziona che vai non cattedra per anzianità di precariato e vedi miseri aumenti di stipendio per anzianità di servizio. Punto. Vigilano i sindacati che nulla d’altro accada. Andarsi a impicciare tanto finiva che in cattedra ci vanno lo stesso quelli con scarse competenze o competenze che non servono alla scuola. Farsi male, farsi odiare dai prof per non ottenere nulla. E poi provocare i prof con l’aumento di stipendio legato al merito, anzi al giudizio dei presidi-sceriffi! Se stava zitto e buono e si limitava a sganciare il miliardo e passa speso per lo scuola, se quei soldi li consegnava alla gestione sindacale…”non l’avrebbero odiato tanto”.
Il quarto errore: le banche. Meglio lasciarle fallire o meglio, molto meglio ancora pagarne a piè di lista con soldi pubblici buchi, cunicoli e voragini di bilancio. Magari non facendo sapere nulla al contribuente, nulla di diretto, come si è sempre fatto. Comunque mai e poi mai salvare, insomma non chiudere una banca e far pagare una parte del conto a qualcuno che nella banca aveva investito e rischiato. Questo è peccato mortale, errore fatale. Con una tassa occulta, più o meno occulta, si evitava un’altra tonnellata di “così tanto odio”. All’incauto Renzi lo ricorda quel che si affaccia in tv e sui giornali del ceto dirigente italiano.
Ma l’errore più grande, macroscopico, dettato dalla superbia incauta è stata la riforma costituzionale e il conseguente referendum. L’analisi politica colta e raffinata, l’analisi del ceto dirigente e pensante dice a Renzi “Ma chi te l’ha fatto fare?”. Andare a voler smontare e rimontare il meccanismo legislativo di cui alla gente non frega nulla ma che alla varie “magistrature” italiane è caro come casa e cosa loro? Ma chi te l’ha fatto fare? E’ il vero e meditato rimprovero. La cui sottospecie di successo seppur banale è: non doveva “personalizzare” il referendum. Cioè doveva dire: votate come vi pare tanto io non mi muovo, resto al governo e chi se ne frega? Ma, dice la più educata coscienza civile del paese, il saggio e abile governante non smuove, non fa onda, tendenzialmente non fa nulla, come Letta, come avrebbe fatto Bersani. L’errore più grande e imperdonabile imputato a Renzi è a ben guardare il fatto stesso di averci provato. Ma chi glielo ha fatto fare di impicciarsi con le riforme istituzionali? Di queste si parla ma non si fa. Si sa, l’esperto lo sa.
Altra e contemporanea versione dell’errore più grande di Renzi, anche questa pensata, ponsata e scritta e più teste e mani. Ecco l’errore: il non aver capito gli italiani e la società italiana. A dire il vero questo errore di questi tempi viene imputato a chiunque perda un’elezione, come se “capire” fosse sinonimo di…Di che infatti? Capire, in effetti Renzi non ha capito.
Non ha capito che una richiesta che viene forte dalla società è avere un posto di lavoro e un impiego a prescindere dalle competenze. Se ci sono bene le competenze, se non ci sono posto e impiego arrivino lo stesso.
Non ha capito che una forte richiesta è quella per una pensione a prescindere dai contributi versati.
Non ha capito che una forte richiesta è quella di avere finanziamenti bancari e credito a prescindere dalla solvibilità e competitività della impresa o azienda. Anzi finanziamenti e credito devono fare la parte, supplire a competitività e solvibilità assenti. In effetti è una forte richiesta.
Non ha capito che dal basso, dalla società vera viene richiesta di cancellare o rendere invisibili migranti e simili (al massimo lavorino di giorno ma spariscano all’imbrunire).
Non ha capito che gli interessi di bosco e di riviera, di casta e di gente esigono che non si muova foglia, nulla muti e cambi senza l’assenso di tutti in cambio di qualcosa per tutti. Altrimenti se non ci guadagnano tutti qualcosa e nessuno ci rimette niente non è riforma, è attentato alla libertà e ai diritti fondamentali.
Non ha capito che ogni gruppo di interesse, anche quello di quartiere usa e sventola la Costituzione come alibi e copertura e scudo per i fatti “suoi”.
Non ha capito che il paese che con presunzione voleva governare è una società gigantesco comitato del No Tutto.
Non ha capito Renzi perché Renzi in fondo è rimasto un boy scout molto ottimista, qua e là fessacchiotto che immagina un paese immaginario dove ci si sveglia al mattino e si va a dormire la sera sempre al ritmo e suono delle buone intenzioni.
Ma anche avesse capito, che deve fare un leader di governo che “capisce”? Fare quello che il paese chiede ed esige? Quello che ha sempre ragione è il cliente, non il cittadino elettore. Su questo punto l’analisi e la coscienza civile del ceto dirigente hanno abdicato. L’elettorato ha in democrazia il potere e l’autorità. L’elettore è sovrano. Ma aver ragione sempre e comunque non è attributo della sovranità. Un ceto dirigente (e anche un popolo socialmente civilizzato) dovrebbero saperlo. Quel che la gente italiana chiede nessuno (né Grillo né Salvini né i compagni per sempre) può pari pari darglielo e non è per nulla detto sia giusto darglielo.
Ed è questa la grande e pavida impostura: raccontare che il 60 per cento dei votanti ha difeso la Costituzione contro il tentato despota, raccontare dell’eroica resistenza di massa a difesa del Senato e delle Regioni quando la gente al Senato e alla Regioni darebbe se non fuoco certamente l’addio. Almeno Grillo e Salvini dicono la verità: si è votato per far fuori il governo di centro sinistra, punto. Fatto fuori, punto. Ma ci sono i D’Alema e i Travaglio che in perfetta assonanza narrano l’impostura di una grande vittoria della democrazia progressista. La sinistra (anche se Travaglio passa per tale ma sinistra non è né è mai stato) festeggia la sua terza vittoria contro un governo di centro sinistra, due volte Prodi, oggi Renzi. Anche questa è impostura.
Cui si aggiunge quella pavida del ceto dirigente, dei suoi giornali e tv, dei suoi pensieri e ormai si deve dire anche dei suoi valori. Un ceto dirigente che consiglia ai leader politici di lasciar perdere altrimenti si fanno male, un ceto intellettuale che inchioda Renzi al “chi te l’ha fatto fare”. Un ceto dirigente che si ritiene saggio mentre invece è già perso e arreso. Ciaone al boy scout dunque, fuori un altro. Ma quel ceto resta e la sua pavidità fa paura.


p.s.
E il Pd? Renzi, caso più unico che raro in Italia, ha mantenuto la parola e, visto il risultato più che netto di ieri, esce di scena. Esce di scena lasciando un partito democratico dove molti brindano alla terza vittoria della sinistra ai danni di un governo di centro sinistra, due volte Prodi (1998-2008), stavolta Renzi. Tanto per capirci, mentre Di Maio annuncia che M5S sta pensando al governo del movimento, D’Alema studia come dare la segreteria del Pd a Speranza.

lunedì 31 ottobre 2016

L'era della post-verità



Quando trionfa la post-verità

I fatti? Non contano più: benvenuti nell’era che non crede più ai fatti, benvenuti nell’era della post-verità.
Non si vota per la Brexit o per Trump perché dicono la verità, ma perché incarnano, a torto o a ragione, un rifiuto del ‘sistema’.
Non importa quante sciocchezze abbia detto. Donald Trump ha continuato a guadagnare voti. Perché nell'epoca della post-verità, gli elettori non vogliono fatti, ma messaggi emozionali. Veri o meno.





“Pensate a quanto Donald Trump è estraneo ai fatti. Vive in un regno fantastico in cui il certificato di nascita di Barack Obama è falsificato, il presidente ha fondato lo Stato islamico, i Clinton sono assassini e il padre di un rivale era con Lee Harvey Oswald prima che questi uccidesse John F. Kennedy”. Inizia così il durissimo e illuminante editoriale dell’Economist, che questa settimana dedica la copertina alla “politica del post verità”, di cui il candidato repubblicano alla Casa Bianca è uno dei maggiori esponenti. Nell’èra della post verità, scrive l’Economist, le dichiarazioni dei politici hanno perso le loro fondamenta nel reale. I politici hanno sempre mentito, ma questa volta la differenza è più grande: la verità è diventata un elemento di importanza secondaria, e i social media hanno un ruolo fondamentale in tutto questo.
L’espressione è apparsa nel 2004 in un libro pubblicato negli Stati Uniti, ma è nel 2016 che ha acquisito un senso più compiuto: post-truth, postverità. La formula descrive la pericolosa tendenza delle democrazie occidentali a non credere più ai fatti nel dibattito politico, bensì alle menzogne pronunciate in tono sicuro.
Nel suo libro The post-truth era (L’era della postverità), Ralph Keyes definisce la menzogna “un’affermazione falsa, fatta in piena cognizione di causa con l’obiettivo d’ingannare”. Un esempio? La campagna referendaria per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea sosteneva che Londra versava all’Ue 350 milioni di sterline alla settimana e che tale denaro sarebbe potuto essere investito nel servizio sanitario nazionale in caso d’uscita dall’Unione europea. L’affermazione era chiaramente falsa: non erano vere né la cifra né la promessa. Ma una volta scritta sugli autobus britannici a due piani è diventata credibile.
«La verità ha ancora qualche importanza?», si chiedeva la direttrice del Guardian  Katharine Viner a luglio, commentando il risultato del referendum sulla Brexit nel Regno Unito. La vittoria del sì è stata possibile anche grazie alle balle raccontate da Boris Johnson, che dell’argomento dei 350 milioni di sterline a settimana «rubate» da Bruxelles alla sanità nazionale ha fatto la sua bandiera.  Una panzana ma c’è chi ci ha creduto, nonostante i giornali avessero provato a smentirla. Oggi è chiaro, ma troppo tardi.
Ora il testimone della post-truth è passato a Donald Trump, e questa tendenza si intravede già nei primi dibattiti per le elezioni presidenziali francesi.

Siamo in piena epoca «post-truth», di post-verità. «I fatti non funzionano», non fanno guadagnare voti, ha detto Arron Banks, multimilionario co-fondatore della campagna per il Leave. E la domanda di Katharine Viner vale oggi anche altrove, per esempio in America, dove Donald Trump nel duello con Hillary Clinton colleziona bufale senza perdere voti, anzi, guadagnandone. «La campagna per il Remain ha prodotto fatti, fatti, fatti, fatti. Ma non funziona. Devi connetterti con la gente dal punto di vista emotivo. Sta qui il successo di Trump», ha aggiunto Banks.

Non importa quindi quante sciocchezze abbia detto Trump nel primo grande dibattito con Hillary. Del resto ne aveva già dette a iosa. Il blog di fact-checking del Washington Post le ha messe in fila: da Obama che non è nato negli Stati Uniti ai 4 milioni di dollari spesi per nascondere l’evidenza della sua nascita avvenuta altrove, all’invenzione delle «migliaia» di musulmani nel New Jersey che hanno celebrato gli attacchi dell’Undici Settembre.  L’ultima menzogna di Trump è stata smascherata da Politifact, che ha dimostrato che il candidato repubblicano non si è affatto opposto all’invasione dell’Iraq come ha sostenuto più volte. Tre mesi prima della guerra si era detto favorevole all’idea, per poi prenderne le distanze nel 2004 quando sono cominciati i problemi. Ma poco importa. Trump continua a dire quel che gli fa comodo, o che piace al suo elettorato, senza preoccuparsi della verità e neppure dei fatti.
Nel caso di Trump la cosa più stupefacente è che un paese moralista come gli Stati Uniti ha spesso considerato la menzogna una cosa più grave dei fatti che si volevano nascondere. Sono stati la bugia e lo spergiuro, più che il furto con scasso, a portare all’impeachment di Richard Nixon dopo lo scandalo Watergate.  Gli esperti di fact-checking (verifica dei fatti) hanno dimostrato che più di due terzi delle affermazioni di Trump nell’ultimo anno sono false, ma la sua credibilità non ne risente. Al contrario, all’indomani del suo viaggio in Messico in cui non ha osato dire al presidente messicano che gli avrebbe inviato la fattura del famoso muro che intende costruire lungo la frontiera – per poi ripetere ai suoi elettori che “saranno i messicani a pagare” – ha superato Hillary Clinton in alcuni sondaggi (anche se la sua vittoria appare ancora improbabile).

Ralph Keyes, nel suo libro L’era della post-verità, definisce la menzogna come «un’affermazione falsa, fatta in piena cognizione di causa con l’obiettivo d’ingannare».  Trump è uno che mente sapendo di mentire, ma non è l’unico. Pensate a quelli che in Italia danno del Pinochet a Renzi (citofonare Di Maio) o a quelli che danno la colpa dei mali dell’Italia all’euro, ai migranti e alla Boldrini (ri-citofonare Salvini), o ai ticinesi che hanno votato al referendum per cacciare i frontalieri della Padania che «rubano il lavoro a noi svizzeri» (peccato che la disoccupazione nel Cantone non superi il 3%). O a chi smercia teorie complottiste non suffragate dai fatti (dalle scie chimiche all’Undici Settembre come inside job).
«La post-truth», commenta il politologo Colin Crouch, autore di Postdemocrazia (Laterza), «fa parte di una retorica politica che mostra disprezzo per l’evidenza e gli appelli alla ragione. Sono gli esperti che hanno un ruolo privilegiato nell’uso dell’evidenza e della ragione, e questo disprezzo nei loro confronti contribuisce a un populismo più generale, secondo cui solo il popolo ha la capacità di prendere decisioni. Abbiamo visto quest’approccio in Inghilterra: chi tifava Brexit ha espresso disprezzo per gli argomenti degli esperti perché, dicevano, gli esperti si sbagliano sempre».  Ciò significa che «la politica è una questione di pancia e non di cervello.  Non a caso chi fa uso della post-truth, come Trump e i fautori della Brexit, finisce per essere protagonista della xenofobia e di una politica dell’odio contro gli stranieri e le minoranze. Questa è una politica delle emozioni». Non c’è spazio per gli approcci razionali.
In paesi dove i mezzi d’informazione sono molto sviluppati, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, il diffondersi delle post-verità dimostra soprattutto l’insofferenza dell’elettorato nei confronti delle élite.
Non si vota per la Brexit o per Trump perché dicono la verità, ma perché incarnano, a torto o a ragione, un rifiuto del “sistema”. E i social network, grazie all’ambivalenza della tecnologia che fa gli interessi di chi la sa usare meglio, sono il campo di battaglia preferito di chi si crede poco rappresentato dai mezzi d’informazione tradizionali.
Dobbiamo accettare «che gli esperti non siano sempre imparziali, e che possano sbagliare. Ma accettare la loro fallibilità non significa rifiutare il concetto della verità. La politica non è una zona totalmente scientifica. È il luogo dove mettiamo da una parte i nostri valori, le nostre emozioni, anche i nostri pregiudizi, e dall’altra la sapienza, cercando un compromesso. Il rifiuto della ricerca della sapienza è qualcosa di totalmente diverso».

Le cause del successo della post-verità? «Stanno in un mondo globalizzato sempre più fuori controllo: nel 2008 abbiamo assistito al tradimento della “gente normale” da parte dell’élite bancaria. In questa confusione, molti trovano rassicurante un messaggio semplice, emozionale, che indica bersagli facili tra gli stranieri, i migranti e i profughi». E’ Il trionfo del trumpismo?
Possibile. Ma quel che è certo è che la post-verità è incompatibile con la democrazia. Se lasceremo che si radichi e si diffonda in maniera duratura, ne pagheremo tutti il prezzo.

27-9-2016
e David Allegranti www.ilfoglio.it e www.vanityfair.it

approfondimenti:

Nel Paese delle bufale



Il terremoto, i complotti e le bufale nel Paese che rifiuta la ragione

Una senatrice 5 Stelle accusa il governo di truccare la magnitudo. Un consigliere regionale se la prende con i petrolieri. Un noto giornalista attacca il Papa. Così il disastro di Norcia, per fortuna senza vittime, fa riemergere troppi pregiudizi antiscientifici

di Mauro Munafò  - L’Espresso

"Guarda io sono ignorante di queste cose. Ma l'hai sentita questa storia che hanno abbassato (sic.) il terremoto per non pagare i danni?".
Nel bar di un quartiere della zona sud di Roma sono passate poche ore dalla scossa che ha devastato Norcia, Castelluccio, Preci e molti altri paesi tra Marche e Umbria e svegliato l'intera Capitale nella paura.
Il ragazzo alla cassa parla con i clienti della domenica con quella familiarità e confidenza che gli eventi come questo alimentano tra le persone. "Hanno abbassato il terremoto sì. Prima era sopra i 7 e ora è 6 e mezzo, così l'assicurazione non deve pagare".
Si riferisce alla magnitudo del sisma, in un primo momento indicata dal rilevamento di un istituto statunitense con un valore di 7.1 e poi ricalcolata dall'Ingv fino al valore definitivo di 6.5. Tanti avventori annuiscono sconsolati, commentano indignati contro politici e governo. Solo uno replica che si tratta di una storia falsa, che spunta fuori dopo ogni sisma. Nessuna delle persone che ascolta sembra convinta. Di più, si percepisce un certo fastidio per questa smentita.
La bufala del governo che modifica i dati sui terremoti per non affrontare le spese della ricostruzione parte da un decreto del 2012 mai diventato legge. Negli ultimi anni è stata confutata decine di volte in rete, in tv, sui giornali, in radio. Ma niente da fare: quando la terra trema, torna fuori. Questa volta a rimetterla in giro ha contribuito una testimonial d'eccezione: la senatrice del Movimento 5 Stelle Enza Blundo. Sul suo profilo Facebook l'onorevole ha scritto quanto segue: "Il Tg1 apre dichiarando una scossa di 7.1 e poi la declassa a 6.1! Ancora menzogne per interessi economici del governo. Anche il terremoto dell'Aquila fu "addomesticato" a 5.8. Il tutto per non risarcire i danneggiati al 100 per cento". Poi ha corretto il tiro, prendendosela con una misteriosa "finzione mediatica" e infine ha chiesto scusa.
Ci si sposta più a sud, in Puglia, per trovare le parole di Mario Conca, consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, che attraverso Facebook chiede a chi lo segue cosa ne pensa della teoria che gli avrebbe esposto un conoscente ottantenne secondo cui il sisma sarebbe colpa "delle trivellazioni, del fracking e dell'airgun nel Mediterraneo che stanno indebolendo la massa che blocca la faglia accelerando l'avvicinamento dell'Italia all'ex Jugoslavia provocando forti terremoti", e conclude " le sacche vuote di gas e petrolio alimentano questo processo, i petrolieri vanno fermati!". Ancora una volta teorie smentite decine di volte, contrabbandate sui social network da persone che rivestono incarichi istituzionali e incapaci di trattenersi da esternazioni tanto discutibili.
Dalla pseudoscienza al misticismo il passo è breve. Si arriva così al giornalista tv Antonio Socci che se la prende con papa Francesco che mentre "il terremoto devasta la terra di San Benedetto cuore dell'Europa Cristiana rende omaggio a Lutero che ha distrutto la cristianità", mentre a giudizio del giornalista, "dovrebbe consacrare l'Italia mettendola sotto il patrocinio della Madonna".
Nella pagina Facebook di Socci, che per scelta della Rai è anche direttore della scuola di giornalismo RadioTelevisivo di Perugia, decine di utenti si lanciano così alla ricerca di segni divini che mettano in collegamento il sisma con le mosse di Bergoglio. Ragionamenti che ricordano le recenti affermazioni del viceministro israeliano Ayoub Kara secondo cui il sisma era una punizione per la posizione dell'Italia sulla votazione Unesco.
Il pensiero antiscientifico nelle sue diverse forme non è quindi confinato in una nicchia, ma è anzi legittimato da esponenti istituzionali, intellettuali e vip che contribuiscono a diffonderlo. E trova terreno fertile in una popolazione arrabbiata e sfiduciata da anni di crisi, con scarsi anticorpi culturali. Secondo l'ultimo rapporto Piaac dell'Ocse , gli italiani tra i 16 e i 65 anni si collocano all'ultimo posto su 24 paesi occidentali quando si parla di "competenze alfabetiche", la capacità cioè di "comprendere, valutare, usare ed essere impegnati nella lettura di testi scritti al fine di partecipare alla vita sociale e sviluppare conoscenza". E quanto possa essere dannoso lo si scopre ogni volta che la terra trema.

domenica 3 luglio 2016

“Solo un’alleanza liberale potrà salvare quest’occidente”

Il disfattismo imperante in Europa, il welfare non più sostenibile, la minaccia autoritaria. Intervista a Stephen Davies, dell’Institute of Economic Affairs di Londra.
22 Giugno 2016 - Il Foglio
 
“La mia teoria è che al momento la maggior parte dei paesi occidentali sta attraversando un riallineamento dei valori e che la divisione politica sarà sempre più tra autoritari e liberali coerenti”, dice al Foglio Stephen Davies, storico del pensiero politico per più di trent’anni alla Manchester Metropolitan University, dal 2010 direttore del dipartimento istruzione dell’Institute of Economic Affairs. Da diverso tempo, Davies sostiene una teoria originale, che gli eventi a cui stiamo assistendo in occidente stanno dimostrando via via più profetica: la teoria del riallineamento politico. “La mia teoria – dice – parte da due domande fondamentali per capire la posizione ideologico-politica di una persona: sei generalmente a favore dell’intervento statale in economia? E poi: credi che lo stato dovrebbe promuovere un certo stile di vita (sessuale, familiare, culturale) piuttosto che altri? Negli ultimi quarant’anni, in Europa e nei paesi industrializzati, la principale divisione in politica è stata tra due parti: da un lato chi difendeva il libero mercato e allo stesso tempo era conservatore sui temi sociali, quindi ad esempio i governi della Thatcher qui nel Regno Unito, dall’altro chi invece era culturalmente liberale ma interventista in economia, i laburisti inglesi come la maggior parte della sinistra occidentale. Ma c’erano anche altri due gruppi, del tutto minoritari, che a lungo sono stati lasciati fuori dalla porta: i così detti libertarians, o liberali coerenti, cioè chi difendeva la libertà dell’individuo dall’azione dello stato sia nella sfera culturale che in quella economica, e all’opposto chi chiedeva l’intervento statale in entrambe, gli authoritarians”.
La questione fondamentale, aggiunge il nostro interlocutore, “non sarà più quella economica, un tempo capace di prevalere sulle visioni socio-culturali delle parti, ma ruoterà attorno all’identità personale e alla nuova domanda fondamentale della politica: ti piace questa società globale? Ti piace il movimento rapido di persone e capitali che ne deriva? Sei disposto ad accettare la fluidità dell’identità e la costante messa in questione dei costumi e delle tradizioni che ne consegue? Ti piace tutto questo o ti senti minacciato da ciò che rappresenta? Questa sarà (o lo è già) la nuova divisione politica della nostra èra”. Non ha dubbi, Davies, su come tale processo sia iniziato: “Con la crisi del comunismo, soprattutto. Ben prima del 1989 si aveva la crescente percezione che l’alternativa socialista e la possibilità di costruire una nuova società diversa da quella capitalistica, come i cigolanti esempi in Unione Sovietica, in Cina o a Cuba stavano dimostrando, non aveva possibilità di realizzazione. Tra gli anni 70 e 80 del 900, quindi, si è cominciato ad assistere ad un allineamento diverso dei valori politici: la sinistra ha cominciato a diventare più liberale in economia e la destra ha iniziato a lasciar la presa sulla morale tradizionale. Il risultato è che entrambi i poli, per la fine degli anni 90, stavano convergendo ampiamente verso il quadrante del liberalismo coerente”. Negli anni duemila, poi, erano del tutto simili, quando non uguali: “I poli mainstream della politica erano entrambi tendenzialmente liberali coerenti e questo ha lasciato fuori dalla porta gli autoritari, o statalisti, a destra come a sinistra, che ora si stanno aggregando in un nuovo polo politico”.
Anche qui gli esempi non mancano: “Il Front National incarna perfettamente il tipo di collettivismo di destra a cui mi riferisco. Da dove pensi che arrivi metà del suo elettorato? Dal partito comunista francese. Sopratutto da quando Le Pen figlia è leader, il partito ha promosso misure economiche interventiste, protezioniste e nazionaliste, istigando il sentimento no-global, no-mercato e no-migrazioni. Il tutto tenuto assieme dal mastice del conservatorismo tradizionalista: no ai matrimoni gay, sì al welfare state (solo per i francesi, sia chiaro). Sta succedendo in tutta Europa: in Polonia col PiS, in Svezia con i Democratici Svedesi, in Germania con Afd. Persino negli Stati Uniti, dove Trump si esprime a favore di Medicare, Medicaid e previdenza sociale mentre promette di costruire muri ai confini e invoca l’isolazionismo in politica estera. In Italia avete la Lega Nord e il Movimento 5 stelle”.
Anche per questo mai come ora vi è la necessità di stabilire un’alleanza anti-disfattismo, magari una versione rinnovata del Patto del Nazareno? Sì, dice Davies: “E’ l’approccio giusto. Al momento la destra nazional-populista (che secondo me è la peggiore delle aggregazioni politiche, perchè sbaglia sia sull’economia che sui temi sociali) si trova in una congiuntura storica a lei favorevole. In Polonia e Ungheria è già al governo. In Austria non ha eletto il presidente per un soffio e l’anno prossimo alle presidenziali francesi è quasi sicuro che Marine Le Pen arriverà al ballottaggio al secondo turno, probabilmente contro i gaullisti. Il problema è che l’opposizione a questo blocco autoritario è divisa tra liberali coerenti e liberali sociali, che non mollano la presa sull’interventismo economico. Dovranno invece cooperare, altrimenti vedremo paesi come l’Italia, la Svezia o il Regno Unito diventare come l’Ungheria o la Polonia”. Tornando alla teoria del riallineamento, lo storico spiega che essi si sono sviluppati “col nascere della politica moderna, quella ideologica: alla fine del 1700. Prima di questa data la politica riguardava soltanto le èlites aristocratiche, era tutta una questione dinastica. Assomigliava a Game of Thrones se vuoi.
Poi le grandi rivoluzioni, l’illuminismo e, prima di tutto in Francia, sono apparsi i tre poli della politica contemporanea: quello egualitario, quello libertario e quello scettico-tradizionalista. Inizialmente il polo egualitario e quello libertario, quindi socialisti e liberali, erano alleati contro i conservatori del terzo polo, difensori dell’Ancién Régime come Pio IX e Louis de Bonald, tutto trono e altare. Quando poi le monarchie assolute e teocratiche hanno palesato l’impossibilità di tornare in auge, le ragioni dell’alleanza tra liberali e socialisti sono venute meno, mentre assumeva sempre più importanza la questione economica su cui ovviamente divergevano. Ecco che allora tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo si ha una prima spaccatura dello spettro politico: da un lato i liberali radicali e i socialisti, dall’altro i liberali moderati e i conservatori. Quindi alla fine della Seconda guerra mondiale ovunque, in Europa, entrambi gli schieramenti erano culturalmente illiberali ma divisi sull’economia. Negli anni 60 e 70, con le proteste studentesche e le rivoluzioni di costume, la sinistra è diventata più culturalmente liberale rimanendo interventista in economia, la destra si è invece radicata a difesa del mercato e dei valori tradizionali”.
Inevitabile tornare al punto di partenza, dal momento che “ogni trenta-quarant’anni, in pratica, si assiste ad un riallineamento delle posizioni politiche, ovviamente con differenze di tempo a volte notevoli tra paese e paese. Il riallineamento è minore se implica l’avvicinarsi su determinate posizioni dei due poli principali, come quello avvenuto alla fine del 900.  E’ maggiore se invece implica una polarizzazione radicale e uno stravolgimento della tematica attorno a cui ruota il dibattito. In questo caso l’avvio del meccanismo è l’accettazione, più o meno da parte di tutti, della questione nodale cui ruotava attorno lo scontro precedente,  da un lato, e il sorgere di una nuova issue riguardo alla quale tutti sono preoccupati e di cui si discute con maggiore interesse, dall’altro. Il nuovo tema genera nuovi dibattiti e il nuovo assetto di posizioni genera una nuova divisione tra le parti politiche. Quello a cui stiamo assistendo oggi è un riallineamento “maggiore”, il secondo nella storia dopo quello avvenuto alla fine dell’800”.
In ogni caso, il discorso sull’economia e la sua gestione non è affatto superato, anche se “è senz’altro divenuto secondario”, chiarisce Davies. “Le ragioni per cui un crescente numero di persone sta passando dalla parte del protezionismo, del nazionalismo economico e dell’anti-immigrazionismo sono principalmente ragioni non economiche: la gente sente che senza quel tipo di politiche l’identità alla quale è aggrappata verrà distrutta dal processo di globalizzazione e dall’innovazione tecnologica. E temo che il dibattito diventerà ancora più intenso: l’automazione farà sì che un’immensa quantità di lavori tradizionali semplicemente finirà con lo svanire, nei prossimi anni. Quindi, tutti i temi che oggi sembrano ancora legati alla questione dell’economia e della sua gestione, settore pubblico contro settore privato, sono in realtà legati al tema dell’identità nazionale e culturale che si sente sempre più minacciata”.
Inevitabile un riferimento all’appuntamento di domani, il referendum che deciderà sulla permanenz o meno del Regno Unito nell’Unione europea: “Quel che sta succedendo è che tutte le persone che sono al momento nello stesso partito e dalla stessa parte si ritrovano ad essere rivali e cominciano a stringere alleanze con quelli che in teoria sono a loro opposti. Il referendum sulla Brexit ha accellerato il processo di rimescolamento tra i partiti che qui nel Regno Unito stava procedendo più lentamente che nel resto d’Europa (dove il sistema proporzionale ha facilitato la nuova rappresentanza). Nel Partito Conservatore c’è una fazione dominante che è genericamente liberale sia sulle istanze economiche che su quelle social-culturali. Un’altra parte invece sta abbandonando il liberismo per il protezionismo, il cosmopolitismo per il nazionalismo, e ovviamente il controllo del movimento di persone e capitali che ne consegue, facendo da spalla allo Ukip. Lo stesso succede all’interno del Partito Laburista, dove c’è una metà di parlamentari New Labour e l’altra metà che col cambio di leadership [da Milliband a Corbyn, ndr] in economia ha ricominciato ad essere interventista, mentre rimane molto liberale dal punto di vista culturale. Un blocco enorme di elettori laburisti, però, (per lo più anziani, bianchi, working class) si sta aggregando al blocco di malcontento verso i conservatori liberali guidati da David Cameron, formando così la nuova destra nazionalista, anti-globalista ed economicamente interventista che sarà un’alleata d’oltre Manica per il Front National e le altre forze populiste”.
Arduo dire come voterà un liberale coerente, perché “dipende cosa credi che succederà dopo. Chi supporta il fronte del Remain è genericamente ascrivibile ai liberali coerenti. Il fronte del Leave è invece più variegato. Da un lato ci sono gli authoritarians che vedono nel referendum un’arma da usare nella battaglia nazionalista e protezionista che stanno portando avanti. Dall’altro quelli che credono che lasciando l’Europa il Regno Unito potrebbe trasformarsi in un paradiso liberista indipendente alla Hong Kong, sono i Nigel Farage e  i Douglas Carswell”. Quanto a Boris Johnson, “è semplicemente un opportunista. L’unica cosa in cui crede è il suo approdo prossimo a Downing Street. Diventare primo ministro soppiantando Cameron, ecco, in questo crede fermamente. Tornando al voto sulla Brexit: è difficile segmentare gli elettori, perchè molte persone che voteranno allo stesso modo lo faranno con intenzioni e speranze opposte”. Il problema del blocco liberale è che “non riesce a decidersi sulla questione economica”, senza dimenticare che di questione ce n’è un’altra, ed è quella ambientale.
“La green issue è una delle ragioni per cui il fronte liberale non è ancora riuscito a compattarsi. Ci sono i verdi radicali dal cui punto di vista l’argomento è irrilevante, perchè per loro la civiltà industriale è condannata e dunque discutere di soluzioni è come spostare sedie sul Titanic. Però ci sono anche i verdi più moderati, che sono il vero ostacolo perchè in nome dell’ambiente supportano politiche spesso preotezioniste, che i liberisti non sono disposti ad accettare. Nei prossimi anni, però, la minaccia autoritaria li costringerà al compromesso, a meno che la destra collettivista non inizi a promuovere politiche verdi per sottrarre elettori ai liberali, cosa che il Front National sta già iniziando a fare. Marine Le Pen è una politica molto astuta e sa che le istanze ambientaliste sono molto facilmente coniugabili a quelle no global”.
E quali sono le soluzioni, le risposte dei liberali coerenti ai grandi problemi della contemporaneità, dall’identità all’immigrazione, fino all’ambiente? “Per l’ambiente – dice Davies – ci sono diverse soluzioni che possono venire dal settore privato, come quelle concernenti l’uso dei diritti di proprietà intellettuale e quelle di decentralizzazione studiate da Ellinor Ostrom [Premio Nobel per l’economia nel 2009, ndr] e dai suoi studenti. Per altre questioni ci dovremo rassegnare all’idea di non poterle risolvere perchè per fare ciò, anche volendo agire tramite lo stato, si dovrebbe costituire prima un governo mondiale, il che è A) impossibile e B) altamente indesiderabile per infinite e più ragioni. Potrebbe essere il caso del riscaldamento globale, ma può essere anche che lo sviluppo tecnologico ci aiuti molto in questo senso. Ad esempio è noto che molti problemi ambientali derivino dall’agricoltura che distrugge certi habitat. Credo che molta della carne che mangeremo in futuro, tra poco più di vent’anni, sarà sviluppata in vitro, anzichè provenire direttamente dagli animali. Per quanto riguarda l’immigrazione rimango fermamente della mia idea pro-libere frontiere. La posizione del liberale coerente è di dire alla gente che dovrebbe credere di più nella capacità di sopravvivenza della loro cultura: se è robusta e radicata a sufficienza sarà in grado di assimilare anche un ingente numero di nuovi e diversi arrivi. Sarà difficile e faticoso, ma credo che alla fine le persone, gli individui, saranno in grado di affrontare la questione cooperando pacificamente”.
Va fatta una postilla riguardo al welfare, che “a prescindere dall’immigrazione è semplicemente insostenibile nella maggior parte dei paesi europei”. Per il futuro, Stephen Davies pensa a forme welfaristiche private. Dopotutto, dice, “è questione di matematica: se si guarda alla quantità di denaro che i governi hanno promesso di dare in benefit e pensioni alla popolazione che sta invecchiando si scopre che quei benefit e quelle pensioni semplicemente non verranno pagate. A meno che le economie europee non si mettano a crescere del 7-8 per cento, cosa che non è mai successa prima quindi non vedo perchè dovrebbe accadere ora. Questo provocherà rotture sociali e proteste, come sta avvenendo in Francia [per la riforma del lavoro di Macron, una sorta di jobs act alla francese, ndr] ma alla fine la realtà prevarrà e ci si renderà conto di dover accettare il cambio di rotta.
Rimane infine, la questione forse più importante, quella dell’identità. E’ il relativismo globalista l’unica via? “Se sei un libertarian non sei un relativista: credi fermamente che certi valori e certi stili di vita siano superiori ad altri. Il modo migliore per rispondere alle persone che non condividono i tuoi stessi valori è l’uso della persuasione, dell’interazione sociale, del commercio, e allo stesso tempo spingere per promuovere quegli stessi valori che reputi superiori agli altri: la libertà individuale, l’indipendenza e la libera scelta personale. Sono abbastanza certo del potere di una società capitalistica libera di minare alla base e finalmente di distruggere il collettivismo, la patriarchia e i fanatismi religiosi, e non, di cui abbiamo parlato”.