Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

sabato 30 giugno 2018

Lega Ladrona /1


Dalle mazzette ai diamanti, tutti i guai della Lega Nord
I conti sequestrati sono solo l'ultimo problema in ordine temporale del Carroccio. Che dalla tangente Montedison al crack della CrediEuroNord ha mostrato di essere ladrona non meno di altri partiti
di Susanna Turco
02 ottobre 2017

Dai conti sequestrati di oggi, indietro fino a Tangentopoli. Ecco come, nella Lega, la razza padana s’è mescolata in un quarto di secolo con la Roma ladrona. “Ladroni in casa nostra”, sintetizzava amaro nei primi anni Duemila un cartello delle valli bergamasche. Azzeccato?
«Per amor di Dio sì». Nel gennaio 1994, interrogato dall’allora pm Antonio Di Pietro, il capo della Lega Umberto Bossi risponde così alle domande sui duecento milioni incassati dal tesoriere Alessandro Patelli come contributo alla campagna elettorale, provenienti dalla Montedison attraverso l’amministratore delegato Carlo Sama e, materialmente, Marcello Portesi. Patelli stesso l’aveva ammesso un mese prima, davanti ai militanti ad Assago, dandosi del pirla: «Ingenuità, stupidità, o pirlaggine: chiamatela come volete.». Ingenui, sempre. Stessa versione di Bossi davanti a Di Pietro: «Eravamo senza soldi, senza finanziamenti. Per amor di Dio». «Per amor di Dio si o per amor di Dio no?», domanda il magistrato. «Per amor di Dio sì», risponde Bossi.
“Sono socio fondatore della CrediEuronord, e tu?”. Ecco lo slogan, con tanto di faccione di Bossi, nel manifesto che alla fine degli anni Novanta lancia la Popolare CrediEuronord, la banca padana per i padani. L’impresa scricchiola nel 2003, nel 2004 vien comprata da Giampiero Fiorani. Il quale, dalla galera, chiarirà poi di aver tentato il salvataggio affinché i leghisti cambiassero idea su Bankitalia e Antonio Fazio (sperava di ottenerne favori). Nel flop vengono coinvolti 3.500 soci, la banca dilapida venti milioni di euro in quattro anni. La sentenza assolve però i dirigenti leghisti coinvolti. La Lega si dichiara vittima del crac. E per anni lancia sottoscrizioni per risarcire i militanti.
Villaggi turistici. Tra i disastri finanziari negli anni Novanta a opera del tesoriere Maurizio Balocchi da Genova, il fallito tentativo di costruire un villaggio turistico nell’Istria croata: 14 ettari, 180 appartamenti, albergo, piscina, centro benessere, golf , porticciolo. Cento militanti padani sottoscrivono le azioni della Ceit srl, che doveva realizzare il tutto. Finisce in un crack spettacolare e seguente inchiesta per bancarotta fraudolenta. Catastrofe pure il successivo tentativo di buttarsi nel business delle sale da gioco, con la Bingo.net: per risarcire il danno, Balocchi dovrà vendere due case di proprietà.
The family. L’impareggiabile cartellina “The family” spuntata nel 2013 dalla cassaforte del tesoriere leghista alla Camera, che contiene la lista delle spese dalla famiglia Bossi, tra cui: quasi diecimila euro per l’operazione di rinoplastica del figlio Sirio, le multe di Renzo, la ristrutturazione della casa di Gemonio, la laurea albanese in gestione aziendale del Trota.
Parte lesa. Il tesoriere genovese Franco Belsito, allievo di Balocchi, alla vigilia di Capodanno 2012 fa partire da Genova il bonifico da 4,5 milioni di euro, destinati a finire in un fondo in Tanzania, svelando il giro di mega prelievi, operazioni offshore, movimenti di assegni, vorticosi giri tra Africa e Cipro, milioni di corone norvegesi e pacchi di dollari australiani. Si darà così il via al processo che ancora oggi dà filo da torcere al Carroccio. Nel quale il segretario Matteo Salvini spiega essere la Lega, ancora una volta, “parte lesa”.
Undici diamanti. Belsito ormai ex tesoriere, riconsegna alla Lega undici diamanti e dieci lingotti, facendoli trasportare da Genova a Milano nel bagagliaio della A6 prima a disposizione di Renzo Bossi. L’autista, il collaboratore leghista Paolo Cesati, arriva a via Bellerio e consegna l’automobile, direttamente.

domenica 10 giugno 2018

Vergogna


Hanno fucilato un “negro”. Beh, son cose che succedono…

di Piero Sansonetti 

Il Dubbio 

5 giugno 2018

Il silenzio dei mezzi di informazione sull’uccisione di Soumayla Sacko, sindacalista e straniero
Il 22 giugno del 1964, in Mississippi, furono assassinati tre attivisti che lottavano per i diritti dei neri. Si chiamavano James Earl Chaney, Andrew Goodman e Michael Schwerner. Il primo era afroamericano, gli altri due erano bianchi. Successe l’iradiddio. Prime pagine sui giornali, per settimane, intervenne il ministro delle giustizia e anche il Presidente. L’orrore del Mississippi affrettò l’approvazione di una legge storica per gli Stati Uniti: il civil right act. Era una legge contro le discriminazioni razziali.
L’America, nel ‘ 64, specie negli Stati del Sud, era fortissimamente razzista.
Il 25 agosto del 1989 a Villa Literno, provincia di Caserta, fu ucciso un sindacalista nero, che difendeva i braccianti sfruttati dai latifondisti e dai caporali. Si chiamava Jerry Masslo. Anche in quella occasione ci furono le prime pagine per molti giorni. E i funerali di Stato, decisi dal governo Andreotti.
Domenica nelle campagne tra Vibo Valentia e Rosarno hanno fucilato un sindacalista nero, del Mali, che si batteva per i diritti dei suoi fratelli africani, chiusi in un campo profughi indecente e portati a lavorare, tutte le mattine alle cinque, a raccogliere pomodori e frutta per un paio di euro all’ora. In condizioni di schiavitù.
Ieri la notizia, per quel che ho visto io, era in prima pagina solo su due giornali nazionali: Il Fatto Quotidiano e Repubblica. Su tutti e due i giornali in fondo alla pagina, senza gran rilievo. Però, almeno, c’era. Sugli altri giornali, zero. In Italia fucilare un negro – ci metto anche la “g” apposta, per farmi capire da tutti e per stare nel linguaggio corrente – non è una cosa particolarmente efferata o clamorosa. Può succedere.
Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, eletto proprio a Rosarno, non ha battuto ciglio. E’ impegnato in campagna elettorale. Continua a dire che in Italia gli immigrati clandestini “stanno una pacchia”. Non ha pensato di dover fare una visita a Rosarno.
Il ministro del lavoro, Luigi di Maio, neanche lui ha pensato che un ministro del lavoro deve sentirsi chiamato in causa se uccidono un lavoratore. E specialmente se uccidono un sindacalista. E poi, si sa, i Cinque stelle ci tengono molto alla legalità, dicono sempre così. ma forse stavolta hanno creduto che Soumaya Sacko stesse rubando delle vecchie lamiere rugginose, e allora la colpa è sua, il reato è suo. L’omicidio, poi, è uno spiacevole effetto collaterale. In realtà Sacko non stava rubando: ma questo Di Maio non poteva saperlo…
Enrico Mentana, direttore del telegiornale della 7, è stato tra i pochi giornalisti a rimaner colpito dalla barbarie di Rosarno. Ha scritto un post nel quale si lamentava del silenzio del governo. Lo hanno sommerso di insulti. Forse dobbiamo abituarci.
SALVINI: CHE PACCHIA!
Del resto, né i giornali, né, mi pare, i politici italiani si erano molto indignati neanche il giorno prima, quando il ministro dell’Interno ha detto che per i rifugiati in Italia, e per i clandestini, sta per finire la pacchia. La pacchia? Davvero qualcuno, in buona fede, crede che chi ha lasciato la sua famiglia, la casa, gli amici, il lavoro, ha attraversato i deserti, ha superato le angherie delle polizie, ha attraversato il mare con ottime probabilità di lasciarci la pelle, e ora giace in un campo profughi o lavora di nascosto nei campi della Calabria o della Puglia, schiavizzato dai padroni, davvero qualcuno pensa che per queste persone la vita sia una pacchia? O invece dobbiamo adeguarci all’idea che i leader politici hanno il diritto e il dovere di battere ogni record di cinismo per raccattare un po’ di voti?
Del resto, torno per l’ennesima volta sulla questione dei giornali, se in questo paese non esiste una stampa capace di svolgere la sua funzione critica, anche i politici si sentono protetti. E in questi giorni di insediamento dei nuovi padroni, mi pare che la mansuetudine dei giornalisti italiani stia raggiungendo livelli imprevisti. Ve lo immaginate cosa sarebbe successo sui giornali degli Stati Uniti se un ministro dell’interno avesse osato dire che per i clandestini la vita è una pacchia? Il povero Trump, per molto meno, l’hanno fatto a fette.
LO STATO SIAMO NOI.
Non possiamo sapere se il ministro del lavoro, quando ha gridato “lo stato siamo noi”, sapesse di parafrasare il celebre detto del Re Sole ( Luigi XIV, Francia, fine del seicento inizio del settecento). Né se sapesse che quel detto è considerato una specie di epigrafe dello Stato assoluto, totalitario. In contrapposizione con la democrazia e la repubblica. Probabilmente Di Maio non lo sapeva, e non è colpa di nessuno se la sua cultura politica non è esageratamente alta. Uno magari, anche con una cultura politica modesta, può essere un ottimo ministro del lavoro. Però anche qui c’è da restare sbigottiti per l’indulgenza della stampa. Al governo precedente facevano le bucce per qualunque piccola gaffe. Possibile che il vicepresidente del Consiglio possa gridare orgoglioso di essersi impadronito dello Stato? Una volta, una decina abbondante di anni fa, Buffon, allora giovane portiere della Juve, si mise una maglietta con scritto “boia chi molla”. Cioè lo slogan della rivolta di Reggio Calabria del 1970. Scoppiò il finimondo. Lui si difese: «Non sapevo…». Povero ragazzo, aveva poco più di 20 anni e non faceva mica parte del governo! Eppure… Scandalo, scandalo, scandalo. Per Di Maio niente scandalo. Un sorrisetto e via.
BARBANO, VATTENE A CASA.
Nell’indifferenza generale – che ormai è diventata una caratteristica fissa del nostro giornalismo – è stato licenziato il direttore del “Mattino” Alessandro Barbano. Il Mattino è un quotidiano che ha un posto molto importante nella storia del giornalismo italiano. E’ il primo grande quotidiano del Sud, lo fondò la mitica Matilde Serao nel 1892.
Perché hanno mandato via Barbano, che da qualche anno stava facendo un gran giornale, quasi unico per la sua vivacità culturale nel panorama dei quotidiani italiani? Barbano aveva stimolato la redazione e radunato un gruppo di editorialisti di grande livello. Colti e soprattutto indipendenti e anticonformisti. Barbano era, a occhio, l’unico direttore di un importante giornale nazionale ad essere pienamente e coerentemente garantista. Aveva svolto molte battaglie garantiste e meridionaliste. E naturalmente non poteva essere felice di un governo penta- leghista, che mette insieme l’antimeridionalismo della Lega e il giustizialismo dei 5 Stelle.
Lo hanno licenziato per questo. L’editore – che è un imprenditore che non si occupa molto di informazione ma di edilizia e di varie altre attività industriali e finanziarie – ha bisogno di buoni rapporti con il governo, e non si può permettere Barbano. E’ un suo diritto. Ma per il giornalismo è una sconfitta.
Il sindacato si è mosso? Pare di no. Eppure tante volte, in passato, si mosse, specie durante l’era Berlusconi. Mi ricordo che ci chiamò tutti a piazza del Popolo per protestare contro la Rai che non aveva ancora fatto il contratto a Marco Travaglio, il quale era nella squadra di Michele Santoro. Giusto, aveva ragione il sindacato a protestare, perché era legittimo il sospetto che la Rai non facesse il contratto a Travaglio per non fare un dispetto a Berlusconi, al quale, sicuramente, Travaglio stava sulle palle. E Barbano? Se stai sulle palle a Di Maio non è un problema?
Il problema sta nel fatto che la perdita di Barbano è un colpo serissimo allo schieramento, piccolo piccolo, dell’informazione liberale. Facciamo finta di niente? Come quando Starace, nel 1925, pretese la testa dei fratelli Albertini ( editore e direttore del Corriere della Sera) e la ottenne dalla famiglia Crespi?



La pacchia è finita. Sacko, 29 anni, fucilato nella Piana degli invisibili

di Alessia Manzi
5 giugno 2018
Come vivono e lavorano i braccianti della Piana di Gioia Tauro? Una ricostruzione del contesto dell’esecuzione a sangue freddo di Sacko Soumaila, 29 anni
Due, tre, quattro colpi di arma da fuoco squarciano il silenzio in cui è avvolta la campagna di San Calogero, vicino Vibo Valentia. A poca distanza dalla Statale18, che scorre veloce fra gli agrumeti della Piana di Gioia Tauro, c’è la vecchia fornace di contrada Tranquilla. Lo scorso sabato sera tre giovani africani, a piedi, arrivano qui dalla loro “casa”- il ghetto di San Ferdinando- in cerca di alcune lamiere per costruire una baracca. Dopo l’incendio dello scorso gennaio, quando a perdere la vita nel rogo fu una ragazza nigeriana di 26 anni, Becky Moses, si cerca di evitare la plastica.
Due, tre, quattro spari vengono esplosi da un uomo bianco a bordo di una fiat panda. Uno dei tre resta illeso e scappa a dare l’allarme non appena vede il suo amico ferito e il terzo steso a terra. Immobile. È Sacko Soumaila, 29 anni. Colpito alla testa da una delle fucilate, morirà all’ospedale di Reggio Calabria qualche ora più tardi. L’assassino, forse appostato a fare da guardiano a un’area posta sotto sequestro su cui tempo fa vennero rivenute diverse tonnellate di rifiuti tossici (qui la ricostruzione della vicenda), sparisce.
In Mali, il suo Paese di origine, Soumaila lascia la compagna e una bimba di 5 anni. «Soumaila Sacko era un militante dell’USB ed era un bracciante agricolo della Piana di Rosarno/Gioia Tauro» – si legge nel comunicato diffuso dall’associazione SoS Rosarno, da sempre al fianco dei migranti della Piana – «terra delle buonissime clementine I.G.P. di Calabria, fiore all’occhiello del nostro Made in Italy, che il nuovo governo, al pari di quelli che lo hanno preceduto, preannuncia di voler difendere e a cui noi, invece, chiediamo esplicitamente di impedire che continui a essere macchiato con il sangue delle migliaia di braccianti che raccolgono la frutta. Sicuramente, per Sacko è finita la “pacchia” di cui parla il neo- Ministro all’Interno Salvini. La pacchia di vivere in una baraccopoli».
Sacko non era un ladro. Una lamiera non vale una vita e, forse, se il suo colore della pelle non fosse stato nero, chi ha sparato lo avrebbe fatto puntando il fucile in aria. «Soumaila è l’ennesima tragedia annunciata, vittima di politiche che trasudano razzismo e discriminazione verso i migranti e che hanno sdoganato le pulsioni più violente e bestiali dell’essere umano. Politiche che non sono di oggi, né di ieri, ma affondano le loro radici indietro nel tempo, con le varie leggi Turco- Napolitiano e Bossi- Fini. Politiche di cui sono responsabili anche quelli che oggi si stracciano le vesti e accusano di razzismo i nuovi arrivati, a cui invece hanno preparato quel terreno fertile nel quale oggi sguazzano», si legge ancora nel documento che ha convocato la manifestazione che ieri, davanti al comune di San Ferdinando, ha portato in piazza centinaia di migranti. “Verità e giustizia” per un fratello ammazzato e una soluzione abitativa dignitosa per le 4mila persone impegnate ogni anno nella raccolta degli agrumi, di olive e dei kiwi su tutto il territorio della Piana.
Qual è la “pacchia” di un migrante? Mentre il giovane maliano andava incontro alla morte, il nuovo Ministro dell’interno Matteo Salvini dichiarava di voler “tagliare” i fondi per l’accoglienza e l’integrazione. In un altro video circolato negli ultimi giorni e girato a Catanzaro, dove la Lega Nord alle ultime elezioni ha ottenuto il 6% delle preferenze e due seggi (il 13,81% Salvini lo ha avuto solo a Rosarno), il Ministro definiva Mimmo Lucano, sindaco di Riace, “uno zero”. Lo “zero”, però, la nullità, è il feroce attacco sferrato al modello Riace e a tutte le realtà impegnate a costruire un’Italia, una Calabria solidale, diversa. “Zero”, purtroppo, è chi ignora le pessime condizioni di vita e di lavoro a cui i braccianti sono costretti nelle nostre campagne e, a fini propagandistici, ha trasformato i migranti in un “capro espiatorio” per i problemi economici e sociali che da anni attanagliano lo Stivale. Da Nord a Sud.

Nella Piana degli invisibili

Dopo la rivolta di Rosarno del 2010 la Regione Calabria, insieme ad altri enti e istituzioni, ha costruito una “tendoopoli” nell’area industriale di San Ferdinando, a qualche chilometro da Rosarno. «È una situazione transitoria», dichiareranno più volte i vari prefetti, sindaci e Presidenti della Regione intervistati. A distanza di quattro anni dall’impianto delle prime tende, il ghetto si è disfatto e riformato per ben quattro volte.
Durante la stagione delle arance, qui dentro vivono almeno 2.500 persone, mentre altri braccianti risiedono in casolari, spesso fatiscenti, abbandonati intorno alle campagne di Taurianova e Gioia Tauro. Nella baraccopoli ci sono dei bazar e una moschea. Non esiste la corrente elettrica e non c’è acqua. Con alcuni generatori si cerca di avere l’elettricità e l’acqua, presa dall’esterno, viene conservata dentro i silos. Durante le fredde giornate invernali, specie nelle ore notturne, i migranti cercano di scaldarsi usando dei bracieri. Capita, però, come oltre ai corti circuiti, le braci possano essere dimenticate e così quei ripari in legno e plastica prendano fuoco.
Come è accaduto lo scorso 26 gennaio, quando da una delle tende del “lato dei Nigeriani” è divampato un rogo che ha distrutto mezzo ghetto. Una ragazza è deceduta e solo la scorsa settimana, quello “zero” di Mimmo Lucano ha reso possibile il funerale e il rimpatrio in Nigeria. Per gli altri sopravvissuti senza un tetto, invece, sempre in “stile emergenziale”, la Protezione Civile ha montato una cinquantina di tende fra la baraccopoli e il perimetro su cui dal mese di agosto del 2017 è stata attivata la nuova tendopoli. 550 tendoni video-sorvegliati e in cui è possibile accedere solo tramite badge, con un orario di entrata e di uscita. Sebbene all’interno del nuovo campo non ci sia spazzatura e siano presenti i servizi igienici, la luce e l’acqua, non è sicuramente un “sistema di accoglienza” dignitoso. E resta soprattutto una domanda aperta. Quando i fondi per la gestione della tendopoli finiranno, sarà la volta dell’ennesimo ghetto? Che fine faranno i migranti e le migranti che attualmente vi risiedono? Nel mese di febbraio del 2016 associazioni, enti e istituzioni siglarono un Protocollo in cui la tendopoli veniva indicata come “soluzione temporanea” (l’ennesima) a cui poi sarebbe dovuto seguire un “piano casa”. A distanza di due anni, non c’è traccia di alcun progetto di accoglienza diffusa (eccetto l’esperienza di Drosi, nata nel comune di Rizziconi otto anni fa).
Non è sicuramente questo l’hotel a 5 stelle di cui parlano i razzisti di casa nostra. Il ghetto e la nuova tendopoli, insieme alle altre decine di insediamenti informali sparsi nelle zone limitrofe a Gioia Tauro e Rosarno, si collocano in punti molto distanti dai centri abitati. Luoghi da raggiungere percorrendo strade dissestate e non illuminate, attraversate giorno e notte dai braccianti che raggiungono i campi in sella a bici senza luci o a piedi. A otto anni dalle giornate di protesta che infuocarono quel mese di gennaio del 2010, quasi nulla è cambiato. C’è ancora chi gioca al tiro al bersaglio investendo con le auto i migranti o prendendoli a bastonate. E, soprattutto, in mezzo agli alberi di arance e mandarini si continua a essere sfruttati.

La pacchia di un bracciante africano

Secondo l’ultimo rapporto di Medu (Medici per i Diritti Umani), associazione presente sul territorio calabrese con il progetto “Terragiusta”, la paga di un bracciante può essere a cottimo o a giornata. Nel primo caso, un migrante non guadagna più di tre euro all’ora: la cassetta di mandarini viene pagata un euro; quella di arance 0,50 centesimi. Nella seconda ipotesi, invece, il guadagno giornaliero ammonta sui 25 euro o poco più. Nei campi si lavora dalle 7 del mattino alle 4 del pomeriggio: 9 ore. L’orario di lavoro previsto dalla CCNL Operai Agricoli e Florovivaisti, invece, è stabilito a 6 ore e mezza al dì. Nonostante il 92,65% dei lavoratori sia titolare di un regolare permesso di soggiorno (il 45% ha un permesso per motivi umanitari e il restante 41,4% è richiedente asilo), meno di 3 persone su 10 lavorano con un contratto (27,82%).
Circa l’88,24% non vede dichiarate dal datore di lavoro tutte le giornate lavorative effettivamente svolte. Oltre il 63% dei braccianti non conosce la possibilità di ottenere una disoccupazione agricola, percepita solo dall’1,23% delle persone intervistate da Medu. Il Commissario straordinario Polichetti ha fornito dei dati che evidenziano in modo chiaro il fenomeno dello sfruttamento lavorativo, facilitato dall’emarginazione sociale a cui i migranti sono costretti vivendo nei ghetti. Ossia: su 21 mila contratti di lavoro stipulati nel 2017, solo 5mila risultano essere stati rilasciati a lavoratori stranieri. Eppure, in mezzo agli aranceti si vedono solo delle braccia nere raccogliere i frutti dai rami.
A questo drammatico quadro, poi, si aggiungono le difficoltà legate all’assistenza sanitaria e agli ostacoli da superare per ottenere i documenti necessari per vivere serenamente sul territorio italiano e piantati dalla complicata burocrazia italiana ed europea.
Trattare la “questione migranti” come un’emergenza significa impedire a questi lavoratori di poter vivere in una casa, significa produrre il clima sociale in cui rischiano continuamente la propria vita, significa rappresentarli come soggetti pericolosi per emarginarli e sfruttarli meglio. In questa situazione, epidosi terribili come quello dell’atro giorno non smetteranno di ripetersi. Quanti Sacko e Becky dovremo ancora veder morire?