Hanno fucilato un “negro”. Beh, son cose che succedono…
di Piero Sansonetti
Il Dubbio
5 giugno 2018
Il silenzio dei mezzi di informazione sull’uccisione di Soumayla Sacko,
sindacalista e straniero
Il 22 giugno del 1964, in Mississippi, furono assassinati tre attivisti che
lottavano per i diritti dei neri. Si chiamavano James Earl Chaney, Andrew
Goodman e Michael Schwerner. Il primo era afroamericano, gli altri due erano
bianchi. Successe l’iradiddio. Prime pagine sui giornali, per settimane,
intervenne il ministro delle giustizia e anche il Presidente. L’orrore del
Mississippi affrettò l’approvazione di una legge storica per gli Stati Uniti:
il civil right act. Era una legge contro le discriminazioni razziali.
L’America, nel ‘ 64, specie negli Stati del Sud, era fortissimamente
razzista.
Il 25 agosto del 1989 a Villa Literno, provincia di Caserta, fu ucciso un
sindacalista nero, che difendeva i braccianti sfruttati dai latifondisti e dai
caporali. Si chiamava Jerry Masslo. Anche in quella occasione ci furono le
prime pagine per molti giorni. E i funerali di Stato, decisi dal governo
Andreotti.
Domenica nelle campagne tra Vibo Valentia e Rosarno hanno fucilato un
sindacalista nero, del Mali, che si batteva per i diritti dei suoi fratelli
africani, chiusi in un campo profughi indecente e portati a lavorare, tutte le
mattine alle cinque, a raccogliere pomodori e frutta per un paio di euro
all’ora. In condizioni di schiavitù.
Ieri la notizia, per quel che ho visto io, era in prima pagina solo su due
giornali nazionali: Il Fatto Quotidiano e Repubblica. Su tutti e due i giornali
in fondo alla pagina, senza gran rilievo. Però, almeno, c’era. Sugli altri
giornali, zero. In Italia fucilare un negro – ci metto anche la “g” apposta,
per farmi capire da tutti e per stare nel linguaggio corrente – non è una cosa
particolarmente efferata o clamorosa. Può succedere.
Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, eletto proprio a Rosarno, non ha
battuto ciglio. E’ impegnato in campagna elettorale. Continua a dire che in
Italia gli immigrati clandestini “stanno una pacchia”. Non ha pensato di dover
fare una visita a Rosarno.
Il ministro del lavoro, Luigi di Maio, neanche lui ha pensato che un
ministro del lavoro deve sentirsi chiamato in causa se uccidono un lavoratore.
E specialmente se uccidono un sindacalista. E poi, si sa, i Cinque stelle ci
tengono molto alla legalità, dicono sempre così. ma forse stavolta hanno
creduto che Soumaya Sacko stesse rubando delle vecchie lamiere rugginose, e
allora la colpa è sua, il reato è suo. L’omicidio, poi, è uno spiacevole
effetto collaterale. In realtà Sacko non stava rubando: ma questo Di Maio non
poteva saperlo…
Enrico Mentana, direttore del telegiornale della 7, è stato tra i pochi giornalisti
a rimaner colpito dalla barbarie di Rosarno. Ha scritto un post nel quale si
lamentava del silenzio del governo. Lo hanno sommerso di insulti. Forse
dobbiamo abituarci.
SALVINI: CHE PACCHIA!
Del resto, né i giornali, né, mi pare, i politici italiani si erano molto
indignati neanche il giorno prima, quando il ministro dell’Interno ha detto che
per i rifugiati in Italia, e per i clandestini, sta per finire la pacchia. La
pacchia? Davvero qualcuno, in buona fede, crede che chi ha lasciato la sua famiglia,
la casa, gli amici, il lavoro, ha attraversato i deserti, ha superato le
angherie delle polizie, ha attraversato il mare con ottime probabilità di
lasciarci la pelle, e ora giace in un campo profughi o lavora di nascosto nei
campi della Calabria o della Puglia, schiavizzato dai padroni, davvero qualcuno
pensa che per queste persone la vita sia una pacchia? O invece dobbiamo
adeguarci all’idea che i leader politici hanno il diritto e il dovere di
battere ogni record di cinismo per raccattare un po’ di voti?
Del resto, torno per l’ennesima volta sulla questione dei giornali, se in
questo paese non esiste una stampa capace di svolgere la sua funzione critica,
anche i politici si sentono protetti. E in questi giorni di insediamento dei
nuovi padroni, mi pare che la mansuetudine dei giornalisti italiani stia
raggiungendo livelli imprevisti. Ve lo immaginate cosa sarebbe successo sui
giornali degli Stati Uniti se un ministro dell’interno avesse osato dire che
per i clandestini la vita è una pacchia? Il povero Trump, per molto meno,
l’hanno fatto a fette.
LO STATO SIAMO NOI.
Non possiamo sapere se il ministro del lavoro, quando ha gridato “lo stato
siamo noi”, sapesse di parafrasare il celebre detto del Re Sole ( Luigi XIV,
Francia, fine del seicento inizio del settecento). Né se sapesse che quel detto
è considerato una specie di epigrafe dello Stato assoluto, totalitario. In
contrapposizione con la democrazia e la repubblica. Probabilmente Di Maio non
lo sapeva, e non è colpa di nessuno se la sua cultura politica non è
esageratamente alta. Uno magari, anche con una cultura politica modesta, può
essere un ottimo ministro del lavoro. Però anche qui c’è da restare sbigottiti
per l’indulgenza della stampa. Al governo precedente facevano le bucce per
qualunque piccola gaffe. Possibile che il vicepresidente del Consiglio possa
gridare orgoglioso di essersi impadronito dello Stato? Una volta, una decina
abbondante di anni fa, Buffon, allora giovane portiere della Juve, si mise una
maglietta con scritto “boia chi molla”. Cioè lo slogan della rivolta di Reggio
Calabria del 1970. Scoppiò il finimondo. Lui si difese: «Non sapevo…». Povero
ragazzo, aveva poco più di 20 anni e non faceva mica parte del governo! Eppure…
Scandalo, scandalo, scandalo. Per Di Maio niente scandalo. Un sorrisetto e via.
BARBANO, VATTENE A CASA.
Nell’indifferenza generale – che ormai è diventata una caratteristica fissa
del nostro giornalismo – è stato licenziato il direttore del “Mattino”
Alessandro Barbano. Il Mattino è un quotidiano che ha un posto molto importante
nella storia del giornalismo italiano. E’ il primo grande quotidiano del Sud,
lo fondò la mitica Matilde Serao nel 1892.
Perché hanno mandato via Barbano, che da qualche anno stava facendo un gran
giornale, quasi unico per la sua vivacità culturale nel panorama dei quotidiani
italiani? Barbano aveva stimolato la redazione e radunato un gruppo di
editorialisti di grande livello. Colti e soprattutto indipendenti e
anticonformisti. Barbano era, a occhio, l’unico direttore di un importante giornale
nazionale ad essere pienamente e coerentemente garantista. Aveva svolto molte
battaglie garantiste e meridionaliste. E naturalmente non poteva essere felice
di un governo penta- leghista, che mette insieme l’antimeridionalismo della
Lega e il giustizialismo dei 5 Stelle.
Lo hanno licenziato per questo. L’editore – che è un imprenditore che non si
occupa molto di informazione ma di edilizia e di varie altre attività
industriali e finanziarie – ha bisogno di buoni rapporti con il governo, e non
si può permettere Barbano. E’ un suo diritto. Ma per il giornalismo è una
sconfitta.
Il sindacato si è mosso? Pare di no. Eppure tante volte, in passato, si
mosse, specie durante l’era Berlusconi. Mi ricordo che ci chiamò tutti a piazza
del Popolo per protestare contro la Rai che non aveva ancora fatto il contratto
a Marco Travaglio, il quale era nella squadra di Michele Santoro. Giusto, aveva
ragione il sindacato a protestare, perché era legittimo il sospetto che la Rai
non facesse il contratto a Travaglio per non fare un dispetto a Berlusconi, al
quale, sicuramente, Travaglio stava sulle palle. E Barbano? Se stai sulle palle
a Di Maio non è un problema?
Il problema sta nel fatto che la perdita di Barbano è un colpo serissimo
allo schieramento, piccolo piccolo, dell’informazione liberale. Facciamo finta
di niente? Come quando Starace, nel 1925, pretese la testa dei fratelli
Albertini ( editore e direttore del Corriere della Sera) e la ottenne dalla
famiglia Crespi?
La pacchia è finita. Sacko, 29 anni, fucilato nella Piana degli invisibili
di Alessia Manzi
5 giugno 2018
Come vivono e lavorano i braccianti della Piana di Gioia Tauro? Una
ricostruzione del contesto dell’esecuzione a sangue freddo di Sacko Soumaila,
29 anni
Due, tre, quattro
colpi di arma
da fuoco squarciano il silenzio in cui è avvolta la campagna di San
Calogero, vicino Vibo Valentia. A poca distanza dalla Statale18, che scorre
veloce fra gli agrumeti della
Piana di Gioia Tauro, c’è la
vecchia fornace di contrada Tranquilla. Lo scorso sabato sera tre giovani
africani, a piedi, arrivano qui dalla loro “casa”- il ghetto di San Ferdinando-
in cerca di alcune lamiere per costruire una baracca. Dopo l’incendio dello
scorso gennaio, quando a perdere la vita nel rogo fu una ragazza nigeriana di
26 anni, Becky Moses, si cerca di evitare la plastica.
Due, tre, quattro spari vengono esplosi da un uomo bianco a bordo di una
fiat panda. Uno dei tre resta illeso e scappa a dare l’allarme non appena vede
il suo amico ferito e il terzo steso a terra. Immobile. È
Sacko
Soumaila, 29 anni. Colpito alla testa da una delle fucilate, morirà
all’ospedale di Reggio Calabria qualche ora più tardi. L’assassino, forse
appostato a fare da guardiano a un’area posta sotto sequestro su cui tempo fa
vennero rivenute diverse tonnellate di rifiuti tossici
(qui la ricostruzione della vicenda), sparisce.
In Mali, il suo Paese di origine, Soumaila lascia la compagna e una bimba di
5 anni. «Soumaila Sacko era un
militante dell’USB ed era un
bracciante agricolo della Piana di Rosarno/Gioia Tauro» – si legge nel comunicato
diffuso dall’associazione SoS Rosarno, da sempre al fianco dei migranti della
Piana – «terra delle buonissime clementine I.G.P. di Calabria, fiore
all’occhiello del nostro Made in Italy, che il nuovo governo, al pari di quelli
che lo hanno preceduto, preannuncia di voler difendere e a cui noi, invece,
chiediamo esplicitamente di impedire che continui a essere macchiato con il
sangue delle migliaia di braccianti che raccolgono la frutta. Sicuramente, per
Sacko è finita la “pacchia” di cui parla il neo- Ministro all’Interno Salvini.
La pacchia di vivere in una baraccopoli».
Sacko non era un ladro. Una lamiera non vale una vita e, forse, se il suo
colore della pelle non fosse stato nero, chi ha sparato lo avrebbe fatto
puntando il fucile in aria. «Soumaila è l’ennesima tragedia annunciata, vittima
di politiche che trasudano razzismo e discriminazione verso i migranti e che
hanno sdoganato le pulsioni più violente e bestiali dell’essere umano.
Politiche che non sono di oggi, né di ieri, ma
affondano le loro radici
indietro nel tempo, con le varie leggi Turco- Napolitiano e Bossi-
Fini. Politiche di cui sono responsabili anche quelli che oggi si stracciano le
vesti e accusano di razzismo i nuovi arrivati, a cui invece hanno preparato
quel terreno fertile nel quale oggi sguazzano», si legge ancora nel documento
che ha convocato la manifestazione che ieri, davanti al comune di San
Ferdinando, ha portato in piazza centinaia di migranti. “Verità e giustizia”
per un fratello ammazzato e una soluzione abitativa dignitosa per le 4mila
persone impegnate ogni anno nella raccolta degli agrumi, di olive e dei kiwi su
tutto il territorio della Piana.
Qual è la “pacchia” di un migrante? Mentre il giovane maliano andava
incontro alla morte, il nuovo Ministro dell’interno
Matteo Salvini
dichiarava di voler “tagliare” i fondi per l’accoglienza e l’integrazione. In
un altro video circolato negli ultimi giorni e girato a Catanzaro, dove la Lega
Nord alle ultime elezioni ha ottenuto il 6% delle preferenze e due seggi (il 13,81%
Salvini lo ha avuto solo a Rosarno), il Ministro definiva Mimmo Lucano, sindaco
di Riace, “uno zero”. Lo “zero”, però, la nullità, è il feroce attacco sferrato
al modello Riace e a tutte le realtà impegnate a costruire un’Italia, una
Calabria solidale, diversa. “Zero”, purtroppo, è chi ignora le pessime
condizioni di vita e di lavoro a cui i braccianti sono costretti nelle nostre
campagne e, a fini propagandistici, ha trasformato i migranti in un “capro
espiatorio” per i problemi economici e sociali che da anni attanagliano lo
Stivale. Da Nord a Sud.
Nella Piana degli invisibili
Dopo la
rivolta di Rosarno del 2010 la Regione Calabria,
insieme ad altri enti e istituzioni, ha costruito una “tendoopoli” nell’area
industriale di San Ferdinando, a qualche chilometro da Rosarno. «È una
situazione transitoria», dichiareranno più volte i vari prefetti, sindaci e
Presidenti della Regione intervistati. A distanza di quattro anni dall’impianto
delle prime tende, il ghetto si è disfatto e riformato per ben quattro volte.
Durante la stagione delle arance, qui dentro vivono almeno 2.500 persone,
mentre altri braccianti risiedono in casolari, spesso fatiscenti, abbandonati
intorno alle campagne di
Taurianova e
Gioia Tauro.
Nella baraccopoli ci sono dei bazar e una moschea. Non esiste la corrente
elettrica e non c’è acqua. Con alcuni generatori si cerca di avere
l’elettricità e l’acqua, presa dall’esterno, viene conservata dentro i silos.
Durante le fredde giornate invernali, specie nelle ore notturne, i migranti
cercano di scaldarsi usando dei bracieri. Capita, però, come oltre ai corti
circuiti, le braci possano essere dimenticate e così quei ripari in legno e
plastica prendano fuoco.
Come è accaduto lo scorso 26 gennaio, quando da una delle tende del “lato
dei Nigeriani” è divampato un rogo che ha distrutto mezzo ghetto. Una ragazza è
deceduta e solo la scorsa settimana, quello “zero” di
Mimmo Lucano
ha reso possibile il funerale e il rimpatrio in Nigeria. Per gli altri
sopravvissuti senza un tetto, invece, sempre in “stile emergenziale”, la
Protezione Civile ha montato una cinquantina di tende fra la baraccopoli e il
perimetro su cui dal mese di agosto del 2017 è stata attivata la nuova
tendopoli. 550 tendoni video-sorvegliati e in cui è possibile accedere solo
tramite badge, con un orario di entrata e di uscita. Sebbene all’interno del
nuovo campo non ci sia spazzatura e siano presenti i servizi igienici, la luce
e l’acqua, non è sicuramente un “sistema di accoglienza” dignitoso. E resta
soprattutto una domanda aperta. Quando i fondi per la gestione della tendopoli
finiranno, sarà la volta dell’ennesimo ghetto? Che fine faranno i migranti e le
migranti che attualmente vi risiedono? Nel mese di febbraio del 2016
associazioni, enti e istituzioni siglarono un Protocollo in cui la tendopoli
veniva indicata come “soluzione temporanea” (l’ennesima) a cui poi sarebbe
dovuto seguire un “piano casa”. A distanza di due anni, non c’è traccia di
alcun progetto di accoglienza diffusa (eccetto l’esperienza di Drosi, nata nel
comune di Rizziconi otto anni fa).
Non è sicuramente questo l’
hotel a 5 stelle di cui parlano
i razzisti di casa nostra. Il ghetto e la nuova tendopoli, insieme alle altre
decine di insediamenti informali sparsi nelle zone limitrofe a Gioia Tauro e
Rosarno, si collocano in punti molto distanti dai centri abitati. Luoghi da
raggiungere percorrendo strade dissestate e non illuminate, attraversate giorno
e notte dai braccianti che raggiungono i campi in sella a bici senza luci o a
piedi. A otto anni dalle giornate di protesta che infuocarono quel mese di
gennaio del 2010, quasi nulla è cambiato. C’è ancora chi gioca al tiro al
bersaglio investendo con le auto i migranti o prendendoli a bastonate. E,
soprattutto, in mezzo agli alberi di arance e mandarini si continua a essere
sfruttati.
La pacchia di un bracciante africano
Secondo l’ultimo rapporto di
Medu (Medici per i Diritti Umani),
associazione presente sul territorio calabrese con il progetto “Terragiusta”,
la paga di un bracciante può essere a cottimo o a giornata. Nel primo caso, un
migrante non guadagna più di tre euro all’ora: la cassetta di mandarini viene
pagata un euro; quella di arance 0,50 centesimi. Nella seconda ipotesi, invece,
il guadagno giornaliero ammonta sui 25 euro o poco più. Nei campi si lavora
dalle 7 del mattino alle 4 del pomeriggio: 9 ore. L’orario di lavoro previsto
dalla CCNL Operai Agricoli e Florovivaisti, invece, è stabilito a 6 ore e mezza
al dì. Nonostante il 92,65% dei lavoratori sia titolare di un regolare permesso
di soggiorno (il 45% ha un permesso per motivi umanitari e il restante 41,4% è
richiedente asilo), meno di 3 persone su 10 lavorano con un contratto (27,82%).
Circa l’88,24% non vede dichiarate dal datore di lavoro tutte le giornate
lavorative effettivamente svolte. Oltre il 63% dei braccianti non conosce la
possibilità di ottenere una disoccupazione agricola, percepita solo dall’1,23%
delle persone intervistate da Medu. Il
Commissario straordinario
Polichetti ha fornito dei dati che evidenziano in modo chiaro il
fenomeno dello sfruttamento lavorativo, facilitato dall’emarginazione sociale a
cui i migranti sono costretti vivendo nei ghetti. Ossia: su 21 mila contratti
di lavoro stipulati nel 2017, solo 5mila risultano essere stati rilasciati a
lavoratori stranieri. Eppure, in mezzo agli aranceti si vedono solo delle
braccia nere raccogliere i frutti dai rami.
A questo drammatico quadro, poi, si aggiungono le difficoltà legate all’
assistenza
sanitaria e agli ostacoli da superare per ottenere i documenti
necessari per vivere serenamente sul territorio italiano e piantati dalla
complicata burocrazia italiana ed europea.
Trattare la “questione migranti” come un’emergenza significa impedire a
questi lavoratori di poter vivere in una casa, significa produrre il clima
sociale in cui rischiano continuamente la propria vita, significa
rappresentarli come soggetti pericolosi per emarginarli e sfruttarli meglio. In
questa situazione, epidosi terribili come quello dell’atro giorno non
smetteranno di ripetersi. Quanti
Sacko e
Becky
dovremo ancora veder morire?