Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

mercoledì 24 ottobre 2018

Sante parole


Il Papa: “Tutti i populismi nascono dall’odio”
L’appello di Francesco ai giovani e il riferimento al nazismo: “Studiate la storia, anche Hitler iniziò così”
Aggressioni odio mancaza di umanità: oggi è in atto la terza guerra mondiale a pezzetti
Il cimitero europeo si chiama Mediterraneo
La chiusura è l’inizio del suicidio

La Stampa 24.10.18
di Andrea Tornielli
«I giovani sappiano come cominciano i populismi: seminando odio. Devono capire come cresce un populismo, ad esempio quello di Hitler…». Francesco, alla presentazione del libro La saggezza del tempo curato da padre Antonio Spadaro risponde alla domanda di una donna di 83 anni che fa scuola ai rifugiati e si dice colpita dalla «durezza e dalla crudeltà» con cui vengono trattati. È l’occasione per il Papa di tornare a parlare dei rischi del populismo e dell’importanza di imparare dal passato. «Non voglio discutere di politica, parlo dell’umanità - gli dice Fiorella Bacherini - Com’è facile far crescere l’odio tra la gente. E mi vengono in mente i momenti e i ricordi di guerra che ho vissuto da bambina».
Francesco invita ad ascoltare gli anziani sopravvissuti. «È importante che i giovani conoscano il risultato delle due guerre del secolo scorso. È un tesoro negativo, ma un tesoro da trasmettere per creare delle coscienze. Che i giovani conoscano questo perché non cadano nello stesso errore». Bergoglio spiega che è importante «capire come cresce un populismo, ad esempio quello di Hitler nel 1922 e 1923». È fondamentale che i giovani «sappiano come cominciano i populismi: seminando odio. Non si può vivere seminando odio».
«Che cosa faccio io - si domanda il Papa - quando vedo che il Mediterraneo è un cimitero? Dico la verità: soffro, prego e parlo. Non dobbiamo accettare questa sofferenza, non dobbiamo limitarci a dire: si soffre dappertutto… Oggi c’è la terza guerra mondiale a pezzetti. Guardate i posti di conflitto: mancanza di umanità, aggressione, odio, fra culture, fra tribù. Anche la religione deformata per poter odiare meglio. La terza guerra mondiale è in corso, credo di non esagerare in questo. Seminare odio è un cammino di distruzione, di suicidio. Questo si può coprire con tanti motivi. Quel ragazzo del secolo scorso (Hitler, ndr) nel 1922 lo copriva con la purezza della razza… Ora con i migranti: accogliere il migrante è un mandato biblico, perché Gesù è stato migrante in Egitto. L’Europa è stata fatta dai migranti. Poi l’Europa ha coscienza che nei momenti brutti, altri Paesi come l’America hanno ricevuto i migranti europei. Prima di dare un giudizio sulle migrazioni, dobbiamo riprendere la nostra storia europea. Io sono figlio di migranti che sono andati in Argentina. In America ci sono tanti che hanno cognome italiano, migranti ricevuti col cuore e la porta aperta. La chiusura è l’inizio del suicidio».
Infine Francesco è tornato a ripetere che i migranti «si devono accogliere e accompagnare, ma si devono soprattutto integrare. Se noi accogliamo così, senza integrazione, non facciamo un buon servizio. Serve l’integrazione. Un governo deve avere il cuore aperto per ricevere, le strutture adatte per compiere il cammino dell’integrazione e anche la prudenza di dire: fino a qui posso, di più non posso». E «bisogna che tutta l’Europa si metta d’accordo, non che tutto il peso sia portato solo da Paesi come l’Italia o la Grecia… Il nuovo cimitero europeo, si chiama Mediterraneo, si chiama Egeo».

domenica 21 ottobre 2018

1984 /segue

Il processo culturale contro la Silicon Valley

L’algoritmo non è più il simbolo di una formidabile emancipazione ma è una schiavitù che distrugge la libertà dell’individuo. Social network e non solo. L’apocalisse tecnologica spiegata con Orwell e lo sciame digitale. Un’inchiesta
Il Foglio - 4 Dicembre 2017 alle 15:20

La caduta degli dei della Silicon Valley è un fenomeno uscito da tempo dalla penombra dei complotti e dei controcomplotti, e la riprova è nella comparsa del termine angolofono apposito: techlash, l’epocale rinculo dell’opinione pubblica verso le grandi aziende tecnologiche idolatrate fino a pochi anni fa. L’Economist l’ha inclusa fra le parole più importanti dell’anno che verrà. Quando anche il vocabolario si adegua, significa che lo Zeitgeist è maturo. Dopo i decenni dell’entusiasmo avveniristico e del trasporto startupparo, quando sembrava – anzi: era certo – che il portale verso un futuro dell’umanità bello e progressista fosse dalle parti di San Francisco, e da quello stesso propulsore sarebbe partito un altro “secolo americano”, con abbondanti frutti di prosperità e democrazia per tutti, sono stati rimpiazzati dal tempo dell’incertezza e del sospetto. E’ stata una metamorfosi tutto sommato rapida, e viste con gli occhi di oggi alcune immagini del recente passato appaiono ridicole o inquietanti: Mark Zuckerberg che prima di suonare la campanella della Borsa dichiara che “la nostra missione non è essere un’azienda quotata. La nostra missione è rendere il mondo più aperto e connesso” ha qualcosa di orwelliano, mentre fa un effetto straniante rivangare certe recensioni negative del film The Social Network, anno 2010, dove si accusava il regista di avere ingiustamente rappresentato, forse per invidia e risentimento, Zuck come un sociopatico assetato di potere. La rappresentazione di David Fincher, allora impopolare, oggi è mainstream. Riprendere a qualche anno di distanza il profluvio di opinioni sui social network che avrebbero fatto cadere i dittatori sotto il vento della primavera araba ha invece qualcosa di grottesco e tragico. L’abbraccio moscovita fra Bashar el Assad e Vladimir Putin per festeggiare la fine della guerra in Siria si presta anche a una lettura di tipo tecnologico: il dittatore che ha resistito al famoso tam-tam della rete che avrebbe dovuto muovere le coscienze, e anche i caccia bombardieri, abbraccia il padre di tutti i troll che s’infilano nelle maglie della rete per influenzare le elezioni altrui. Chi avrebbe detto qualche anno fa che ci sarebbero stati attori geopolitici di questa schiatta fra i più ricchi beneficiari della comunicazione social?
Techlash, l'epocale rinculo dell'opinione pubblica verso le grandi aziende tecnologiche idolatrate fino a pochi anni fa
La Silicon Valley è passata dal lato giusto al lato sbagliato della storia, e il passaggio repentino ci dovrebbe mettere in guardia dall’abuso di questa presentazione manichea della storia. E’ rischioso dividere lo svolgimento delle cose umane in due sponde radicalmente separate: se un giorno si scopre che i buoni erano in realtà cattivi, che si fa? Ronald Reagan amava le espressioni sul lato giusto e sbagliato della storia, che pure usava con parsimonia, per ragioni evidenti legate alla Guerra fredda; Bill Clinton ha reso lo schema binario la storiografia ufficiale dell’ottimismo degli anni Novanta, Barack Obama l’ha portata al parossismo. Negli stessi decenni la Silicon Valley ha avuto alti e bassi, momenti sterili e favolosi eureka, bolle e ripensamenti, ma finora la sua collocazione nel grande schema non è mai stata messa in discussione. Apparteneva naturalmente alle forze del bene. Si sta scoprendo invece in questi anni che la realtà è molto più simile alla fantascienza, dove le cose più affascinanti sono anche quelle più pericolose.
 
Non che in questi anni sia cambiato qualcosa nel modus operandi dei giganti della galassia digitale, i quali perseverano nei loro profittevoli modelli di business travestiti da servizi socialmente utili e forse anche imprescindibili per vivere in questo tempo. Facebook non si è messo di colpo a produrre armi di distruzione di massa, Google non ha cambiato il suo motto in “do evil”, i social non sono diventati attivi strumenti di morte. Quello che è cambiato è che lo “sciame digitale” di Byung-Chul Han ha preso in qualche modo coscienza di sé: “Arranchiamo dietro al medium digitale che, agendo sotto il livello di decisione cosciente, modifica in modo decisivo il nostro comportamento, la nostra percezione, la nostra sensibilità, il nostro pensiero, il nostro vivere insieme. Oggi ci inebriamo del medium digitale, senza essere in grado di valutare del tutto le conseguenze di una simile ebbrezza”, scriveva il filosofo tedesco-coreano nel suo famoso pamphlet. Il passaggio dall’utopia alla distopia è stata una eterogenesi, ognuno ha visto il lato sinistro della Silicon Valley da un’angolazione particolare, e alla fine in molti si sono trovati d’accordo nel mettere la tecnologia sul banco degli imputati, ma per ragioni diverse. C’è chi ha cambiato idea per motivi legati al brutale stradominio dei mercati esercitato da un oligopolio ormai impossibile da nascondere sotto l’affettato giovanilismo di una t-shirt.
 
Alla fine in molti si sono trovati d'accordo nel mettere la tecnologia sul banco degli imputati, ma per ragioni diverse
Soltanto nell’ultima trimestrale Amazon, Alphabet (Google), Apple, Facebook e Microsoft hanno fatturato insieme 143 miliardi di dollari, poco più del pil del Qatar, e non mostrano alcun segno di flessione. Anzi, ciascuna di queste aziende sta mettendo in atto strategie per allargare il proprio raggio d’azione. Google sta investendo da anni sulla robotica e la medicina, mentre Amazon lavora per fare al settore del trasporto marittimo delle merci quello che ha fatto all’editoria.

 
Lo scorso anno, senza grandi fanfare, l’azienda di Jeff Bezos ha ottenuto la licenza per trasportare merci su nave per conto terzi, cosa che gli permette di ridurre i costi di trasporto dei suoi partner cinesi e apre la porta a un giro d’affari di 350 miliardi di dollari, se si considerano soltanto le rotte nel Pacifico. La logistica via mare è un settore ampio e con margini molto bassi, dove s’afferma chi ha le infrastrutture più efficienti ed economiche, ed essere più efficienti di Amazon nello smistamento delle merci è quasi impossibile. Chi dominerà il trasporto navale nei prossimi decenni? Non è difficile capire perché qualcuno guarda Google e Amazon come i no global negli anni Novanta guardavano la Monsanto o la Nestlé, con la differenza non marginale che aggirare le compagnie tech, per evitare di concedere loro i dati da cui traggono profitto, è quasi impossibile. Tutta questa concentrazione di potere ha scatenato meccanismi regolatori in tutto il mondo: la Cina inasprisce la censura, la Commissione europea commina maxi multe, in America si discute sugli aspetti fiscali e qualcuno propone di applicare ai grandi player gli stessi regolamenti delle utility.
 
Una grande concentrazione di potere. Qualcuno guarda Google e Amazon come i no global negli anni Novanta guardavano la Monsanto o la Nestlé, con la differenza non marginale che aggirare le compagnie tech, per evitare di concedere loro i dati da cui traggono profitto, è quasi impossibile
Altri sono approdati alla tifoseria del techlash dal versante della critica all’automazione. In fondo, Donald Trump è diventato presidente aizzando i “forgotten men” americani che hanno perso i posti di lavoro soprattutto a causa dei robot, ma poiché le intelligenze artificiali non hanno patria e non si tengono lontane con i muri ha dovuto dare la colpa alla manodopera dei clandestini messicani e alla concorrenza sleale dei cinesi. Il tema politico è un altro fattore importante. La Silicon Valley è ovviamente di sinistra e progressista, benché attraversata da una breccia libertaria, e le élite costiere che sono a favore della libertà di pensiero ma si scandalizzano quando scoprono che qualcuno non la pensa come loro, come diceva William Buckley, hanno sempre dato per scontata l’alleanza naturale fra il mondo della tecnologia e l’agenda democratica. Fino al giorno in cui si è scoperto che anche sovranisti e populisti potevano usare i prodotti tecnologici a loro vantaggio.
 
Altri ancora assumono una postura critica per via della crescente percezione della mole immensa di dati che questi soggetti raccolgono, manipolano, rivendono, configurando il più imponente sistema di controllo delle informazioni che la razza umana abbia concepito. Questa critica va a braccetto con quella sulla segretezza. I paladini della trasparenza non hanno nessuna voglia di essere scrutati. Ci sono voluti mesi per trascinare i rappresentanti di Facebook davanti a una commissione del Congresso – ma a porte chiuse – dopo che era stata appurato che attraverso account fasulli certe troll farm russe legate al Cremlino avevano acquistato e diffuso degli ads politici, fatti circolare con la solita precisione algoritmica nei circoli trumpiani. L’azienda ha minimizzato, ha fatto mea culpa, ha promesso grandi riforme sperando che i problemi scomparissero da sé, e allo stesso tempo ha rifiutato di presentarsi al Congresso in seduta pubblica, ben sapendo che creare un precedente del genere potrebbe essere molto rischioso. Per calmare le acque anche Sheryl Sandberg ha dovuto fare una concessione formale: non immaginava che il loro prodotto per creare un mondo più aperto e connesso potesse diventare complice di tali nefandezze, ha ammesso.
 
Dietro a tutte questi motivi di inquietudine e malanimo intorno al mondo della tecnologia c’è una domanda cruciale: il techlash è un fatto accidentale o una necessità? In altre parole: la Silicon Valley ha preso una sbandata oppure sta mostrando il suo vero volto? I peccati che l’opinione pubblica le contesta sono la conseguenza inevitabile della sua natura o in fondo si tratta soltanto di una congiuntura sfortunata, di mele marce da scartare? Jaron Lanier è uno dei più importanti, forse il più importante, rappresentante della prima scuola di pensiero. Quello che stiamo vedendo, sostiene, non è che il disvelamento della logica apocalittica, dogmatica e fondamentalmente malvagia di aziende che non sono diventate cattive, sono nate proprio così. L’obiettivo è sempre stato quello di creare una gigantesca e invisibile Skinner Box, l’invenzione dello psicologo B. F. Skinner per addestrare i topi da laboratorio a rispondere con certe azioni a certi stimoli. Per Skinner il libero arbitrio era soltanto un’illusione, e sulla scorta della scuola di Ivan Pavolv e John Watson considerava l’uomo un fascio di comportamenti e reazioni che potevano essere modificati da un addestratore sufficientemente preparato applicando gli stimoli giusti. “Una persona in una Skinner box ha l’illusione del controllo ma è in realtà controllata dalla box, e ancora più precisamente da chi sta dietro alla box”, scrive. Lanier chiama Google e gli altri gli “imperi della modificazione del comportamento” ed è convinto che il modello di business di Facebook sia basato su una faustiana permuta di denaro degli inserzionisti in cambio di un colossale nudge di massa verso i prodotti che questi pubblicizzano (e qui andrebbe notato en passant che gli inserzionisti, alle volte, sono troll russi che lavorano per modificare la percezione dell’elettorato: sì, anche questo è nudge). Ed è perfino peggio di così. Occorre pagare i custodi dei dati, dei codici e degli algoritmi anche soltanto per stare nel mercato: “Una volta che Facebook diventa onnipresente, è una specie di gigantesco racket dove, se non li paghi, qualcun altro li pagherà per modificare il comportamento a tuo svantaggio, perciò tutti devono pagare soltanto per rimanere in equilibro nella stessa posizione in cui si troverebbero altrimenti”.
 
Lanier chiama Google e gli altri gli "imperi della modificazione del comportamento" ed è convinto che il modello di business di Facebook sia basato su una faustiana permuta di denaro degli inserzionisti in cambio di un colossale nudge di massa verso i prodotti che questi pubblicizzano
Lanier dice cose di questo tenore dai primi anni Novanta, quando ha deciso di rinunciare all’opportunità di diventare un dio della Silicon Valley e si è accontentato, fra molte virgolette, di essere un rispettato attore del mondo tech ma fuori dagli schemi, dai social, dalle feste, da Mountain View e da Menlo Park. Ma andiamo con ordine. Chi è Jaron Lanier? Si tratta di un corpulento omaccione con occhi azzurri straordinariamente bonari, dreadlocks lunghissimi e una esagerata collezione di strumenti musicali. Da qualche anno lavora come scienziato senza briglie per Microsoft ma negli anni Ottanta ha fatto cose fondamentali nell’ambito dello sviluppo della realtà virtuale. Lui era al centro di quella stagione fatta di occhialoni e guanti sensoriali. Quando dicono che è il padre della realtà virtuale lui risponde che dipende se si vuole credere alla madre, ma il concetto è quello. Da tempo è una delle voci più critiche in circolazione sulla cultura della Silicon Valley, e i suoi libri You’re Not a Gadget e Who Owns the Future? sono arrivati sugli scaffali con diversi anni di anticipo rispetto alla capacità ricettiva del pubblico. Metteva in guardia dalla riduzione delle persone a dati da monetizzare quando il mondo a bocca aperta stava scoprendo Facebook, denunciava l’eccessivo, totalitario controllo dei flussi informativi esercitato dai suoi vecchi amici quando le loro compagnie erano ancora considerate entità benevole, alleate di un progresso che non avrebbe mai presentato il conto. La Silicon Valley ha modi molto gentili per spingere (ancora una volta un nudge) le voci critiche nel cono d’ombra dell’irrilevanza senza ridurle al silenzio, ed è bastato inserire anche Lanier nel gruppo dei critici del tecnologismo, presentato (sempre gentilmente) come il gruppo dei trogloditi che fanno il tifo per il lato sbagliato della storia. Il fatto è che l’ultimo libro di Lanier, Dawn of the New Everything: Encounters with Reality and Virtual Reality, è invece uscito proprio nel mezzo del teclash e gli argomenti che ripropone con rinnovato vigore non possono essere più presi come gli ammonimenti di un bizzarro malvissuto con i rasta che s’ostina ad annunciare il disastro imminente.
 
“Ho scritto saggi su come la società sarebbe potuta un giorno diventare assurda per via di guerre astratte fra algoritmi, e di come dinamiche virali online potrebbero generare improvvise catastrofi politiche e sociali. I miei avvertimenti sono stati apprezzati in certi ambienti, ma evidentemente non hanno impedito gli eventi da cui mettevo in guardia. Eccomi qui a provarci ancora, ma con una differenza. Sono successe abbastanza cose da rendere i miei racconti non più degli avvertimenti. Sto lasciando cadere delle briciole da seguire, per capire come siamo arrivati dove siamo”, scrive. Questo le rende un libro importante: non è il racconto del mondo che verrà, ma di quello che è.
 
Si tratta tecnicamente di un memoir, un racconto biografico, ma viaggia su due binari. Da una parte l’aneddotica, dall’altra un articolato insieme di considerazioni che finiscono per solidificarsi in una specie di summa filosofica. Le due dimensioni si intrecciano continuamente. La vicenda di Lanier è segnata da un misto di sofferenze e stramberie che il protagonista racconta con il giusto distacco ironico. La sua vita è segnata profondamente dalla morte della madre, una pianista viennese che era riuscita a sfuggire ai nazisti convincendo le guardie del campo di concentramento che era ariana, per via dei capelli biondi e della carnagione chiarissima. E’ riuscita a produrre dei documenti falsi e poi a fuggire in America. E’ morta in un incidente stradale, perdendo il controllo dell’auto al ritorno dall’esame della patente di guida, per un difetto di fabbrica che si è poi scoperto molti anni dopo. Il padre era invece un uomo che aveva iniziato e mai portato a termine decine di professioni, progetti e carriere, fra questa anche quella di presentatore radiofonico. Leggenda vuole che sia stato lui a propagare per primo il mito urbano dei coccodrilli che vivono nelle fogne di New York. Per fare una sintesi di tutte le stranezze della vita di Lanier basta considerare che quando era un teenager il padre gli ha permesso di disegnare la casa in cui avrebbero vissuto dopo gli anni dell’indigenza, quando, grazie al suo lavoro finalmente stabile come maestro elementare, era riuscito a comprare un pezzo di terra in New Mexico. Il giovane Jaron ha deciso di costruire una cupola geodetica con gli interni argentati, come nei film di fantascienza, e così è stato. Cosa c’entra questo con la critica ai padroni del mondo digitale? Anche le stramberie servono a illustrare l’idea lanieriana su cos’è un essere umano: è un “processo creativo”, un oggetto misterioso e incalcolabile, dice, mentre il modello antropologico che guida l’industria dei modificatori del comportamento è quello di un essere molto sofisticato ma essenzialmente prevedibile. Un topo per gli esperimenti di Skinner, soltanto con molte più variabili.
 
L'idea di Lanier su cos'è un essere umano: è un "processo creativo", un oggetto misterioso e incalcolabile, dice, mentre il modello antropologico che guida l'industria dei modificatori del comportamento è quello di un essere molto sofisticato ma essenzialmente prevedibile
Il padre della cibernetica, Norbert Wiener, nel suo libro The Human Use of Human Beings, pubblicato nel 1950, aveva colto le conseguenze del comportamentismo portato alle sue estreme conseguenze: “Leggete Wiener con attenzione e vi sarà chiaro che con sensori abbastanza potenti, computazione abbastanza potente e feedback dei sensori abbastanza chiari, una Skinner box può essere costruita attorno a un essere umano in stato di veglia senza che questa persona se ne accorga. Wiener conforta il lettore notando che la difficoltà nel creare una macchina computazionale e un network gigante è così alta che il pericolo è soltanto teorico”. Lanier si fa carico di annunciare che la teoria è diventata pratica. Mai sentito parlare di internet?
 
Raccontando l’impressionante sequenza di stranezze che compongono la sua vita (Maureen Dowd ha sentenziato: “E’ la persona più strana che abbia mai incontrato. E di persone strane ne ho incontrate tante”), Lanier non ci rende edotti circa una vita piena di curiosità, ma esemplifica una concezione dell’uomo che è in contrasto con quella che domina l’industria tecnologica. Fra l’infinità di rilievi critici che l’autore muove, due punti sono particolarmente importanti per afferrare quanto sono profonde le radici di questo techlash: la legge di Moore e la natura degli algoritmi. La legge di Moore dice che il numero dei transistor in un circuito integrato cresce esponenzialmente con il passare degli anni, e contemporaneamente il prezzo dei processori diminuisce. La sofisticazione delle macchine aumenta con un ritmo in costante accelerazione, tanto che nel mondo digitale in tempi molto brevi si realizzano cose inimmaginabili per chi concepisce la crescita in ragione aritmetica. In altre parole, la legge di Moore certifica e garantisce l’inevitabilità del progresso cibernetico, “è la teologia dietro l’idea di destino della Silicon Valley”. Lanier parla spesso della Silicon Valley in termini religiosi, ché la valle ha i suoi rituali e la sua escatologia, ma nulla dell’apparato dottrinario della tecnologia è paragonabile per importanza al dogma dell’accelerazione che la legge di Moore esprime. Epperò, sostiene l’autore, “non c’è nulla di inevitabile riguardo alla computer science”, e anzi, la legge che sta sulla sommità della tavola della legge digitale non se la passa tanto bene: “Viene ripetuta di continuo anche se non è più così vera. I computer non possono continuare a diventare più veloci e meno costosi per sempre. Vediamo già un rallentamento, il presagio dell’ultimo sospiro della legge di Moore. Potrebbe essere un po’ come il traumatico momento americano in cui si è capito che non c’era più una frontiera in occidente (“proporzionata all’immaginazione umana”), cosa alla quale il paese ha risposto con una vuota Gilded Age. Non è molto diversa dalla nostra situazione oggi”. Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ha avuto anche l’effetto di convincere gli operatori tecnologici – e di conseguenza il pubblico che li idolatrava – che anche la capacità umana di capire la realtà cresce in modo esponenziale, una specie di derivato della legge di Moore applicato all’intelligenza umana. Nel saggio The Myth of AI Lanier scrive: “Poiché c’è in parte una crescita esponenziale nella nostra capacità di capire, allora possiamo prevedere che presto capiremo tutto. Per questo è folle, perché non sappiamo nemmeno qual è lo scopo. Per quanto l’accelerazione possa sembrare impressionante, anche la realtà è impressionante nei termini delle sfide e degli ostacoli che pone. Non lo sappiamo”. Non lo sappiamo è l’opposto dell’ethos della Silicon Valley, che oscilla fra il sappiamo già e il presto sapremo. Altrove Lanier ha chiamato questa presunzione gnoseologica “riduzione prematura del mistero”, uno stato in cui gli scienziati non sono nemmeno in grado di ammettere ciò che non sanno. La legge di Moore è la suprema risultante di questa concezione, ma questo è il momento in cui si sta facendo largo il sentore che anche il più puro dei dogmi forse è una superstizione.
 
L’algoritmo, strumento onnipresente e invisibile che influenza e determina tutte nostre interazioni digitali, è l’altro grande capo di imputazione in questo fase di inversione della percezione. Anche qui, Lanier tenta di mostrare quanto sia illusoria la rappresentazione dell’algoritmo come strumento matematico neutro, quando invece è latore di una certa idea implicita del mondo, dell’uomo e della storia: “Quando le compagnie disegnano gli algoritmi per suggerirti con chi andare a letto o quale film guardare, si aspettano di avere di fronte una apatica, credulona variante della specie umana. La gente non se ne curerà, continuerà ad andare avanti senza vedere come vengono usati i dati o come funzionano davvero gli algoritmi”. La versione apatica e credulona dell’uomo è quella che si lascia trasportare dai suggerimenti di Netflix: “Il motore delle raccomandazioni di Netflix equivale all’illusione di un mago che ci distrae dal fatto che non tutto è disponibile nel catalogo”, con il conseguente paradosso degli umani che accettano di essere “in qualche modo ciechi” di fronte al fatto che una formula matematica sta guidando le loro scelte “per far sembrare l’algoritmo più intelligente”. Franklin Foer, autore del libro World Without Mind, una requisitoria tagliente contro la Silicon Valley ma scritta dall’esterno, ha descritto così la reale funzione degli algoritmi: “Facebook non lo dirà mai in questo modo, ma gli algoritmi sono fatti per distruggere la libertà, per togliere agli uomini il peso della scelta, per spingerli nella direzione giusta. Gli algoritmi alimentano un senso di onnipotenza, la convinzione fasulla che il nostro comportamento possa essere alterato, senza che nemmeno ci rendiamo conto della mano che ci guida in una direzione superiore”.
 
Nella concezione di Lanier l’uso pervasivo, soffocante di algoritmi che ordinano i flussi informativi toglie necessariamente spazio all’umano in quanto tale, perché “c’è bisogno di spazio attorno alla persona perché una persona sia una persona”, altrimenti non è che un insieme di input e output alla mercé di chi controlla l’algoritmo più sofisticato. Per renderla più chiara anche ai suoi vecchi amici della Silicon Valley l’ha messa sotto forma di equazione, ribattezzata “l’equazione del terrore”: Turing Moore’s Law*(Pavolv, Watson, Skinner) = Zombie Apocalypse.

Internet per giganti

La decisione americana sulla net neutrality è la fine degli spiriti animali della rete
15 Dicembre 2017 alle 22:06

Roma. Sulla net neutrality – il principio di difesa dell’utilità pubblica della rete internet che una commissione federale americana ha cancellato giovedì (la cosa vale solo per gli Stati Uniti, ma potrebbe avere ripercussioni anche da noi) – ci sono due grandi scuole di pensiero, egualmente allarmistiche. Veloce ripasso su cos’è la net neutrality: l’idea in base alla quale la rete internet deve essere considerata come una strada pubblica. Chi difende la net neutrality dice che sulla strada di internet tutti i veicoli hanno diritto di circolare, e che i gestori delle strade (nel nostro caso: i grossi provider come Comcast in America o Telecom in Italia) devono essere obbligati a far viaggiare tutti alla stessa velocità, che si tratti di utilitarie o di enormi tir. Altri dicono che questa parità è svantaggiosa per i gestori, che a forza di far viaggiare tutti non hanno più soldi per sistemare le buche e costruire corsie nuove. Senza net neutrality, i gestori della strada possono decidere di far pagare di più i tir piuttosto che le automobili, o di offrire corsie a scorrimento veloce. Possono perfino decidere di lasciare ferme alcune auto.
Ecco, giovedì la Fcc, la Commissione federale per le comunicazioni americana, ha deciso di adottare questa seconda strategia, eliminare le regole sulla net neutrality che c’erano in precedenza e lasciare ai provider (a chi possiede i tubi, i cavi e in generale tutte le infrastrutture in cui scorre internet) la piena libertà su come gestire la rete. Per i fautori della net neutrality, questa è la fine della rete. Internet nasce come una struttura end-to-end, in cui ogni snodo della rete ha lo stesso peso di tutti gli altri. Se voglio aprire un blog o un business online posso farlo perché con la net neutrality sulla strada di internet tutte le automobili possono viaggiare alla stessa velocità. Senza net neutrality, invece, ci sarà qualcuno ai caselli che può bloccare o rallentare il mio business.
L’ipotesi più nera fatta dai fautori della net neutrality è che la rete diventi come la tv satellitare e via cavo: se adesso paghiamo per avere tutto internet, in un futuro internet potrebbe essere venduto a pacchetti, come Sky Cinema o Sky Sport: vuoi usare Facebook? Compra il pacchetto social a 29 euro. Vuoi fare acquisti su Amazon? Compra il pacchetto ecommerce a 19 euro. Vuoi guardare Netflix? Pacchetto streaming a 29 euro, più altri 4 euro e 99 se vuoi vedere le serie ad alta definizione. E tutti gli altri siti che non sono nei pacchetti? Non si sa, ma questa per ora è soltanto un’ipotesi, e i provider americani (di nuovo: parliamo di Stati Uniti, l’Ue per ora rimane fedele alla net neutrality) hanno detto che non avverrà. Ci sono anche questioni di concorrenza: Comcast, per esempio, potrebbe decidere di far caricare più veloce i video del suo servizio di streaming e di far andare Netflix più lento. Insomma, senza net neutrality, dicono i suoi fautori, internet libero è spacciato perché una nuova serie di guardiani potrà decidere chi entra e chi no, chi ha successo e chi no.
Dall’altra parte della barricata, chi è contrario alla net neutrality, come per esempio il capo della Fcc Ajit Pai e il Wall Street Journal, dice che già adesso internet non è libero e la net neutrality è una panzana. Certo, con la net neutrality chiunque ha diritto a far vedere il proprio sito, ma davvero ha gli strumenti per farlo arrivare al pubblico? No, perché su internet ci sono già potenti guardiani come Google e Facebook che decidono con i loro algoritmi chi entra e chi no, chi ha successo e chi no. E dunque, davanti a questo strapotere monopolistico delle compagnie che detengono il completo controllo sui contenuti (la Silicon Valley), deregolamentare e dare più potere alla compagnie che gestiscono le infrastrutture (i provider della rete) non può far male. La net neutrality serve a difendere Google e Facebook, dicono i suoi detrattori, a difendere i consumatori ci pensa l’antitrust.
Le due posizioni sembrano inconciliabili. Da un lato chi dice che internet è minacciato dai monopoli dei provider (Comcast, AT&T, che in America equivalgono a Telecom e Fastweb), dall’altro chi dice che internet è minacciato dai monopoli dei gestori di contenuti (Facebook, Google e così via).
L’opzione peggiore di tutte
Qui vogliamo assumere una posizione ancora più pessimista: e se fossero giuste entrambe le posizioni? I detrattori della net neutrality hanno ragione quando dicono che internet è già pieno di gatekeeper e monopoli. Ma compiono un errore quando, anziché di cercare di eliminare questi gatekeeper, ne aggiungono altri nella figura dei provider. Da ieri, internet in America è dominato da due forze ugualmente spaventose: grandi aziende che hanno potere assoluto sull’infrastruttura e grandi aziende che hanno potere assoluto sui contenuti. Schiacciati in mezzo ci sono gli utenti (cioè noi), che rischiano di vedere i prezzi salire e la qualità dei contenuti degradarsi. Soprattutto, potrebbe esserci l’innovazione. Ora che internet è un affare per giganti, storie come quella di Facebook, nato per gioco all’università e diventato una superpotenza, sono impossibili. Se una startup innovativa si mostrasse all’orizzonte, sarebbe schiacciata subito dai titani. Forse il fenomeno è fisiologico: è ora che gli spiriti animali di internet si plachino e diventino più istituzionali. Ma l’anarchia di internet ci ha dato così tante cose belle (e folli e pericolose e perverse) che ora è difficile rinunciarvi.

lunedì 15 ottobre 2018

1984

Da vedere  e meditare a fondo.
https://www.raiplay.it/video/2018/10/Presa-Diretta-Iperconnessi-a5d6226e-1fd2-450d-a8e7-ecd622413b20.html

«PresaDiretta», l’attenzione dei pesci
batte quella degli iperconnessi

Lunedì 15 ottobre nella nuova puntata di «PresaDiretta» (Raitre),
Riccardo Iacona affronta l’impatto delle tecnologie sul cervello

Pare che siano sufficienti cinque giorni di connessione in Rete, un’ora al giorno, per modificare i circuiti neurali del cervello umano, aumentando l’attività cerebrale: lo sostiene l’equipe di Gary Small, docente di Psichiatria e scienze comportamentali all’Università della California di Los Angeles. «Le persone — afferma Small — che hanno l’abitudine di cercare qualcosa online hanno un’aumentata attività in alcune aree del cervello. Ma c’è un costo: chi stimola determinati circuiti ne trascura altri. Le nuove tecnologie stanno riformattando i nostri cervelli, anche se in modo non irreversibile».
La puntata intitolata Iperconnessi, che andrà in onda domani in prima serata su Rai3, parte dai dati di base, ad esempio per quanto tempo restiamo «connessi» o quante volte tocchiamo il nostro smartphone in un giorno (più di 2.600 volte), e interroga gli scienziati, nei laboratori e nelle università in Europa e negli Stati Uniti, sulle loro ricerche intorno alle conseguenze
Il risultato è impressionante, visto che molti studi hanno messo in evidenza un’erosione dell’attenzione o l’aumento dello stress, per non parlare dello sviluppo di comportamenti estremi.
«Sarà la prima volta — racconta al “Corriere” l’autore e conduttore di PresaDiretta, Riccardo Iacona — che si arriva con un’intera trasmissione su questo argomento in prima serata. Ho l’impressione che ci sia una grande attenzione sul tema, con un’ampia produzione scientifica: la scienza ci sta avvertendo per tempo».
E continua, a proposito di connessione e iperconnessione: «Si tratta di un motore di cambiamento della realtà, così come la cambierebbe un fenomeno economico. Ma fa pensare il fatto che il 71% delle persone fatichi a leggere un articolo di giornale e che oggi il “tempo di attenzione” sia minore di quello di un pesce rosso (otto secondi; il pesce rosso nove)».
Il calo dell’attenzione, l’eccesso di stimoli, la velocità con cui ci sentiamo costretti a «switchare», cioè passare da un’attività all’altra, non sono però soltanto fenomeni studiati per le loro conseguenze sulla nostra salute: c’è anche, avvertono gli scienziati nell’inchiesta, chi li pilota.
«Si parla tanto di una società estremizzata, che urla, che ha paura — spiega Lisa Iotti, autrice della puntata con la collaborazione di Antonella Bottini e Irene Sicurella — ma la polarizzazione della società è funzionale a un modello di business che attira l’attenzione facendo leva sulle emozioni più forti».
La puntata ha richiesto a Iotti e alle altre autrici alcuni mesi di lavoro in giro per il mondo, per incontrare scienziati, psichiatri, psicologi e specialisti di «addictologia» (l’addiction è la «dipendenza», da droghe o da altro), che raccontano le loro indagini e scoperte. «Noi siamo come pensiamo», ha risposto uno dei luminari delle neuroscienze americane, Michael Merzenich, chiarendo quali sono le modificazioni indotte dall’iperconnessione. Altri, come Nyr Eyal, autore del saggio Hooked, in Italia edito come Creare prodotti e servizi per catturare i clienti (Edizioni LSWR), hanno spiegato come le molte visualizzazioni, i like, la quantità di contatti e il successo di follower siano elementi usati per stimolare meccanismi biologici di gratificazione. Intervengono sul circuito del piacere: e non solo i metodi per manipolare la gratificazione esistono, spiega Eyal nell’inchiesta, ma è possibile addirittura «accendere» una vera e propria dipendenza. C’è chi ne studia gli algoritmi, magari in start up che valgono anche milioni di dollari. «Sono meccanismi di vendita — conclude Iacona — con i quali si può passare poi a vendere ad esempio proposte politiche. Si tratta di un potente moltiplicatore che lavora su meccanismi biologici — e noi ci caschiamo mani e piedi. Quello cui ci troviamo davanti è un cambiamento antropologico universale, che fa di noi questo: un cliente adescabile con parole semplici».
In onda
Lunedì 15 ottobre, alle 21.15 su Raitre andrà in onda il programma PresaDiretta. Lo firmano il giornalista Riccardo Iacona e Maria Cristina De Ritis. La puntata si intitola Iperconnessi ed è firmata da Lisa Iotti con la collaborazione di Antonella Bottini e Irene Sicurella. I temi trattati nell’inchiesta riguardano i rischi dell’uso e dell’abuso delle nuove tecnologie, soprattutto a livello cerebrale, sociale e comporta-mentale. Per realizzarla sono stati intervistati numerosi scienziati e ricercatori in varie università, istituti e aziende in Italia, Europa e Stati Uniti.
13 ottobre 2018 (modifica il 14 ottobre 2018 | 22:01)
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I numeri silenti (e silenziati)





Corriere della Sera
Dataroom, di Milena Gabanelli

Italia: calano i reati, ma più armi in casa
A proposito di fake news: il tema più cavalcato in campagna elettorale dal centrodestra è stato quello della sicurezza, sempre abbinato a quello dell’immigrazione. Dichiarazioni come: «L’Italia è in piena emergenza sicurezza!», oppure: «C’è da aver paura, anche nelle nostre case!», non sono mai state supportate da un dato, ma buona parte degli italiani ci ha creduto. I numeri del 2017, che il Corriere presenta in anteprima, dimostrano esattamente il contrario: rispetto al 2016 gli omicidi sono diminuiti dell’11,2%, le rapine dell’8,7%, i furti del 7%.

Se questi dati, forniti dal Ministero dell’Interno e non ancora consolidati, fossero stati disponibili un mese fa, avrebbero modificato il filo narrativo della propaganda? Forse no, perché quando si mette in moto una psicosi collettiva, nulla riesce più a fermarla. Eppure tutti i partiti sanno che in Italia, la tendenza alla diminuzione dei reati con maggiore allarme sociale si è innescata ben quattro anni fa, ma hanno preferito ignorarla. I numeri sono significativi: al netto del calo della popolazione (0,34%), dal 2014 al 2017 gli omicidi sono scesi del 25,3%, i furti del 20,4% e le rapine del 23,4%. Quindi negli ultimi anni l’Italia è diventata via via più sicura, nonostante l’aumento del numero di immigrati.
Più sicure le strade, meno sicure le mura di casa
Tornando ai numeri, si scopre che a essere meno sicure non sono le strade, ma le mura di casa: delle 355 vittime di omicidi commessi nel 2017, 140 sono donne. A ucciderle è sempre un familiare e, nel 75% dei casi, il partner o l’ex. Il dato purtroppo è stabile negli anni: 155 le vittime nel 2014, 143 nel 2015, 150 nel 2016. Lo dice l’ultimo rapporto sul femminicidio pubblicato dall’Eures, l’Istituto di Ricerche economiche e sociali. Analizzando il rapporto del Viminale, relativo agli anni 2014/2016, nelle Regioni dove c’è stato un aumento di omicidi, la percentuale è quasi completamente assorbita proprio dai delitti commessi in famiglia. Il dato del Trentino per esempio è impressionante: +200%. Se si guardano i numeri, però, si scopre che si è passati da 1 omicidio nel 2014 a 3 del 2016, e i 2 morti in più non sono imputabili a un fatto di ordinaria criminalità (e quindi ad una mancanza di sicurezza), ma ad un padre impazzito che ha ucciso la moglie e il figlio. Lo stesso discorso vale per l’Abruzzo (+50%), per il Veneto (+62%), Friuli Venezia Giulia (+600%): una crescita pressoché attribuibile ai femminicidi.
Italia campionessa europea dei furti
Secondo Eurostat, nei principali Paesi europei, esclusi gli atti di terrorismo, si nota invece una tendenza all’aumento dei reati. Sia nel caso dei furti sia in quello degli omicidi volontari. La società più violenta è quella tedesca con 9,22 omicidi per milione di abitanti nel 2016, mentre l’Italia è imbattibile nei furti, con un indice di 20.163 furti per milione di abitanti. Un indice che tuttavia nel nostro Paese è in costante calo, mentre in Francia, Germania e Spagna è in aumento.
L’aumento delle licenze di porto d’armi
Insomma, le dichiarazioni allarmanti, spesso innescate da un fatto di cronaca, riprese da giornali e tv, alla fine hanno insinuato nella testa di molti italiani la percezione di vivere in un Paese poco sicuro. E come si difendono? Armandosi? La fotografia del Viminale è chiara: un aumento del 41.63% delle richieste di licenze di porto d’armi a uso sportivo negli ultimi 4 anni. Solo nel 2017 le licenze in più, rispetto al 2016, sono state 80.416. Forse non proprio tutti appassionati di tiro al piattello o di tiro a segno, mentre è sicuro che questo tipo di licenza è la più facile da ottenere. In calo del 12,01% invece la licenza per difesa personale, dove la procedura è più complessa e viene concessa solo in casi gravi e comprovati ( di solito a chi esercita professioni a rischio rapina); mentre i numeri relativi alla caccia sono stabili negli anni.
Le Regioni in cui si sono registrate il maggior numero di licenze di porto d’armi sportivo dal 2014 al 2016 (i dati regionali 2017 non sono ancora disponibili) sono: Lombardia +43,1%, Marche +42,4%, Molise +52,6%, Basilicata +46,1%. In molte di queste (Lombardia, Molise, Marche) tutte le attività criminali hanno registrato una flessione.
Meglio una porta blindata di un’arma in casa
Non ci sono dati significativi connessi alla reale utilità di girare armati, e all’analisi dei delitti, perché non esiste un monitoraggio nazionale. L’unico andamento collegato e parallelo è quello relativo agli omicidi commessi tra le mura di casa, a causa della presenza di un’arma. Secondo l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia, nel 2017 ci sono stati 36 casi di omicidio, 19 tentati omicidi, 37 minacce di morte e 37 incidenti legati ad armi legalmente detenute. In conclusione: la sicurezza è un tema sul quale sarebbe bene non barare per scopi politici. Meglio placare la paura dei furti con una porta blindata e l’installazione di sistemi di allarme. Anche questo è un mercato in crescita: dal 2015 il fatturato sta aumentando di 200 milioni di euro l’anno, mentre la diciannovesima edizione della fiera sui sistemi di sicurezza che si tiene ogni anno a Milano, si è chiusa lo scorso novembre con un incremento del 35% dei visitatori e del 40% degli espositori.
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