Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

venerdì 28 giugno 2019

Restare umani. E lucidi.


Gad Lerner: «Non si può utilizzare il linguaggio fascista e parlare di coincidenze»
Il giornalista torna in televisione con 'L’Approdo': un'occasione per parlare delle elezioni europee, di razzismo e dell’attuale Governo. La nostra intervista
Di Gaspare Baglio
3 giugno 2019
https://www.rollingstone.it/tv/interviste-tv/gad-lerner-non-si-puo-utilizzare-di-linguaggio-fascista-e-parlare-di-coincidenze/460979/


“Il mio compenso per L’Approdo è di 69 mila euro lordi, da cui vanno detratte le tasse. Con me lavorano ottime professionalità interne, niente appalti, e una sola coautrice esterna. Tranquillo, guadagnano molto di più i tuoi intrepidi cacciatori di Radical-Chic ogni sera in tv. Compresi quelli che spacciano cifre false sui costi della nostra produzione. Capito, Matteo Salvini? Ci vediamo lunedì alle 23:10 su Rai3”. Questo il post apparso il 1° giugno sulla pagina Facebook di Gad Lerner. Un post che il giornalista ha dovuto fare dopo che, sullo stesso social network, il vice-Premier e Ministro degli Interni aveva ha fatto una diretta durante la quale ha detto: «Da settimana prossima torna in video un volto molto noto, che in Rai c’è già stato da tempo: Gad Lerner. Sì, avete capito bene, cinque belle trasmissioni di Gad Lerner. Che ovviamente non ha mai espresso simpatia politica per nessuno, non è di sinistra per niente, non odia la Lega, assolutamente no. Giornalista obiettivo, equilibrato, super partes, che avrà cinque trasmissioni in Rai. Se la Rai del cambiamento passa dal ritorno in video di Gad Lerner – non che abbia niente contro di lui eh – però Fazio, e Saviano, e Gad Lerner, manca Michele Santoro e poi abbiamo chiuso il cerchio. E poi dicono che siamo noi a controllare. Ma che? Per carità, io sorriderò eh. La prima puntata pare che sia sulla Lega. Che novità, che novità, ragazzi». Da qui è partito un affaire di botta e risposta che si è esteso a diversi esponenti della politica e del giornalismo. C’è addirittura chi ha richiamato in causa l’editto bulgaro made in Berlusconi. Visto che stasera è la famosa serata del ritorno di Lerner, in seconda serata, su Rai3, ci siamo fatti una bella chiacchierata con il giornalista di Milano, Italia.

L’Approdo è un titolo che, oltre a segnare il suo ritorno in studio, fa subito pensare al dramma dei migranti. Un titolo che pare nasconda una critica, ma anche una speranza. Tra l’altro in studio c’è proprio il relitto di un barcone della speranza che parte dalle coste africane.
Nasconde anche una nostalgia perché L’Approdo fu la più importante e autorevole trasmissione culturale della Rai, quando c’era la televisione in bianco e nero. E c’era un canale unico. Si chiamava L’Approdo lo sforzo di questi grandi intellettuali italiani di valorizzare il nostro patrimonio artistico e letterario, anche attraverso lo strumento televisivo.

E per lei, invece, cosa rappresenta?
Un richiamo a una televisione che cambi tono nell’approccio al suo pubblico e non insista nel credere che, per parlare alla gente, si debba usare il turpiloquio o argomentazioni grossolane: per approfondire i problemi non occorre scimmiottare le risse e i battibecchi – sempre uguali – dei talk show attuali. È un modello, una nostalgia che volevo esprimere. Per capire come sia possibile l’approdo nell’Italia di oggi.

Come si svolge il programma?
Ci sarà un luogo d’approdo in ognuna delle cinque puntate, sarà l’esordio della trasmissione. Un luogo attraverso il quale vogliamo raccontare un problema italiano. Ad esempio, nella prima puntata, cominceremo dal grande prato di Pontida, dove la Lega ha tenuto 32 raduni. Oggi lo vedremo abbandonato, con l’erba alta, non tagliata, perché la Lega si è spostata in Piazza del Popolo a Roma.

Altri approdi?
Capalbio, raccontata come la capitale dei comunisti e dei radical chic. Qui affronteremo polemiche e atti d’accusa per quei settori di borghesia italiana che non hanno sposato la politica di chiusura, appunto, degli approdi e dei porti. E ancora la tomba di Dante Alighieri a Ravenna come luogo simbolo di una piaga, che tutti gli studiosi denunciano: l’analfabetismo di ritorno. La ripresa in Italia di processi di descolarizzazione e involuzione e degenerazione del linguaggio pubblico. Alla Biennale di Venezia andremo a vedere il barcone recuperato dal fondo del mare dopo il peggior naufragio della storia del Mediterraneo, ci furono mille annegati. E lì è evidente il legame con le problematiche dei migranti. Si parte da un luogo, per andare dentro a un tema e, in studio, solo due ospiti. Mai di più.

Che ospiti saranno?
Persone che si stimano tra di loro, curiose di conoscere uno gli argomenti dell’altro. E quindi di lasciarsene anche spiazzare. Non è un braccio di ferro. Si confronteranno con dei miei viaggi, dei miei racconti che verranno proposti.

Come si sente dopo che il vice premier Salvini ha espresso un certo disappunto – paragonato da alcuni giornali addirittura all’editto bulgaro di berlusconiana memoria – per il suo ritorno su Rai3? Forse il disappunto è stato generato proprio per la puntata d’esordio legata alla Lega.
Si metta nei miei panni: io seguo la Lega dalla sua nascita. Non facevo ancora televisione, lavoravo al settimanale L’Espresso negli anni ’80 e seguivo questo movimento molto folkloristico, che usava parole irriverenti ma riscuoteva i primi successi. Poi in televisione le mie prime trasmissioni sono state Nella tana delle Lega, Profondo Nord, Milano, Italia. E vuole che adesso, che è primo partito, non ne parli? Voglio fare un bilancio di tutti questi anni. Si sono presi l’Italia, per usare un’espressione un po’ enfatica.

Ma come si sente?
Sono molto tranquillo. Tra l’altro useremo dei materiali di repertorio – anche molto divertenti – della Rai3 di Guglielmi. Li avevamo in casa, sarebbe stato un peccato non rivederli alla luce di questo grande cambiamento per cui la Lega ha plasmato il senso comune degli italiani e ha conseguito il 34% dei voti. Per cui Salvini – che io conosco da quando portava i pantaloni corti ed entrava nella Lega mentre io facevo quelle trasmissioni – credo abbia voluto, più che altro, fare una sceneggiata. Qualcuno dice addirittura che mi abbia voluto fare pubblicità. Questo mi sembra troppo a dirsi, ma non mi spaventa certo Salvini. Semmai mi hanno dato fastidio maldicenze molto fantasiose di cifre iperboliche sul costo del programma. E che percepirei io. Per questo ho preferito dichiarare i miei compensi alla luce del sole, in modo che ognuno possa trarre le sue conclusioni.

Da giornalista capace di analisi politiche molto puntuali, visti i risultati delle Europee, crede che questo Governo proseguirà come ha annunciato Salvini? O pensa invece, come credono alcune fazioni politiche e alcuni giornalisti, che il contratto giallo-verde sia sul viale del tramonto?
Non credo che a Salvini convenga fare cadere il Governo, nemmeno credo che lui desideri diventare oggi Primo Ministro. È già di fatto il padrone della situazione stando al Viminiale e, in questo momento, non sono sicuro che abbia voglia di doversi occupare in prima persona di una manovra economica. Però l’imprevisto è, davvero, sempre in agguato. E in questo momento si sta presentando con il braccio di ferro con l’Europa. Queste elezioni europee hanno dato a Salvini un grande successo personale e del suo partito, ma solo del suo. Gli altri partiti “fratelli” in Europa, non sono andati così bene. Quindi la sua speranza di costringere – a livello europeo – i popolari a svoltare a destra e allearsi con lui, sembra finita nel nulla. Sto guardando con molta preoccupazione all’eventualità di un ritorno al tavolo rovesciato, cioè al “Basta euro”, “Facciamo la manovra in deficit e se l’Europa ce le boccia, chi se ne importa”. Tutto questo spero non accada, ma Salvini è un giocatore che ama il rischio e, in passato, ha tratto vantaggi dall’aver osato di più. Quindi non può essere escluso.

Il Movimento 5 Stelle e il PD come si pongono in questa dinamica?
I 5 Stelle sono travolti da questa sua iniziativa, mi pare non abbiano molte scelte davanti. In quanto al PD lo attende un lungo periodo d’opposizione. Non credo possa rientrare presto nei giochi di Governo.

I 5 Stelle sono finiti secondo lei?
Sono durati già di più di altri movimenti simili del passato. Penso al Fronte dell’Uomo Qualunque, che ebbe una grande successo, ma fu una fiammata che si esaurì in due o tre anni. I 5S sono invece, stabilmente, una forza notevole da una decina d’anni. Non penso possano sparire tutto d’un colpo, ma allo stesso tempo sono convinto che verranno trascinati dalla Lega e molto lacerati. Mi metto nei panni dei loro ministri: lasciare il Governo sarebbe come dichiarare che – nonostante abbiano preso il 32% dei voti alle elezioni politiche e abbiano i gruppi parlamentari più numerosi di tutti – non sono in grado di governare il Paese. Non credo lo faranno, poi può darsi che domani mi smentiscano eh.

A suo avviso, dopo il ventennio Berlusconi, ci dobbiamo aspettare un ventennio Salvini?
Il ventennio di Berlusconi non è stato un vero e proprio ventennio, a differenza di quello di Mussolini che ebbe venti anni di Governo, regime e dittatura. Berlusconi ha avuto crisi e periodi in cui la sua controparte di centro-sinistra era riuscita a metterlo in minoranza. Salvini, un ventennio? Nulla in Italia è impossibile. Due anni fa, se le avessero detto che Salvini avrebbe preso più voti di Berlusconi, nel centro-destra, probabilmente non ci avrebbe creduto. Tutto avviene nella massima rapidità. Io Salvini lo prendo molto sul serio, nel senso che credo abbia una notevolissima capacità di occupare gli spazi del dibattito pubblico, ma credo che in Italia ci fosse un vuoto di potere, una crisi delle istituzioni, per cui da tempo ci stavamo dicendo: «Qui se spunta fuori un uomo davvero forte…», magari andavamo a guardare uno con la divisa, un generale, un grande industriale. E invece abbiamo visto spuntare una camicia verde che, semplicemente, ha cambiato divisa: si è tolto la camicia verde e si è messo il giubbotto della polizia. Non escludo che possa durare.

Sempre alla luce delle ultime elezioni europee, come vede il vento che soffia sempre più a destra andando a toccare, in alcuni casi, le frange più estremiste?
Sono spaventato dalla disinvoltura con cui abbiamo accettato la violenza verbale. È passata molto attraverso i social network per arrivare al palcoscenico televisivo. A lungo lo abbiamo considerato un fatto meramente folkloristico: «Ma sì, parlano così, minacciano, fanno battute grottesche, è uno scherzo, bisogna stare al gioco, è satira». Invece credo che, dalle parole, poi si passi ai fatti. Quella intolleranza verbale può dar luogo a minacce. Fino a che riguardano persone come me – che sono tutelate, privilegiate – danno fastidio, ma non impediscono una vita normale. Ci sono poi soggetti più deboli che subiscono veri e propri episodi di violenza.

Un esempio?
Penso alle famiglie assegnatarie di case popolari che si sono viste assediate, minacciate con i loro bambini – nonostante avessero diritto a quella casa – semplicemente perché erano di etnia rom. Questo è solo un esempio, ma ce ne sono altri.

Onestamente mi viene in mente anche quando a Prato quelli di Forza Nuova – durante una manifestazione per i cento anni dei Fasci italiani di combattimento in piazza San Sepolcro a Milano – le hanno urlato, mentre era di spalle, “Ebreo”. E lei si è girato e ha guardato in faccia il gruppetto affermando «Sì, sono ebreo!».
Per la verità già due o tre volte, avevano biascicato «ebreo, ebreo, tornatene in Palestina», ma avevo deciso di far finta di nulla: non volevo si pensasse che ero andato lì apposta per provocare un incidente, perché c’erano forze di polizia intorno. Mentre mi allontanavo, invece, qualcuno ha sentito il bisogno di gridarlo più forte. E allora non ho potuto far finta di niente, sono tornato indietro e ho risposto come lei sa.

Il fatto che le abbiano urlato “ebreo” quando era di spalle, mi pare un po’ da codardi. No?
C’è una tipica abitudine di questa gente di lanciare il sasso e ritirare la mano. Di rivendicare il linguaggio fascista e a volte – ahimè – anche nazista, per poi dire che è una coincidenza, che loro non volevano dire o fare quella cosa lì. È come quando un calciatore ha fatto il saluto romano in campo per poi dire che non era vero e stava solamente salutando i suoi amici sugli spalti. Non hanno neanche il coraggio di sostenere fino in fondo le loro idee.

A quanto pare ci sono molti giovani che appoggiano visioni estremiste. Le è mai venuto il pensiero che gli italiani stiano diventando poco democratici?
Può darsi che oggi si sia persa la consapevolezza di quale bene prezioso, e non scontato, sia la nostra libertà, il pluralismo. Può darsi che, in futuro, alcune persone che vivono in certe zone e si sentano minacciate, mettano la propria sicurezza oppure la tutela della propria identità, come valori più importanti che non le regole della democrazia. Tutto questo è possibile che avvenga. In questa direzione agisce anche una certa tendenza alla smemoratezza storica, all’ignorare, sottovalutare e non voler più guardare le lezioni che derivano dal passato. C’è un atteggiamento diffuso molto vittimistico: se le cose vanno male nel nostro Paese è colpa di poteri forti, minacciosi, che ci depredano. Sono addirittura i finanzieri – magari ebrei come George Soros – che organizzano le migrazioni dall’Africa per danneggiarci. Tutto questo l’abbiamo già vissuto e rattrista pensare che la storia non ci serva di lezione.

Molte delle persone che scrivono e difendono i razzismi sono davvero sgrammaticate.
Sì, è vero. È triste quello che lei dice, perché contiene senz’alto un elemento di verità. Quando classi sociali che, in sociologia, si definiscono subalterne – io per avere usato questo termine adoperato da tutti i sociologi, sono stato accusato di snobismo, di disprezzarli –, ma che possiamo sostituire con sfruttate, oppresse, precarie, rimangono senza prospettive di miglioramento, senza crescita di reddito e, quindi, di investimento sulla cultura, l’esito è vivere una condizione di isolamento, nella quale hanno trovato leader politici che li hanno incoraggiati a compiacersi della loro ignoranza. Casomai è il leader politico che adesso si mette a dire le parolacce o a parlare sgrammatico pensando di assomigliare al popolo, non rendendosi conto che sta denigrando il popolo che vorrebbe raffigurare.

Il diverso fa ancora paura?
Forse si pensa di poter scagliare, contro dei bersagli simbolici, la propria solitudine, la propria insoddisfazione, la propria infelicità. Credo che molti di coloro che apprezzano il linguaggio “cattivo” di Salvini, l’uso frequente della parola “pacchia” riferito agli emigrati – affermazioni secondo cui sui barconi si trovano personaggi belli, robusti, vaccinati, che fanno i furbi – c’è un compiacimento del fatto che qualcuno ha finalmente il coraggio di proferire le infamie, di dare questo scherno. Dà soddisfazione. Non si illudono di avere miglioramenti, tantomeno dalla politica. Sanno benissimo che le promesse elettorali resteranno sulla carta, ma almeno si vogliono togliere la soddisfazione con l’invettiva contro il vicino diverso.

Gad Lerner : L’ONORE DI DISOBBEDIRE –

26 giugno 2019 
Di fronte a sé, stavolta, Salvini si ritrova un osso duro: Carola Rackete
Vien da chiedersi: ma cosa penserà di Salvini la madre di Salvini? Quando, di fronte a quello che, comunque la si pensi, rimane un dramma umano, il suo Matteo scrive: «Non sbarca nessuno, mi sono rotto le palle. Lo sappia quella sbruffoncella». Esibendo l’ennesimo riferimento genitale viriloide in sfregio alla Capitana della Sea-Watch 3, Carola Rackete, lei sì disposta a rischiare per davvero, una giovane donna che lo ridimensiona a Capitano piccolo piccolo. Sbruffoncella? Non abbiamo piuttosto a che fare con un ministro sbruffone da osteria?
Come nei videogiochi con cui egli si diletta nel cuore della notte, il responsabile dell’ordine pubblico scimmiotta la parodia della difesa dei confini nazionali bloccando un’imbarcazione di 50 metri con 42 naufraghi a bordo. E poi minaccia di erigere barriere fisiche (galleggianti?) a imitazione dei suoi modelli Orbán e Trump, o al contrario (sarebbe già meglio) di smettere l’identificazione e la registrazione degli sbarcati, di modo che possano proseguire il loro viaggio in direzione Nord Europa, da dove, così facendo, non potrebbero più essere rispediti a forza in Italia. Riposto nel taschino il rosario d’ordinanza, Salvini chiede «rispetto ai preti» e sfotte l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, colpevole di aver offerto l’ospitalità ai 42 naufraghi; mandandogli a dire che usi le sue risorse per 42 poveri italiani perché tanto quelli lì non sbarcheranno neanche a Natale. Sì, viene da chiedersi, senza volerle mancare di rispetto, cosa pensi in cuor suo la madre di Salvini di questo figlio che si compiace nell’esibizione pubblica dello scherno e della cattiveria addosso a persone che soffrono. Convinto, il ministro della propaganda, sbagliando, che chi plaude sghignazzando alle sue bravate sui social, rappresenti il comune sentire della nazione. Fa male i suoi conti.
Anche ammettendo che i 9 milioni di voti leghisti — e sommateci pure quelli di Fratelli d’Italia e una quota dei berlusconiani — vivano come una liberazione l’indifferenza nei confronti di quei reduci dai campi di prigionia libici, ugualmente si tratta solo della minoranza arrabbiata di un Paese di 60 milioni di abitanti che resta assai migliore della raffigurazione che Salvini ne fornisce ogni sera dagli schermi televisivi. Dovrà fare i conti con un’Italia, certo, intimidita, ammutolita dall’accanimento con cui vengono liquidate le figure di riferimento che predicano l’umanitarismo e la solidarietà, un’Italia che vive con crescente disagio la spirale del turpiloquio e dell’ostentazione di cinismo.
La fandonia secondo cui coloro che praticano il salvataggio in mare sarebbero «complici dei trafficanti di esseri umani», è un veleno sparso da anni senza una sola prova a carico delle Ong. Complici dei trafficanti di esseri umani sono i politici di ogni colore che — a partire dalla legge Bossi-Fini con cui fu interdetta ogni forma di immigrazione legale — hanno concesso alle organizzazioni criminali il monopolio sulle rotte.
Complici dei trafficanti di esseri umani sono i governanti che hanno revocato il pattugliamento delle acque internazionali da parte della nostra Marina. Complici specialmente odiosi, quando fingono di averlo fatto per il bene dei migranti che muoiono sempre più numerosi di sete e di fame, anziché annegati, scaricati lungo le piste del Sahel e del Sahara, o schiavizzati nei campi di concentramento a custodia dei quali agiscono gli stessi trafficanti.
Di fronte a sé, stavolta, Salvini si ritrova un osso duro: Carola Rackete. Durerà fatica a millantare che la comandante della Sea-Watch 3 sia l’ingranaggio della finanza mondialista nemica del popolo italiano, o magari un’avventuriera bolscevica. La disobbedienza civile con cui la Capitana ha deciso di sfidare il Capitano piccolo piccolo e il suo Decreto Sicurezza bis che criminalizza il soccorso in mare, è la più classica forma di omaggio alla legalità sostanziale, fondata sul rispetto delle norme internazionali sancite dal diritto del mare.
Salvini finge di non saperlo, ma per settimane di fronte al porto tunisino di Zarzis è rimasto bloccato dalle autorità locali il rimorchiatore Maridive 61 con 75 migranti a bordo, prima che ne fosse autorizzato lo sbarco. Altro che Tunisia approdo sicuro. Davvero qualcuno crede che il problema dei migranti si risolverà rispedendoli in Africa?
Certo, è vero che il governo gialloverde ha gioco facile a ricordare le colpevoli inadempienze degli altri paesi dell’Ue, ma da quando le inadempienze altrui possono giustificare le nostre?
Carola Rackete è una cittadina europea che tenta coraggiosamente, a suo rischio e pericolo, di riscattare il disonore dei governanti dell’Unione. Di tutti noi. Lo ricordino i dirigenti del Pd che oggi si precipitano a Lampedusa, ma il cui ultimo governo inaugurò quell’opera di denigrazione delle Ong che ha prodotto i guasti da cui oggi muove la loro ripulsa morale. Ci sono valori inderogabili ai quali è dovuta venire a richiamarci, lì in mezzo al mare, una giovane donna capace di ascoltare la voce di chi soffre.
DI GAD LERNER
  

Carola Rackete non è un’eroina, siamo noi che facciamo schifo

In un Paese normale, quel che ha fatto la capitana di Sea Watch 3, sarebbe dovuto toccare allo Stato. Che il suo sia rubricato ad atto di disobbedienza è lo specchio di quel che siamo diventati. Un Paese di barbari e ignavi

29 giugno 2019
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/06/29/carola-rackete-sea-watch-arrestata-lampedusa-salvini/42710/

Carola Rackete non è un’eroina. In un mondo normale non c’è niente di eroico nel trarre in salvo 42 esseri umani. È qualcosa che dovrebbe fare lo Stato, o la società civile, adempiendo alle regole sul soccorso in mare, ai trattati sui rifugiati politici, alle dichiarazioni universali sui diritti dell’uomo su cui si fonda l’Europa moderna. Carola Rackete non ha fatto altro che adempiere a quelle leggi, a quell’idea di società, a quell’idea di Europa. Null’altro. Ha soccorso degli esseri umani che chiedevano aiuto. Li ha accompagnati in un porto sicuro. Si è consegnata alle forze dell’ordine, affinché le sue azioni fossero giudicate.
Perché ciò che è terrificante è che quello di Carola Rackete, nell’Italia del 2019 sia rubricato ad atto di disobbedienza. Che la gente inneggi alle manette per la capitana della Sea Watch 3, che voglia la gogna per una persona colpevole di averne salvate quarantadue, che chieda legalità e rispetto della legge - una legge piena di falle e contraddizioni, peraltro - nel Paese dell’illegalità diffusa, inneggiando a un ministro che si è trincerato dietro l’immunità per scampare a un processo per sequestro di persona, leader di un partito che deve restituire 49 milioni allo Stato.
E quel che non diciamo - perché ancora ce ne vergogniamo, ma non ci vorrà molto - è che lo facciamo perché quelle quarantadue persone sono nere e straniere. Come nere e straniere sono le persone escluse dal reddito di cittadinanza. Così come neri e stranieri erano i bambini cui si voleva togliere il diritto a mensa e scuolabus a Lodi. Così come neri e stranieri sono gli spauracchi - “le risorse”, “gli amici della Boldrini”, le “maledette” - che da anni sono agitati dall'attuale ministro dell’interno per dare corpo al terrore per il futuro dell’Italiano Medio, offrendogli un comodo capro espiatorio, un’apocalisse alle porte da sventare quasi fosse un videogioco - la sostituzione etnica -, un povero più povero di lui addosso al quale riversare tutte le sue frustrazioni e il suo odio represso.
Che donne e uomini di buona volontà trovino dentro di loro anche solo un centesimo del coraggio della Capitana per combattere la barbarie, è assolutamente necessario
Tutto il resto - perdonateci, oggi siamo velenosi - è una massa di ignavi. Di gente che sbraita contro il decreto sicurezza bis fino al 26 di maggio, giorno delle elezioni europee, e poi torna a governare come niente fosse con la Lega di Salvini. Di garanti della Costituzione che firmano come se niente fosse un decreto d’urgenza senza che vi fosse urgenza, che addita a scafisti chi salva vite umane, che si fonda sulle presupposizioni del ministro dell’interno per emettere condanne politiche. Di opposizioni che hanno paura persino della propria ombra, figuriamoci di apparire buonisti di fronte a un elettorato cattivista, talmente invisibile da svegliarsi solamente nel momento della massima esposizione mediatica, per godersi uno strapuntino di celebrità mentre stende materassi sul pontile della Sea Watch 3, in camicia bianca d’ordinanza. Poi, da domani, tutti a dire che comunque non possiamo accoglierli tutti, sia mai che i moderati scappino sotto la sottana del Capitano.
Che in un Paese del genere, una ragazza come Carola Rackete appaia come una specie di eroina è quasi fisiologico. Che contro di lei si concentri tutto il peggio cui ci siamo abituati negli ultimi vent’anni - il torpiloquio istituzionale, la gogna popolare, l’abuso di potere - è talmente ovvio che nemmeno ci facciamo più caso. Che questo non sia il fondo del barile, cominciamo sinceramente a temerlo. Che donne e uomini di buona volontà trovino dentro di loro anche solo un centesimo del coraggio della Capitana per combattere la barbarie, è assolutamente necessario.



Carola Rackete, ecco la querela contro Salvini: "Sequestrate i suoi account Facebook e Twitter"
Le 22 offese del ministro alla Capitana e la richiesta di chiudere le pagine ufficiali. "Sono mezzi di propagazione dell'odio". Diffamazione e istigazione a delinquere i reati ipotizzati. Salvini: "Ridicolo"
di FABIO TONACCI - 11 luglio 2019



ROMA - L'aveva annunciato già nell'intervista esclusiva a Repubblica di alcuni giorni fa, ora è passata ai fatti. Carola Rackete presenterà oggi pomeriggio (al più tardi domani mattina) alla procura di Roma una querela contro il ministro dell'Interno per “diffamazione aggravata” e “istigazione a delinquere”. Non solo. Nella denuncia chiede ai magistrati di sequestrare i mezzi attraverso cui passa quello che lei definisce il “messaggio d'odio”: le pagine ufficiali su Facebook e Twitter di Matteo Salvini.
Nelle quattordici pagine della querela l'avvocato di Carola, Alessandro Gamberini, riporta 22 offese del ministro, contenute nei sui tweet, nelle dirette Facebook e in alcune interviste televisive. “Matteo Salvini – si legge nel documento - mi ha definito pubblicamente e ripetutamente sbrufoncella, fuorilegge, complice dei trafficanti, potenziale assassina, delinquente, criminale, pirata, una che ha provato a uccidere dei finanzieri e ad ammazzare cinque militari italiani, che ha attentato alla vita di militari in servizio, che ha deliberatamente rischiato di uccidere cinque ragazzi e che occupa il suo tempo a infrangere le leggi italiane e fa politica sulla pelle dei disgraziati: la gravità della lesione al mio onore è in sé evidente”.
Pronta la replica di Salvini su Facebook. "La comunista tedesca, quella che ha speronato la motovedetta della Guardia di Finanza, ha chiesto alla Procura di chiudere le mie pagine Facebook e Twitter. Non c'è limite al ridicolo. Quindi posso usare solo Instagram???".
Così il ministro dell'Interno Matteo Salvini, commenta l'esposto della capitana della Sea-Watch.
La trentunenne tedesca ricorda ancora una volta che le sue azioni sono state motivate esclusivamente dalla necessità di tutelare la vita e l'incolumità fisica e psichica dei naufraghi a bordo. “La legittimità della mia condotta è stata riconosciuta allo stato dall'autorità giudiziaria (la gip di Agrigento Alessandra Vella, ndr) che l'ha valutata come adempimento di un dovere”. La Capitana Carola ricostruisce anche la “campagna diffamatoria” che da settimane il ministro conduce nei confronti della ong Sea-Watch. “Dice che si tratta di un'organizzazione illegale e fuorilegge, sostenendo che i suoi rappresentanti sarebbero complici di scafisti e trafficanti. Tali affermazioni sono lesive della mia reputazione e mettono a rischio la mia persona e la mia incolumità, in quanto dipendente e rappresentate della Sea-Watch”.
Sull'incolumità personale messa a rischio, come dimostrano centinaia di messaggi di offese e minacce apparsi su Internet (“contro di me si è generata una spirale massiva e diffusa di violenza”) si incardina la seconda parte della denuncia. “Non posso non aver paura di parole che provengono da chi esercita un ruolo pubblico così rilevante come quello di ministro, tra l'altro dell'Interno, che dovrebbe avere il ruolo, semmai, di tutelare anche la mia persona. Nelle parole di Matteo Salvini sono veicolati sentimenti viscerali di odio, denigrazione, delegittimazione e persino di vera e propria deumanizzazione”.
C'è anche la fotografia, pubblicata da Salvini, in cui il ministro è ritratto insieme a un gruppi di donne in divisa, e sotto la foto di Carola con la scritta “una criminale”. Per i legali di Carola, “è un'immagine che assume la connotazione di una segnalazione pubblica e rimanda ai manifesti dei ricercati, e quindi si tratta di un'istigazione pubblica a delinquere”. Nella denuncia sono trascritte le offese sessiste apparse in Rete e nei commenti ai post di Salvini, sugli account ufficiali. Motivo per cui la Capitana chiede il sequestro preventivo degli account ufficiali del ministro, sia quello su Facebook sia quello su Twitter: “La richiesta è legittimata dalla giurisprudenza della Corte Suprema – motiva l'avvocato Alessandro Gamberini - che autorizza il sequestro dei servizi di rete e delle pagine informatiche che non rientrano nella nozione di stampa e quindi non godono delle garanzie costituzionali in tema di sequestro di stampa”







Matteo Salvini se la prende con le Ong e lascia trafficanti e scafisti indisturbati

Meno di un migrante su dieci sbarca da navi delle associazioni senza scopo di lucro. Gli altri arrivano tutti sui barchini degli schiavisti. Ma di questi il ministro dell'Interno non si occupa

di Roberto Saviano - 
L'Espresso
http://espresso.repubblica.it/opinioni/l-antitaliano/2019/07/15/news/matteo-salvini-ong-trafficanti-1.336810

In casa del Capitano c’è nervosismo. Non ho, come è facile immaginare, rapporti diretti con quel mondo, per il quale sono solo un corpo da utilizzare per propaganda, ma immagino che essere frenati in corsa da una giovane donna tedesca, non deve essere stata per Salvini una bella esperienza.
Avranno preso molto male la vicenda Sea Watch 3 per un motivo che potrà sembrare banale: al primo grande fallimento si fa presto a mostrarsi prostrati, a dire «sono solo contro il mondo», «non mi hanno aiutato», «devo fare tutto io», ma al secondo e al terzo tracollo sarà chiaro che il fallimento è insito nel progetto stesso, senza che la responsabilità possa essere attribuita ad altri.
Ma i fallimenti di Salvini mi rallegrano poco e sapete perché? Perché con ogni probabilità non porteranno la consapevolezza che tutto è costruito su una serie di menzogne dette male ma con molta convinzione. Lasceranno, invece, la sensazione di qualcosa di incompiuto, come se dovesse esserci qualcosa di più feroce di Salvini da “augurarsi” per il futuro: Salvini ha fallito nel chiudere le frontiere, avanti il prossimo scellerato: che ci provi con maggiore tenacia.
Mentre scrivo si parla di schierare navi militari a difesa dei porti italiani, ma lo sapete che ci sono pescherecci italiani aggrediti in mare e non c’è nessuna nave militare a difendere chi per lavoro rischia la vita? Prima gli italiani, ma quali? Sono mesi che sento ripetere questa frase facile da memorizzare, senza che sia chiaro a quali italiani si riferisca. Ma immagino che l’auspicio, per chi ci crede, sia di essere incluso negli italiani che verranno prima. Per ora qualcuno ha vinto un selfie con il ministro, qualcun altro avrà vinto un pranzo o un caffè con lui, e credo che sia davvero il massimo che possa dare. A volte dà i numeri, ma nella maggior parte dei casi sono sbagliati, soprattutto quando parla di immigrazione.
E dare i numeri - ma non come fa Salvini - intendo darli davvero, numeri reali, è l’unico modo non solo per smontare la propaganda del Ministro della Mala Vita, ma anche per fargli qualche domanda che, ovviamente, resterà senza risposta. Alessandra Ziniti, martedì 9 luglio, ha scritto per Repubblica un articolo che dovete assolutamente recuperare e leggere .
Cosa dice? Che meno di un migrante su 10 arriva in Italia su imbarcazioni delle Ong; che i migranti salvati dalle Ong sono monitorati, mentre quelli che arrivano su barchini e pescherecci fantasma non lo sono, e chi gestisce quella tratta e quei traffici sa che su di loro nessuno sarà, su ordine del ministro nemico delle Ong, tanto scrupoloso nel controllare, bloccare e contrastare. Anzi, alcuni sfuggono in mare e poi a terra, e se ne perde traccia. Le procure interessate dicono che da lì arrivano i soggetti potenzialmente pericolosi, eppure le Ong sono la priorità del Ministro della Mala Vita.
Arrivare dalla Libia costa 1.000 euro per ogni migrante che decida di tentare la traversata, di contro i viaggi organizzati da scafisti russi e ucraini dalla Turchia e dalla Grecia constano più di 5.000 euro a persona per un totale di 400 mila euro a viaggio.
Ci dica Salvini: perché non si concentra su questi arrivi, su questi trafficanti, su questi scafisti? Perché prendersela con le Ong? Se la prende con chi non ha alcun legame con trafficanti e scafisti, ma lascia che trafficanti e scafisti “lavorino” indisturbati. Rischiano di venire alla mente quelle strane situazioni in cui ci si fa paladini di una causa solamente per fornire uno specchietto per le allodole. E certo è che se si concentrano tante energie su chi ha portato in Italia (dopo aver salvato in mare) un decimo dei migranti arrivati negli ultimi sei mesi, e si ignorano i responsabili dei restanti nove decimi è evidente che come cittadini abbiamo il diritto di conoscerne le ragioni.
Un amico mi ha fatto molto ridere quando mi ha detto: «Ma a te Salvini non ricorda quei bulli da spiaggia che pur di stare al centro dell’attenzione sono anche disposti a coprirsi di ridicolo?». Ci ho pensato e in effetti… parlando di scorte, Salvini ha dato un numero. Un numero ben preciso di dispositivi che verranno tolti nel prossimo anno.
Un numero che immaginavo avesse cancellato dalla propria esistenza tanto da passare, tra qualche anno, direttamente a festeggiare i 50 anni, dopo averne compiuti 48. Ma mi sbagliavo, ah se mi sbagliavo! Perché, signori, qui tutto è comunicazione: avanti, dunque, perculate pure, l’importante è che io sia sempre in trend topic. E quindi, ora sappiamo che Salvini, in un anno, taglierà 49 scorte. Quarantanove: stabbene!

Vince il governo degli utili idioti. Intervista a Rino Formica da L’Espresso

31 Luglio 2019 

http://www.agenziaradicale.com/index.php/rubriche/rimandi/5897-vince-il-governo-degli-utili-idioti-intervista-a-rino-formica-da-l-espresso

Colloquio con Rino Formica
di Carmine Fotia 
(da L’Espresso n. 31 del 27 luglio 2019)

Da Salvatore Formica, detto Rino, barese, dottore commercialista, 92 anni portati con implacabile intelligenza, una giovanile militanza trotskista  che gli ha lasciato una propensione  al  pensiero "dissacrante", una vita da socialista autonomista. Compagno e amico di Bettino Craxi, protagonista dei governi degli anni ’80, e di memorabili liti (“commercialista di Bari”, lo definì con sprezzo il ministro democristiano Nino Andreatta che venne a sua volta definito “una comare come cancelliere dello scacchiere”), autore di battute sulfuree divenute celebri (“la politica è sangue e merda” è un must) - non aspettatevi risposte schiacciate sul presente, o rinchiuse in ambiti ristretti anche se gli chiedete un commento su fatti di scottante attualità. Formica ama sempre partire da lontano, convinto che una politica che non sia consapevole del contesto geopolitico che la sovrasta diventi, per parafrasare la sua definizione di una pletorica assemblea socialista negli anni ’80, affare da «nani e ballerine». 
Così è dal contesto globale che parte quando gli chiedo lumi sul rubligate che coinvolge Matteo Salvini.
“Nell'equilibrio fondato sul dominio bipolare Usa-Urss, afferma Formica, con quell'arrotamento di erre che è un  marchio di fabbrica del suo complesso eloquio - il binomio guerra fredda/terrorismo caldo veniva utilizzato per mantenere l'ordine uscito da Yalta. Le grandi potenze oggi, Usa. Russia, Cina, in conflitto tra di loro, non hanno più interesse a quell'ordine e oggi il binomio è diventato terrorismo freddo guerra calda”.
Cos’è il terrorismo freddo? 
“È un terrorismo fatto di servizi segreti e tecnologie al fine di compromettere governanti e classi dirigenti utilizzabili per ostacolare e destabilizzare l'unico soggetto in grado di contrastare i loro piani, cioè l'Europa. E non vedo proprio come ci si possa meravigliare del fatto che chi, come Putin, si è formato nel Kgb utilizzi i servizi non per sviluppare alleanze politiche con altre forze. ma per usarle ai suoi fini. In Italia parliamo di pezzi dell'ex-Pci, di pezzi di Lega, di pezzi di M5S, di settori economici. Soltanto un provinciale come Matteo Salvini poteva pensare di stabilire un'alleanza tra il piccolo sovranismo italiano e il supersovranismo, ovvero l'imperialismo russo. Altro che sovranisti! Sono semmai dei "provincialisti" cui mancano strumenti culturali e di analisi.  Hanno rotto con la memoria storica della prima Repubblica per paura di contaminarsi, ma sono soltanto dei mediocri autodidatti che non hanno neppure avuto buoni libri di testo”.
E quindi Salvini è stato catturato in una vicenda troppo più grande di lui?
“L'elemento scatenante, sia per Trump che per Putin, è Il risultato delle elezioni europee. Hanno avvertito che nel Parlamento europeo è avvenuto qualcosa di nuovo, testimoniato dall'elezione della nuova presidente Ursula Von Der Leyen, che non è la semplice proiezione dell'asse franco tedesco. perché ha coinvolto anche aree populiste che hanno compreso che anche a loro serve un'Europa più politica, più coesa, più unita per far fronte alle grandi superpotenze. Né Trump né Putin possono mettersi contro questa nuova concretezza europea e chi si è offerto loro come strumento farà la fine dell'agnello sacrificale. È capitato agli ucraini filo-russi la cui testa è stata offerta da Putin che ha aperto al dialogo. Dinnanzi al fatto concreto che d’ora in poi la destabilizzazione sarà contrastata dall'Europa. Putin e Trump sono pronti a sacrificare le teste di Salvini e Di Maio”.
Da dove viene questa sorta di riduzione dell’Italia a marionetta manovrata da altri?
“Dalla fine degli anni ‘90 c'è un vuoto di costruzione politica che ha avuto effetti a tutti i livelli. ma soprattutto nella definizione della gerarchia degli interessi. Le generazioni politiche che sono maturate in questo trentennio e che oggi sono potenzialmente o di fatto, classe dirigente sono portate a considerare Il periodo della prima Repubblica come un periodo da rimuovere dimenticando che un paese senza una storia democratica di massa ha dovuto sostituire la partecipazione popolare per via autoritaria con quella democratica. Nel '43 '45 c'è una frattura: da Stato monarchico (che era diventato Stato fascista) a Repubblica democratica. I tre partiti democratici di massa: Dc, Psi, Pci che assumono la guida del passaggio erano, ciascuno a suo modo antistatali: socialisti e comunisti perché erano per il rovesciamento dello Stato e dell'ordine sociale, i cattolici per la storica estraneità allo Stato unitario”.
Non avendo radicamento nello stato liberale devono costruire una loro narrazione, si direbbe oggi?
”Uscivamo da uno Stato centralista, fascista e autoritario, le masse popolari non avevano esperienza di evoluzione. E così nasce il mito unitario: l'unità Antifascista, l'unità costituzionale. L’unità della sinistra. l'unità dei cattolici. Su questa base nasce una nuova classe dirigente impregnata di cultura "unitaria" con tutto il positivo e il negativo di questa impostazione, perché la democrazia liberale porta con sé una dialettica essenziale alla democrazia: il conflitto politico tra le alternative di governo. I miti unitari sono portati a eliminare la dialettica della democrazia. perché se sei unitario devi trovare gli elementi della ricomposizione non quelli della divisione insita nella dialettica democratica”.
È a questa cultura che Craxi lancia la sua sfida con il saggio su Proudhon vs Marx pubblicato sull'Espresso?
“Quell'articolo  fu  scritto con  Luciano Pellicani. C'era dietro l'ispirazione del pensiero di Eugenio Colorni, che nel 1945-46 pose il problema del superamento del comunismo e del massimalismo. I 'autonomismo unitario portava ad essere contemporaneamente riformisti e massimalisti, schiavo com'era del motto pas d'ennemis à gauchee ciò frenò lo sviluppo del centrosinistra. L'Italia era un paese di frontiera il cui equilibrio democratico si fondava sul fatto che la Dc doveva mantenere l'unità politica dei cattolici e il Pci, per evitare derive estremiste, doveva mantenere l'egemonia a sinistra.
Così. tutte le forze del dinamismo innovativo, sia quelle riformistiche e gradualistiche, come il socialismo craxiano, ma anche quelle radicali. come il manifesto, rimasero schiacciate nel mezzo. Quando in un paese la situazione non si sblocca per lungo tempo. Inevitabilmente prevalgono gli elementi deteriori. Il Centrismo, da elemento moderatore diventa stabilizzatore e di fatto si identifica con lo Stato, e la DC. con tulle le attenuanti e le sfumature divento partito-stato. Negli anni ‘70 mentre Moro pensa che l'inserimento delle masse popolari comuniste nello Stato sia irreversibile, per passare poi alla democrazia dell'alternativa, Andreotti invece è il teorico della reversibilità di tale inserimento. cinicamente ancorato a una logica stabilizzatrice. In sostanza la Dc si identifìca con lo Stato, con appendici a destra e a sinistra”.
Lei ha conosciuto anche Aldo Moro...
“Si lo conoscevo bene.  Aveva una visione evoluzionistica della natura democratica dello stato che avveniva attraverso la cooptazione di tutte le   forze, anche le più  refrattarie, nella responsabilità di  governo della  società. 
La sua visione,  tipicamente cattolica, prevedeva di  includere attraverso il governo dei processi. Questo processo culturale viene interrotto dal sequestro nel carcere brigatista. Nelle  lettere dal carcere trapela una nostalgia ma anche una critica di questa teoria. nel senso che anche Moro capisce che il processo di inclusione non è automatico: ci prova anche con le Br ma non ce la fa. Con Moro finisce la fase dell'evoluzionismo creativo che ha interpreti rari: ne nasce uno ogni secolo.
La morte di Moro cristallizza dunque la situazione italiana con effetti negativi sulla Dc ma anche a sinistra, dal momento che il Pci di Berlinguer non vuole imboccare la strada del revisionismo perché ciò significherebbe rinnegare le radici del partito e rinunciare all'egemonia a sinistra”.
E Berlinguer, pur tendendo fino alla rottura il rapporto con il sistema del socialismo reale dice: non saremo ma i socialdemocratici...
“Perché sa che In rottura con la sua storia e la sua tradizione lo porterebbe  a riconoscere la supremazia di un socialismo liberale, democratico, evolutivo, gradualistico. Qui comincia la sfida di Craxi, ma è ardua e impossibile  perché il mancato approdo revisionistico del Pci e la debolezza strutturale dell’autonomismo conflittuale spingono Berlinguer nel moralismo e Craxi nella subalternità alla governabilità”. 
Eppure Craxi è il primo presidente del Consiglio socialista della  storia  repubblicana...
“L’illusione socialista è che in Italia, pur senza  un  atteggiamento  remissivo come quello del Pcf verso Mitterand, il Pci avrebbe comunque attenuato la sua opposizione dinnanzi a un governo a guida socialista. E invece non succede, perché il Pci, dopo la morte di Moro e la sconfitta irreversibile del compromesso storico. non ha una politica. E allora avviene la rottura anche umana, dei fischi di Verona. E poi ci fu la morte drammntica  diBerlinguer...
Qual è il suo giudizio su Berlinguer?
“Ho  conosciuto  Berlinguer quando era nella  Fcderazione giovanile comunista, nel 1945. Ho sempre avvertito  in lui l'antisocialismo  della tradizione comunista. Non ho alcun dubbio sulla sua forza morale e sulla sua integrità, ma lui cm un'integralista con  una  tendenza  al  sacerdozio, accentuata dall'influenza  di  Tonino Tatò e dei comunisti cattolici. L'ostilità di Berlinguer non era tanto a Craxi ma al Psi in quanto tale. perché lui aveva in testa l'idea della subalternità dei socialisti. In Berlinguer, poi, si aggiungeva la rivolta generazionale dei figli contro i padri. perché suo padrc fu un importante e deputato socialista. Tutti i giovani che entrano in politica lo fanno contro i padri perché in politica non esiste la continuità generazionalc,  perché  prevale  la  critica  del non-realizzato”.
E Craxi?
“Craxi aveva la spavalderia tipica dei timidi. Ho conosciuto Craxi nel congresso  di Venezia, nel 1959. ma lui era molto milanese quindi ci perdemmo un po' di vista, fino al 1069 quando Craxi rompe con Giacomo Mancini cui era molto legato e forma la sua corrente. In Craxi mi convinceva la rottura dello schema dell'autonomismo unitario.
Ricordo che una volta Craxi, per spiegarmi la radice della sua diffidenza verso i comunisti, mi  raccontò che quando era segretario del Psi a Sesto San Giovanni, la sede della sezione socialista era nello stesso luogo dove c 'erano la sede della Camera del lavoro  e del Pci: una piccola stanzetta cui si accedeva dopo aver attraversato le innumerevoli stanze del Pci e della Cgil... In molte zone, nei comitati di liberazione il rappresentante socialista veniva messo lì dai comunisti. Lo stesso Luciano Lama, allora segretario  socialista  della  Camera del lavoro di Forlì, nel 1946 votò Pci, e c’erano alti dirigenti socialisti che avevano la doppia tessera. Ma questo non era vissuto dai nostri compagni come qualcosa di ostile, bensì come frutto del  famoso spirito unitario”.
Torniamo all'oggi. Qualcuno ha paragonato Renzi a Craxi
“Renzi e Craxi  avevano in comune dinamismo. Aggressività, velocità, ma la  differenza è che il primo  è condizionato  da una visione provinciale mentre il secondo aveva una visione sovranazionale: l'uno, con tutto il rispetto, è figlio di Rignano, l'altro era figlio di Milano”.
Cosa pensa del Pd di Zingarelli?
“È una risposta da minimo comun denominatore per  un  partito  che nel giro  di qualche anno ho perso il 40  50 per cento dei voti. Una sorta di linea del Piave. Però dopo ci può essere Vittorio Veneto o una nuova Caporetto. Il Pd è  troppo  piccolo per aspirare all’alternativa da solo, troppo grande per non tenerne conto. Il problema non è un intrigo da corridoio dei passi perduti con il M5S, sperando nei deputati che saranno rieletti in caso di elezioni anticipate. Il problema è come si approfondisce la crisi politica sia nella Lega che nel M5S la cui alleanza rischia di portarci all'Albania di Hoxha, a furia di assistenzialismo o debito. Un sistema che non produce non dhtribuisce”.
“La politica è sangue e merda” è forse la sua battuta più celebre...
“La politica  non è fatta per le damine, pcrché c'è in ballo lo gestione del potere. E cos'è il potere se non punire e assolvere (non in senso giudiziario), cioè penalizzare o gratificare gli interessi, intervenendo sull’esistenza delle persone? È passione e ragione. Chi entra in politica deve sapere che è esposto s tutti i venti e a tutte le intemperie. È lo sport più violento che ci sia perché mette in gioco tutto. Ovviamente più sei fondamentalista più spietato diventi. La lotta politica deve avere un limite nella tolleranza”.
Le sue battute al tempo di Twitter spopolerebbero
“La semplificazione dove essere figlia di un pensiero, se invece è frutto di una semplice volontà propagandistica è cosa diversa”. 
Cosa le è rimasto del suo giovanile  trotskismo, una componente   storicamente minoritaria?
“Il principio formativo più  importante è che nella politica non c'è sacralità. La dissacrazionc è un valore perché la realtà va disgregata per comprenderla. Lo realtà intesa come un corpo unico porta alla fossilizzazione. Tutti i crimini avvengono quando si accetta la realtà così com'è. Nel
‘900 c'è stata la tragedia del real-socialismo, oggi quella del real-liberismo...
Concludiamo tornando a ll'inizio della nostra conversazione: quali effetti avrà il rubligate sul governo?
“Non credo a nuove elezioni a breve, ma la "logistica" del governo è saltata. Mi spiego: il governo era composto da tre sub-governi: quello  degli "utili idioti", Conte-Tria-Moavero burocrati interpreti del sistema ma senza  consenso; quello del M5S, forza che si autodefinisce "fuori dal sistema", che ha il controllo della maggioranza di governo e dei ministeri economici, ma non ha più la maggioranza dei consensi: quello della Lega che è forza antisistema, in crescita elettorale e controlla il ministero dell'Interno. che però è l'agnello sacrificale designato. Ciò porta all'autoparalisi del governo e al prevalere del sub-governo degli "utili idioti", non per loro forza autonoma ma perché essi possono, navigare nel nuovo momento della politica europea”.

*********************  

Questa intervista a Rino Formica, pubblicata da L’Espresso (n. 31 del 27 luglio 2019), viene riproposta da Agenzia Radicale nella rubrica “Rimandi”, poiché contiene un’analisi in larga misura condivisibile. Nei prossimi giorni come direzione, redazione e collaboratori interverremo per aggiungere il nostro punto di vista sui contenuti della conversazione, richiamando anche alcuni aspetti che ci vedono in parziale diversa visione sul pregevole racconto…



Macaluso: «Una destra pericolosa, nessuno ora indebolisca il centrosinistra»

Intervista. Il dirigente comunista: la fortuna di Salvini è colpa dei 5s. Sono recuperabili? Se perdono
https://ilmanifesto.it/macaluso-una-destra-pericolosa-nessuno-ora-indebolisca-il-centrosinistra/
Il Manifesto -  9/8/2019


Per orientarsi nella crisi di governo di questi giorni non si può trovare una traccia in una delle altre della storia repubblicana. Questo spiega Emanuele Macaluso, che pure di crisi di governo ne ha viste e vissute tante: da dirigente comunista, da sindacale, da direttore dell’Unità. A marzo ha festeggiato – anche qui sul manifesto – i suoi 95 anni. Ma, «una crisi così prima non poteva succedere», ragiona. E il motivo è semplice: prima «c’erano i partiti, le personalità politiche».
Di Maio, Conte e Salvini. Ecco le personalità di questi tempi. Che opinione ne hai?
Di Maio sembra uno che ha vinto la lotteria: vicepresidente del consiglio e due ministeri. E crede di sapere i numeri. Diciamo le cose come stanno: è un ignorantello, non ha cultura, né generale né politica, non ha storia, non esiste al mondo una persona che passa da quello che ha fatto, cioè niente, a vicepresidente del consiglio. Già questo dice cosa è stato questo governo. Non ha mai letto un libro, non so neanche se prima leggeva i giornali.
Inadeguato.
Diciamo le cose come stanno: sono stati loro. È stato Di Maio a costruire le fortune di Salvini. Che è arrivato al 36 per cento grazie a Di Maio. E a Conte. Gli hanno fatto fare quello che voleva. Gli hanno approvato tutte le leggi. Il cosiddetto ministro dei trasporti (Toninelli, ndr) gli ha chiuso i porti. Il presidente del consiglio, che costituzionalmente è il responsabile della politica del governo, non ha detto mai una parola su questo. Come se non ci fosse. Ha consentito che Salvini non facesse il ministro: non andava al Viminale, cambiava casacche, un giorno poliziotto, poi pompiere, poi finanziere. E Conte muto. Salvini è stato costruito dall’impotenza, dall’incapacità, dalla miseria politica dei grillini. Solo oggi che Salvini li messi fuori se ne sono accorti.
Conte in queste ore rivendica il suo ruolo. I 5 stelle sono emendabili, redimibili?

Conte si è accorto di essere presidente del consiglio da poco. Sono emendabili? Bisogna vedere come andrà il voto. Se diventano un partito marginale forse si innescherà un processo politico.
Il Pd, con altre forze di centrosinistra – +Europa, Leu, altre – tutti insieme potrebbero superare il 30 per cento. A quel punto il sistema tornerà ad essere destra, estrema, contro centrosinistra. Anche con quelli che oggi pensano che ci voglia un partito centrista: ma un partito non si inventa a tavolino, o c’è o non c’è. In quel caso c’è qualcosa da recuperare nei 5 stelle?
C’è una destra estrema molto pericolosa. Il problema centrale è la battaglia per la democrazia e le libertà, perché oggi questo è in discussione. E la questione sociale si è innervata con quella della libertà e della democrazia. Dunque i 5 stelle sono emendabili? Non lo so, se saranno un partito minore, se sparisce Di Maio e torna a fare quello che faceva – cioè niente -, se si sganciano da Rousseau e dalla dipendenza da Casaleggio. Forse la sconfitta può innescare processi che ora non possiamo rivedere.
Dicevi che la destra nazionalista è pericolosa. Questa legislatura ci lascia istituzioni indebolite, come ha detto Rino Formica a questo giornale?
In questa legislatura il parlamento non ha contato niente, tranne che per fare le leggi che servivano a Salvini. L’occupazione dell’informazione pubblica è sfacciata, basta guardare il Tg2. Ci sono le minacce ai giornalisti. Davanti al cronista di Repubblica (Lo Muzio, che ha ripreso il figlio di Salvini su una moto d’acqua della polizia, ndr) Salvini poteva chiedere scusa. E invece no, ha voluto dare un segnale: per i giornalisti che non sono servi c’è il disprezzo, il tentativo di ammutolirli. Questi miserabili dei grillini hanno tentato di uccidere Radio Radicale, il manifesto, l’Avvenire, i giornali locali. Quello che è avvenuto in questa legislatura è la premessa a possibili sviluppi peggiori.
Ora Salvini chiede agli elettori: «Datemi pieni poteri». Cosa vuol dire questa frase?
Ecco, l’altro problema, che per me è il principale del sistema democratico italiano, è un pauroso abbassamento della cultura politica di massa. Un bracciante siciliano dei miei tempi aveva più cultura politica di quanta ne abbia Conte o Di Maio.
La tanto criticata educazione politica dei vecchi partiti non erano le Frattocchie, era il rapporto con le masse popolari, che ora si chiama ‘il territorio’. C’erano i giornali delle forze politiche, le riviste, le sezioni, si parlava con le persone. Tutto questo è finito, non da oggi, da trent’anni.
 Oggi i politici parlano alla pancia perché alla testa non parla nessuno. Oggi non si conosce e non si riflette su cosa succede nel resto mondo. Sulla «situazione internazionale», come si diceva ai tempi del Pci?
Perché si sapeva che c’era un rapporto con la realtà che vivevi. Ecco, un’altra istituzione in pericolo è in Europa. Non so se Salvini pensa all’uscita dell’Italia dall’Unione, ma ha già annunciato che la conflittualità antieuropea sarà durissima. Ho letto sul Corriere l’intervista a Bannon. Rivela i rapporti con l’estrema destra americana e con Putin. Tutte forze antieuropee.
Salvini è eterodiretto?
Non dico questo, ma ha un’ispirazione politica nelle forze di estrema destra in America. E con Putin, che vuole fottere l’Europa.
Tu sei amico di un presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, considerato molto interventista. L’attuale presidente Mattarella ha un altro stile. Ma credi che ci sia bisogno di una sua azione più esplicita?
Conosco bene Mattarella. È un democratico, uno su cui il paese può fare affidamento. Forse non è riuscito ad avere uno staff all’altezza. E in una situazione del genere, glielo dico con grande amicizia, il presidente della Repubblica deve usare le sue competenze costituzionali fino in fondo. Se è vero quello che penso sui pericoli che corre il paese, certo al presiedente si pongono problemi seri e nuovi. La garanzia di alcune istituzioni, compreso ruolo del parlamento, si porrà in maniera più acuta. Ma ho fiducia che lui possa affrontare questi temi con energia. Non è un pavido, nel 1990 non esitò a dimettersi da ministro (contro la legge Mammì, ndr).
E siamo arrivati al Pd.
Ma la storia comincia con il Pds e i Ds. L’obiettivo del governo era un problema importante per gli eredi di un partito, il Pci, che era stato sempre fuori dal governo, tranne che subito dopo la Liberazione e poi con Moro, nell’area di governo. Ma non poteva essere l’unico obiettivo: quei dirigenti non hanno più posto attenzione ai processi sociali, culturali e sociali. Altrimenti non si spiega che sia avanzata questa destra, anche nel Mezzogiorno dove la Lega tifava per l’Etna e il Vesuvio. È avvenuto un processo in cui le generazioni che c’erano e quelle che sono venute dopo hanno perso le fondamenta di una forza democratica di sinistra. È stata spazzata via la presenza nel territorio, il rapporto personale, nei quartieri, nelle fabbriche, nella scuola. Oggi c’è la rete, ma non basta. Obama faceva comizi, anche piccoli. Così Sanders e i democratici. Comizi in camicia come li facevamo noi negli anni 50 e 60. Salvini l’ha capito, infatti è l’unico che fa ancora comizi.
Il segretario Zingaretti intanto fa appello all’unità del partito. Renzi riuscirà ad accettarlo?
Lo spero. Con lui non ho mai parlato. Non nego che abbia delle qualità. Ma da come interviene si capisce che non ha esaminato autocriticamente le ragioni della sua caduta. Continua a dare le responsabilità agli altri, non vede il suo eccessivo personalismo. Da questo punto di vista non ha riflettuto. Invece dovrebbe. Potrebbe avere un avvenire politico, ma dentro una forza politica. Così si faceva nella Dc, visto che viene da lì. I ‘cavalli di razza’ si alternavano, Moro, Fanfani, De Mita. Fra loro c’è stata competizione, a momenti anche molto dura, ma avevano capito che se si spaccavano finivano. Dopo il ’ 68 Moro, che era stato presidente del consiglio, fu messo fuori dai dorotei; lui fece una corrente e al congresso prese il 7 per cento. Poi però diventò presidente del consiglio e capo del partito fino a quando fu rapito e ucciso. Questa è la dialettica.
Non so se l’ha capito Renzi: se spacca, darà certo un colpo al Pd ma anche lui conterà niente. Se ne è capace, deve reggere una dialettica: competa, il futuro non lo sa nessuno.
Zingaretti ha i numeri per questa fase così delicata?
Oggi in tutto il mondo politico non c’è più il meglio: i grandi partiti, i Togliatti, i De Gasperi, i Moro e i Nenni. Siamo in piena crisi della politica, altrimenti non avremmo i Di Maio e i Salvini. E la sinistra vive in questa crisi. Quindi bisogna stare attenti a quello che c’è, valutare quello che è possibile. Zingaretti è il meno peggio che oggi il Pd possa esprimere. Ha equilibro, sensibilità, un minimo di cultura politica, ha fatto il parlamentare europeo, ha fatto bene presidente di regione. Io non sono iscritto al Pd, ho scritto un libro che si intitola «Al capolinea» e per me il Pd soffre il modo com’è nato. Ma siccome ora non c’è altro – ripeto: non c’è altro – dico a tutti che demolirlo significa rafforzare la destra. Quindi bisogna semmai dare argomenti, suggerire temi, mettere in campo questioni, anche fuori dal partito. E bisogna avere la capacità di cogliere quello che di positivo c’è fuori dal partito. Avere molta attenzione a l mondo sindacale: il Pd, e non solo Renzi, ha la responsabilità di non averlo capito. E in Italia la questione sociale si intreccia alla questione dell’immigrazione. Perché la questione sociale resta sempre essenziale per una forza di sinistra.


Rino Formica: «È l’ultima chiamata prima della guerra civile. Ora il Presidente parli»

L'intervista . L’ex ministro socialista: «Assistiamo alla decomposizione delle istituzioni, nel decreto sicurezza si accetta la fine del ruolo di Palazzo Chigi. I leader politici sono screditati. Solo un’autorità morale e politica può mobilitare la calma forza democratica dell’opinione pubblica. Lo strumento c’è, è il messaggio del Colle alle camere»
Il Manifesto -  8/8/2019  

«Quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica, o decide la forza. Se non ci sono soluzioni democratiche c’è la guerra civile». Con Rino Formica – classe 1927, socialista, più volte ministro, da più di mezzo secolo le sue definizioni della politica e dei politici sono sentenze affilate, arcinote e definitive – il viaggio per approdare all’oggi, un oggi drammatico, inizia da lontano. Con il Pietro Nenni «di quei dieci giorni lunghi quanto un secolo fra il 2 e il 12 giugno del ’46», racconta, «fra il referendum e la proclamazione della Repubblica c’è il tentativo del re di bloccare la proclamazione della Repubblica. Umberto resisteva al Quirinale. I tre grandi protagonisti, De Gasperi Togliatti e Nenni, presero la decisione di convocare il Consiglio dei Ministri e di dare i poteri di capo dello stato a De Gasperi, che era presidente del consiglio. De Gasperi andò al Quirinale sfrattò Umberto. In quei giorni noi, dalle federazioni del partito socialista, chiedemmo che fare. C’era il rischio reale che si bloccasse il processo democratico. Nenni appunto diramò la disposizione: quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica o la parola passa alla forza». Questa è la «questione», sostiene Formica.
Stiamo assistendo a una rottura istituzionale?
Questa rottura è antica, maturava già dagli anni 70, ma il tema viene strozzato. Il contesto internazionale è bloccato, un paese di frontiera come l’Italia deve fronteggiare equilibri interni ed internazionali. Nell’89 questo blocco salta, ma le classi dirigenti non affrontano il tema della desovranizzazione degli stati che diventavano affluenti dell’Europa unitaria. I grandi partiti entrano in crisi. Il Pci è in crisi logistica e di orientamento; il Psi perde la rendita di posizione; la Dc è alla fine della sua funzione storica.
Torniamo alla nostra crisi istituzionale.
Da allora abbiamo due documenti importanti. Il primo è del ’91, il messaggio alle camere di Cossiga che spiega che l’equilibro politico e sociale è superato. Poi, nel 2013, il discorso del secondo mandato di Napolitano. Due uomini diversi, con due approcci diversi, con coraggio pongono al parlamento il tema del perdurare della crisi. E i parlamentari, fino ad oggi, continuano a far finta che tutto va bene, che è solo un temporale, passerà. Oggi siamo alla decomposizione istituzionale del paese.
Quali sono i segnali della «decomposizione»?
Innanzitutto il governo: non c’è. Oggi ci sono tribù che occupano posizioni che una volta erano del governo. Il presidente del consiglio convoca le parti sociali, ma il giorno dopo le convoca il ministro degli interni. E i sindacati vanno. Quando il sindacato non ha un interlocutore istituzionale ma va da chi lo chiama si autodeclassa a corporazione: vado ovunque si discuta dei miei interessi. Allora: non c’è un governo, perché la sua attività è stata espunta; non ci sono i partiti né i sindacati. È la crisi dei corpi dello stato. Si assiste a un deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la magistratura.
Sta dicendo che non c’è alternativa alla guerra civile?
C’è. Oggi siamo in condizione di mobilitare la calma forza democratica dell’opinione pubblica? Chi può animarla? I leader politici sono deboli o screditati. Serve l’autorità morale e politica che può creare un nuovo pathos nel paese. Uno strumento democratico c’è, sta nella Carta. È il messaggio del presidente della Repubblica alle camere. Nell’81 la camera pubblicò un volume sui messaggi dei presidenti. Nella prefazione il costituzionalista Paolo Ungari spiega che il messaggio alle camere ha una grande importanza. Il presidente ha due modi per dialogare con il parlamento. Il primo è quando interviene nel processo legislativo. Quando rinvia alle camere un disegno di legge per incostituzionalità. È vero che non ha il diritto di veto ma – dice Ungari – porta il dissenso dinanzi al parlamento e anche all’opinione pubblica, «un terzo e non silenzioso protagonista».
Dovrebbe succedere con il decreto sicurezza bis?
Leggo che Mattarella ha dubbi. Forse ha dubbi su di sé: le norme incostituzionali stavano già nel testo che ha firmato e inviato alle camere. Lì si accettava il superamento della funzione del presidente del consiglio: non c’è più, viene informato dal ministro degli interni. È la negazione della norma costituzionale. Ma è vero che se oggi lo rimandasse alle camere la maggioranza potrebbe ben dire: abbiamo votato quello che tu hai già firmato.
Allora cosa può fare?
La situazione di oggi è figlia dell’errore del 2018. Il presidente dà l’incarico esplorativo a Cottarelli e questo incarico viene sospeso dall’esterno da due signori che notificano al Quirinale di non procedere perché stanno stilando un «contratto» di cui indicano l’arbitro, il presidente del consiglio. È il declassamento dall’accordo politico a contratto di natura civilistica, uno stravolgimento costituzionale. L’accordo di governo è altra cosa: stabilisce una cornice politica generale. L’errore è dei contraenti, ma chi lo ha avallato poteva fare diversamente? Se il presidente del consiglio è arbitro si accetta il fatto che la crisi istituzionale si supera attraverso una extrademocrazia aperta a tutti i venti.
Un punto di non ritorno?
Il problema ora è mettere uno stop. Il presidente della Repubblica dovrebbe fare un messaggio sullo stato di salute delle istituzioni. Il presidente del consiglio non c’è più, il governo neanche, la funzione della maggioranza è mutata fra decretazione e voto di fiducia. Ormai, di fatto, una camera discute, l’altra solo vota. Si sta consumando un mutamento dell’equilibrio istituzionale. Il presidente ci deve dire se questa Costituzione è diventata impraticabile.
Intanto il Viminale allarga i suoi poteri.
Salvini crea una novità nel nostro tessuto democratico. All’interno di un sistema di sicurezza crea una fazione istituzionale di partito: spezza un corpo dello stato in fazioni politiche. Il rischio è che nasca una polizia salviniana. Che avrebbe come conseguenza la nascita della Rosa bianca, come sotto Hitler. E non solo. Ormai Salvini fa in continuazione dichiarazioni di politica estera che si pongono al di fuori dei trattati a cui aderisce l’Italia.
Mattarella ha gli strumenti per fermarlo?
Mattarella viene da una educazione morotea, quella della inclusione di tutte le forze che emergono, anche le più incompatibili. Ma ne dà un’interpretazione scolastica. Moro spiega la sua visione nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari Dc, prima del sequestro. Convince i suoi all’inclusione del Pci nel governo ma, aggiunge, se dovessimo accorgerci che fra gli inclusi e gli includenti c’è conflitto sul terreno dei valori, noi passeremo all’opposizione. L’inclusione insomma non può prescindere dai valori. Altrimenti porta alla distruzione dei valori anche di quelli che li hanno. Infatti il contratto non è un’intesa fra i valori ma tra gli interessi.
Insomma questo governo è un cavallo di troia nelle istituzioni?
È la mela marcia che infetta il cesto.
Mattarella può ancora intervenire?
Non c’è tempo da perdere, deve rivolgersi al parlamento. L’opinione pubblica deve essere rimotivata, deve sapere che ha una guida morale, politica e istituzionale. Si sta creando il clima degli anni 30 intorno a Mussolini.
I consensi di Salvini crescono, l’opinione pubblica ormai si forma al Papeete beach.
Ma no, Salvini cresce perché non c’è un’alternativa. Un messaggio del presidente darebbe forza a quelle tendenze maggioritarie nell’Ue che hanno bisogno di sapere se in Italia c’è qualcuno che denuncia il deperimento democratico. Anche perché, non dimentichiamolo, l’Unione ha l’arma della procedura di infrazione per deperimento democratico, già usata per la Polonia.
In questo suo ragionamento l’opposizione non ha ruolo?
Il paese è stanco, il Pd non è in condizioni di rimotivarlo. Nessuno ne ha la forza. La stampa è sotto attacco, si difende, ma per quanto ancora? Hanno aggredito Radio radicale, i giornali, dal manifesto all’Avvenire, intimidiscono anche la stampa più robusta. Solo una forte drammatizzazione istituzionale può riuscire. All’incontro con i cronisti parlamentari Mattarella ha fatto un discorso importante. Ecco, tutti insieme dovrebbero chiedergli di ripeterlo ma in forma di messaggio alle camere. Per dare un rilievo ufficiale agli attacchi alla libera stampa. La signora Van der Leyen non potrebbe non intervenire.
Anche perché resta il dubbio che la Lega sia strumento della Russia contro l’Ue.
I rapporti fra Salvini e la Russia di Putin sono servili. La Russia ha un forte interesse a un’Italia destabilizzata per destabilizzare l’Europa. Il disegno non è di Salvini, lui è solo un servo assatanato di potere.
Ministro, con Salvini sono tornate le ballerine, stavolta in spiaggia?
Quando parlai di «nani e ballerine» intendevo che non si allarga alla società civile mettendo in un organo politico i professionisti del balletto. Qui siamo alla versione pezzente del Rubigate. Quello di Berlusconi era un populismo di transizione ma non si può negare che intercettasse sentimenti popolari. Salvini invece eccita i risentimenti plebei.
Chiede al Colle di agire un conflitto inedito nella storia repubblicana?
Ma se questa situazione va avanti, fra due anni Salvini si eleggerà il suo presidente della Repubblica, la sua Consulta, il suo Csm e il suo governo. Siamo al limite. Lo dico con Nenni: siamo all’ultima chiamata prima della guerra civile nazionalsovranista.


Emanuele Macaluso all'Huffpost: "Compagni, non abbiate paura del popolo"

Intervista allo storico esponente della sinistra, che a 95 anni invita i dem alla battaglia senza accordi con M5S: "Il Pd è malato di governismo, non si ferma questa destra con una manovra di palazzo... ma chi l'ha detto che l'Italia sceglierà Salvini?"

https://www.huffingtonpost.it/entry/emanuele-macaluso-allhuffpost-compagni-non-abbiate-paura-del-popolo_it_5d57ed94e4b0d8840ff3ce36

17/08/2019

Novantacinque primavere di lucidità e coraggio. Eccolo Emanuele Macaluso, grande vecchio della sinistra, anzi diciamoci la verità, il più giovane di tutti, per energia, lucidità, passione politica. Eccolo, nel corso di questa lunga conversazione, pronunciare più volte la parola “battaglia politica”, “popolo”, invitando la sinistra ad “avere coraggio e non paura del voto”. Lui che nella lotta, in anni duri e novecenteschi, si è formato: la Sicilia dei braccianti, il Migliore che lo chiamò a Roma, la Guerra Fredda, la direzione dell’Unità ai tempi di Enrico Berlinguer, una vita assieme a Giorgio Napolitano nella corrente migliorista. Insomma, un comunista italiano che di quella lezione ricorda l’essenziale: “La manovra politica e parlamentare non può prevalere o essere un surrogato del consenso. Lasciamo stare Togliatti e quella tradizione. Il Pci era per il consenso, da conquistare attraverso la battaglia nella società, e per la manovra”. 
È quello che sta accadendo oggi. Un pezzo di Pd vuole l’accordo con i Cinque Stelle. Soprattutto quelli che vengono dalla sua tradizione, da Bettini a D’Alema. Come se lo spiega?
La grande tradizione del realismo comunista non c’entra. La verità è che questo gruppo, che è stato attorno ad Achille Occhetto ai tempi della svolta, ha ritenuto che portare quella storia al Governo era un grande successo. Non ne faccio una questione di moralismo: un partito deve tendere a governare un paese, altrimenti non è un partito. Insomma, è giusto, ma se questo obiettivo diventa il tutto, e finisce come è finito in questi anni ogni rapporto con la società, diventa un errore. E questo dimostra che anche il Pd sta dentro la crisi, ammalato di governismo. È incapace di concepire se stesso fuori dal Governo. 
Anticipo l’obiezione: se si vota, Salvini prende tutto: Governo, Quirinale, Corte Costituzionale.
E l’alternativa sarebbe fargli prendere di più tra qualche mese, dopo una devastante campagna contro quelli che “hanno paura del popolo”, “il Governo degli sconfitti”, “i perdenti attaccati alle poltrone”?
Dice Bettini, e non solo lui: non dura qualche mese, ma va fatto un patto politico di legislatura.
Amico mio, qui non stiamo mica al Consiglio comunale di Roma. Hai mai sentito che, quando nasce un Governo, si dice che “nasce per tre mesi”? Tutti dicono che durerà una legislatura. Poi arrivano le pene quotidiane. Ricordo che Di Maio e Salvini, dieci giorni fa, dicevano “dureremo quattro anni”. Dopo tre giorni c’era la crisi di Governo…
Cosa la colpisce di più di questa discussione?
La sua povertà culturale. Manca l’analisi di fondo della crisi italiana, per come si sta manifestando. La crisi di Governo è solo un pezzo di una crisi più ampia della politica. Basta guardare il personale: Conte sarà anche civile e perbene, ma ha rivelato la sua inadeguatezza in questo anno, in cui di fatto è stato governato dal suo addetto stampa. Come si chiama lo spogliarellista?
Si riferisce a Casalino? Non è proprio uno spogliarellista...
Vabbé, stava mezzo nudo in televisione, comunque ci siamo capiti. Si è vista l’assenza di esperienza, formazione, cultura politica. Ma domando: il presidente del Consiglio si è accorto solo l’altro giorno con la Open Arms che Salvini ha imposto una linea oltranzista su navi e porti? Per un anno non ha detto una parola su questa regressione politica e civile. Anzi, diciamoci la verità fino in fondo.
Prego.
In questo anno Lega e Cinque stelle hanno approvato leggi infami come quelle sulla sicurezza. E insieme hanno creato un clima in cui sono cresciute paura e razzismo ed è stata creata tolleranza e spesso complicità su episodi che richiamano il fascismo. In questo contesto, tra i due tronconi populisti è prevalso quello leghista di Salvini che ha eroso l’altro troncone che si è rivelato, con Di Maio e Conte, una forza ausiliaria senza storia e identità, non proprio un argine democratico. Questo è il punto di fondo: adesso che tutti dicono parole in libertà sull’alleanza con i Cinque stelle. Il presidente del Consiglio non ha detto una parola e di Maio andava in tv a dire “bene, evviva”.
Torniamo al ragionamento sulla crisi della politica.
Anche Salvini, che ha costruito un’egemonia populista grazie all’esperienza di Governo, è figlio di questa crisi della politica. Ricordi quando il suo partito nordista diceva che il problema della Sicilia era l’Etna che doveva spazzarla via e quello della Campania il Vesuvio? O l’antimeridionalismo più vergognoso? Ora è diventato sovranista, nazionalista, insomma il rovescio, col consenso di una parte importante dell’elettorato. Questo che cosa significa?
È il populismo, che nasce dalla crisi dei partiti. E che anzi esprime, una profonda rivolta verso i partiti tradizionali, dopo gli anni della grande crisi.
Esattamente. E qui sta anche la responsabilità della sinistra. Anziché guardare a cosa avveniva nella società, quali problemi maturavano nel profondo, quali rabbie, quali aspettative, ha teso ad andare al Governo attraverso manovre politiche e parlamentari, come ha scritto oggi Paolo Mieli, analisi che condivido. Aggiungo: rinunciando a stabilire una connessione sentimentale col popolo, ha anch’essa navigato dentro la crisi della politica. Anche Renzi è stato espressione di questa crisi. È stata un’altra faccia del populismo: il disprezzo per i sindacati e l’amore per il padrone della Fiat, l’antieuropeismo di quando tolse la bandiera dell’Europa della presidenza del Consiglio, la gestione plebiscitaria del referendum, la cultura del capo. Populismo, appunto.
Se questa è l’analisi, come giudica la reazione del Pd di fronte alla crisi?
Ho visto che il segretario sta tenendo la barra, ma è evidente che è scattato un riflesso governista che impedisce di cogliere appieno la portata della crisi verticale del grillismo che apre spazi alla sinistra nel paese. E si colloca ancora dentro la crisi della politica, dimostrando di non essere un partito, ma un aggregato elettorale a servizio del leader ai tempi di Renzi, e ora di un insieme di personalità.
Una decina d’anni fa, quando nacque il Pd, lei scrisse un libro, dal titolo “Al Capolinea”. La tesi era, sintetizzo, che quel partito nasceva senz’anima e con un rapporto debole con la società.
Certo, un partito è tale se ha un suo asse politico culturale, ideale che produce politiche e tiene assieme anche chi è di opinione diversa dentro quell’asse. Oggi è allucinante. Calenda dice: “O così o me ne vado”, Renzi voleva fare un partito per conto suo e ora è rientrato per oscurare Zingaretti. Voglio fare un appello a un partito che, sia pur con tanti difetti, è un presidio democratico: fermatevi, discutete in Direzione, il segretario poi faccia la sintesi. E aggiungo: non abbiate paura di combattere, ma chi l’ha detto che l’Italia sceglierà Salvini?
Le dico la verità. Non mi aspettavo questa sua determinazione sul voto.
Non è una sfida guasconesca, Zingaretti l’ha capito. Ma il punto è che non fermi questa destra con una manovra di palazzo, tra quelli che dicevano “partito di Bibbiano” e quelli che dicevano “straccio la tessera se il Pd si allea con Di Maio”. L’obiettivo non può essere solo stare al Governo. Il problema è “con chi” ci stai e “come” ci stai. E se questo contraddice il modo di essere della società e dei processi maturano nella società. Domando: questo accordo è un aiuto a uscire dalla crisi o è un pasticcio che la aggrava? Io penso che la aggravi.
Macaluso, lei è un combattente. Io tutta questa voglia di combattere nel Pd non la vedo. Mi sembra che il segretario sia quasi isolato nel gruppo dirigente.
Compito di un segretario è prendere una iniziativa. Mica è un notaio dei capicorrente. Io penso che questa destra la fermi con una operazione più ambiziosa e democratica di una manovra di palazzo, provando a ricomporre la frattura tra sinistra e popolo. È in quella frattura che è nata la rivolta di questi anni. Devi chiamare il popolo a sostenere una battaglia, nei quartieri, nelle fabbriche, nelle scuole, sfidando la cultura di massa del leghismo salviniano. Devi chiamare il popolo, dicendo che siamo di fronte a un qualcosa di pesante. È difficile, ma segnali incoraggianti ci sono.
Quali?
La rinascita del sindacato, non solo di Maurizio Landini. Anche il fatto che Cgil, Cisl e Uil abbiano trovato un’intesa unitaria sulla politica economica e sociale. E allora la sinistra deve capire che il sindacato finora non ha avuto più un retroterra politico, che pure è necessario nella reciproca autonomia. Insisto, il popolo.
Le chiedo una previsione, su questa crisi più pazza del mondo.
Che previsioni vuoi fare… Ora è il momento del capo dello Stato, nei confronti del quale nutro stima e amicizia. Sono certo che, se si andrà al voto, sarà sua preoccupazione andarci in modo ordinato, perché certo non può gestire le elezioni Salvini dal Viminale. Non ne garantirebbe la terzietà, questo mi pare evidente.
Alessandro De Angelis   Politics Reporter, L'Huffington Pos