Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

lunedì 5 marzo 2018

Promesse e Debiti


Debito record, ora l’Italia è la  sorvegliata speciale
Stamattina all’apertura delle urne si sfiora già quota 2300 miliardi. Il Paese  rischia l’attacco della speculazione in Borsa

 131,5 per cento. È il rapporto debito/Pil del 2017


04/03/2018

La Stampa - Paolo Baroni
Prendete il nostro debito pubblico, convertitelo in monete da un euro e provate a metterle una sull’altra. Impresa impossibile ovviamente, ma l’eventuale «pila» che si formerebbe sarebbe alta più di 5,25 milioni di chilometri e potrebbe quindi coprire quasi 14 volte la distanza tra la Terra e la Luna. Il nostro, insomma, è un vero e proprio debito stellare. Nel corso del 2017 è cresciuto al ritmo di 68.700 euro al minuto e a fine 2017, dopo un picco sopra quota 2.300 miliardi toccato a luglio, si è assestato a 2.256. 
Ed ovviamente continua a salire: stando al contatore dell’Istituto Bruno Leoni, che nelle scorse settimane ha piazzato alcuni grandi display nelle stazioni di Roma e Milano, questa mattina alle 7 quando apriranno tutti i seggi elettorali, saremo già arrivati a quota 2.297.286.000.000 di euro. Mentre alla chiusura delle 23 lo stock sarà già cresciuto di altri 258 milioni di euro. 
Il nostro debito in questo inizio anno corre ad un ritmo davvero vorticoso: in media 4.469 euro in più ogni secondo (perché gennaio è tradizionalmente un mese nero sul fronte delle uscite») contro una media annuale che nel 2017 era attorno a 1.160. «Il debito è un problema gigantesco» ricorda il dg del Bruno Leoni, Alberto Mingardi, che per i tabelloni messi nelle stazioni ha ricevuto insulti e addirittura anche minacce di morte, «come se il debito pubblico fosse colpa nostra». «L’idea di fare tante promesse in deficit - aggiunge - è tipica di qualsiasi campagna elettorale per questo abbiamo voluto ricordare a tutti che ogni promessa… è debito».  
Terzi al mondo  
Ancora l’anno scorso questa zavorra è cresciuta di altri 36,59 miliardi di euro, 233,5 miliardi di euro in più da inizio legislatura. Con Renzi l’aumento è stato pari a 116 milioni al giorno, 100,2 con Gentiloni, che ha beneficiato di tassi in netto calo e dell’andata a pieno regime del famoso «bazooka» di Draghi. Coi governi precedenti, a causa di stagioni della nostra economia ben più difficili e turbolente, si viaggiava invece a medie ben più alte: Letta 202, Monti 242 e Berlusconi 165 milioni in più al giorno.  
Il nostro è il terzo debito pubblico più alto del mondo: se raffrontato alla ricchezza nazionale siamo arrivati al 131,5%. In lieve calo rispetto al 2016, ma solo perché non sono ancora stati contabilizzati gli aiuti destinati al salvataggio delle banche venete. Davanti a noi, tra i Paesi più grandi, ci sono solo il Giappone, con un rapporto debito/Pil pari al 239,2 per cento, e la disastrata Grecia al 181,3%. La media europea invece è assestata attorno all’85%, ma la Germania, unico Paese ad essere riuscito l’anno scorso a ridurre lo stock del debito, è al 65% del Pil ed ora punta a scendere sotto il 60 entro il 2020.  
La politica... dello struzzo  
Il debito, nonostante rappresenti una vera palla al piede per la nostra economia (gli interessi che lo Stato paga anno drenano ogni anno decine di miliardi), è stato il vero convitato di pietra della campagna elettorale che si è appena conclusa. Nonostante i richiami continui, da parte di Bankitalia, dell’Ufficio parlamentare di bilancio, di Confindustria come della Ue, le ricette messe in campo dai partiti una volta passate sotto la lente degli esperti si sono rivelate improbabili quasi come il resto delle promesse elettorali. Che tra l’altro secondo diversi analisti, da Carlo Cottarelli a Roberto Perotti, altro non fanno che aumentare disavanzi e indebitamento del Paese. E quindi molto difficilmente si riuscirà a scendere sotto il 100% come propongono Pd, Forza Italia e Movimento 5 stelle.  
La ricetta giusta, più solida e praticabile, secondo il manifesto che Confindustria due settimane fa ha lanciato alle Assise di Verona, è «un mix di avanzi primari, efficienza della spesa pubblica e compliance fiscale» in modo tale da ridurre il rapporto debito/Pil di 20 punti in 5 anni. Non farlo espone di continuo il Paese a «speculazioni e umori dei mercati finanziari che, spesso senza alcun preavviso, possono rendere costoso e complicato il collocamento dei titoli di Stato facendo salire, oltre alla spesa pubblica per interessi, anche il costi dei prestiti per imprese e famiglie».  
«Rimuovere il problema del debito dal dibattito pubblico - segnalano dall’Istituto Bruno Leoni - vuol dire rimuovere un fatto». E su tutte «le pretese soluzioni proposte dai “sovranisti», che sostengono che quello del debito è un non problema perché basterebbe compensare debito e credito con chi ha sottoscritto i titoli di Stato oppure uscire dall’euro per azzerare il problema, «condurrebbero al tracollo dell’economia nazionale e ridurrebbero alla miseria milioni di italiani». «Neanche negli Anni 90 si era superata la soglia del 130%», ricorda a sua volta Confindustria. «Ciò frena la crescita perché vengono sottratte risorse all’economia per servire questo debito»: 3,8% del Pil solo nel 2017, ovvero all’incirca 60 miliardi di euro, «una spesa di poco superiore a quella sostenuta per l’istruzione scolastica e l’università pubblica». 
Il 32% parla straniero  
Anche per questo, vista da fuori, la situazione italiana suscita preoccupazione. I grandi investitori internazionali, nei cui portafogli si trova ancora circa un terzo del totale dei nostri titoli pubblici, sono preoccupati per la possibile fase di instabilità che si potrebbe aprire da domani in poi. Se si arrivasse ad un nuovo governo formato da nazionalisti e sovranisti, un’ipotetica alleanza Lega-M5S, i mercati potrebbe letteralmente impazzire. Ipotesi per fortuna remota, segnala un report di Jp Morgan che attribuisce a questa combinazione appena un 5% di possibilità. Ma le urne, si sa, spesso riservano sorprese che i sondaggi faticano a prevedere. 
Anche i grandi investitori italiani, grandi banche ed assicurazioni, si sono fatti negli ultimi tempi via via più cauti, alleggerendo in maniera significativa l’esposizione al rischio-Italia. Secondo gli ultimi dati diffusi dalla Banca d’Italia a novembre, quando il nostro debito era pari a 2.274,9 miliardi di euro, 18 in più del consuntivo di fine anno, ben 361,4 miliardi (pari al 15,9%) erano in mano alla Banca d’Italia, altri 610,9 miliardi, pari ad una quota del 26,85% (342,8 di titoli, il resto sotto forma di altri strumenti) erano in carico alla banche, 469,7 miliardi (20,64%) detenuti da fondi di investimento di diritto italiano e assicurazioni, appena 97,5 miliardi (4,3%) erano invece in mano a famiglie ed imprese italiane. 
La fetta restante, una quota decisamente rilevante pari a 735,5 miliardi (32,3% del totale) faceva infine capo a investitori stranieri. Rispetto al 2015 la quota posseduta dalla nostra banca centrale, per effetto del Quantitative easing lanciato dalla Bce, è più che raddoppiata crescendo quasi di 200 miliardi, quella in mano ai nostri istituti di credito è scesa del 6,9% (-45 miliardi), quella dei fondi è salita del 2,6% (+12 miliardi), quella degli investitori esteri è rimasta sostanzialmente stabile (-0,75%), mentre è letteralmente franata (-34,6%) la fetta in mano alle famiglie certamente poco allettate da tassi sempre più miseri. Tant’è che dai 149 miliardi di tre anni fa si è passati a meno di 100 miliardi (97,48) e la quota di Bot, Cct e Btp sul totale dei risparmi privati è passata dall’11% del 2008 al 6% del 2017.  
Banche più leggere  
Per quanto riguarda il sistema finanziario italiano la fetta più grossa, stando ai dati aggiornati al 30 settembre 2017, si trova nei forzieri delle Poste che detengono ben 130,6 miliardi di titoli emessi dal Tesoro (3 in più rispetto ai 127,6 un anno prima): 55,3 detenuti attraverso Banco Posta e 75,3 da Poste Vita. Tra le banche, che negli ultimi tempi hanno progressivamente ridotto l’esposizione sui titoli tricolore (-100 miliardi rispetto a febbraio 2015), Unicredit con 54 miliardi in lieve aumento sul trimestre precedente sopravanza Intesa (scesa a 27 miliardi a fine anno dai 34 del 2016).  
A seguire Banco Bpm (a quota 20,7 miliardi da 26,7, -22,3%), Mps 17,6 contro i 20 del settembre 2016, Ubi (11,2 da 13,2), poi Bper con 5,3 (erano 5,9) e Credem con 2,35 al 30 settembre (-25% sul 2016). Un altro centinaio scarso di miliardi è poi in mano ai due principali gruppi assicurativi del Paese: le Generali ne hanno in portafoglio per 64 miliardi, UnipolSai per altri 30,61. A cavallo fra Italia e Francia di rilevo anche il pacchetto di nostri titoli di Stato che fa capo ai francesi di Crédit Agricole che, sia direttamente, sia attraverso i fondi gestiti da Amundi (che ha rilevato da Unicredit i fondi Pioneer) ed il suo polo italiano (Cariparma, Friuladria, ecc.) al 30 giugno 2017, arriva a quota 50 miliardi di euro. Tra gli investitori esteri i pacchetti più corposi sono infatti in mano a istituzioni d’Oltralpe, a seguire tedeschi, spagnoli ed americani.  
Pochi Bot, tanti Btp  
Dei 2.256 miliardi di debito accumulato al 31 dicembre la parte più rilevante, attorno all’84%, è rappresentato dai titoli emessi dal Tesoro mentre il restante 16% è rappresentato da prestiti e altri strumenti finanziari di vario genere. Al 31 dicembre secondo il Tesoro risultavano così in circolazione 1906,38 miliardi di euro di titoli pubblici, in particolare 1.368,3 miliardi di Btp (71,78% del totale), 146,84 miliardi di Btp€i (7,7%), 132,9 miliardi di Ccteu (6,97%) e 106,6 miliardi di euro di Bot (5,59%).  
1000 miliardi da trovare  
Per la politica, per il Paese, quello di oggi sarà dunque un test molto interessante. Il debito pubblico da rinnovare nella prossima legislatura secondo le stime di Unimpresa ammonta infatti complessivamente a 900 miliardi di euro: si tratta di 47,1 miliardi di Bot, 734,7 miliardi di Btp, 85,7 miliardi di Cct e 32,4 miliardi di Ctz. Ma se a questo importo si somma la quota periodica di Bot il totale arriva a superare quota 1.000 miliardi di euro. In dettaglio parliamo di 236 miliardi quest’anno, 187 miliardi nel 2019, 162 miliardi nel 2020, 162 miliardi nel 2021, 152 miliardi nel 2022, 141 miliardi nel 2023, 128 miliardi nel 2024, 62 miliardi nel 2025, 79 miliardi nel 2026, 48 miliardi nel 2027 mentre altri 355 miliardi, poi, arrivano a fine corsa tra il 2028 e il 2067.  


domenica 4 marzo 2018

Raccontare favole


Mario Seminerio 13 novembre 2012

Sulle leggende fiscali in Italia

In Italia pare esista una straordinaria propensione a creare e bersi leggende metropolitane di natura fiscale. Due, in particolare, resistono al tempo ed alla schiacciante evidenza contraria dei fatti e della logica. La prima sostiene che negli Stati Uniti sia possibile detrarre dalla dichiarazione dei redditi tutto ed il contrario di tutto, facendo di quel paese un vero paradiso della lotta all’evasione fiscale. Le cose non stanno affatto in questi termini. Negli Stati Uniti esiste un sistema di deduzioni dall’imponibile in larga misura simile al nostro ed a quello di molti altri paesi. Esiste infatti una standard deduction dall’imponibile, che nel 2012 era pari a 5.950 dollari per i single e a 11.900 dollari per una coppia che presenti dichiarazione fiscale congiunta. Questa deduzione può essere aumentata in presenza di particolari condizioni, quali contribuente ultrasessantacinquenne o non vedente.
In alternativa alla deduzione standard dall’imponibile vi sono le cosiddette itemized deductions, che vengono di solito utilizzate da chi ha reddito ed oneri elevati. Le itemized deduction sono in larga misura simili alle nostre per tipologia di oneri deducibili, quali spese mediche, acquisto di protesi ed ausili sanitari, assicurazioni sanitarie pagate dal contribuente, interessi passivi su mutui (che negli Usa sono deducibili in misura molto generosa, di fatto favorendo i soggetti ad alto reddito e quanti, come in passato, si sono indebitati all’inverosimile per acquistare casa), donazioni filantropiche. Tra le itemized deduction figurano anche le imposte locali, pagate cioè allo stato ed alla contea di residenza del contribuente. In questo modo, lo stato federale attua una sorta di devoluzione di gettito agli enti locali.
Come si può constatare, affermare che negli Stati Uniti “si può detrarre tutto” è una palese sciocchezza, che tuttavia resiste tetragona non solo sui dibattiti in rete e sui social network ma a volte compare anche sulle labbra di politici disinformati e superficiali. Peraltro, in questo momento, negli Stati Uniti si discute della possibilità di ridurre fortemente le deduzioni fiscali allo scopo di avviare la necessaria riduzione del deficit federale, e tra le soluzioni di compromesso per porre fine al braccio di ferro tra Democratici e Repubblicani vi è anche questa, che avrebbe il vantaggio di lasciare invariate le aliquote nominali e consentire in tal modo ai Repubblicani di affermare che le imposte non sono aumentate, anche se di fatto una simile manovra finirebbe comunque col ridurre il reddito disponibile dopo le imposte. Avrete certamente notato che questa soluzione americana antideficit è identica a quanto inizialmente previsto dal governo italiano nella legge di stabilità per il 2013, con la falcidie di detrazioni e deduzioni. La crisi fiscale morde ovunque.
Altra leggenda metropolitana che in Italia è dura a morire, peraltro strettamente derivata dalla precedente, è quella secondo la quale il cosiddetto “contrasto d’interessi” (cioè la deducibilità dall’imponibile o detraibilità dalle imposte) riuscirebbe ad azzerare l’evasione fiscale. Anche qui, le cose stanno diversamente, come spiega un articolo molto efficace e comprensibile pubblicato anni addietro su lavoce.info a firma di Maria Cecilia Guerra ed Alberto Zanardi.
Se si consentisse la detrazione fiscale degli acquisti in misura pari al 19 per cento oggi vigente per questa tipologia di benefici fiscali, il compratore avrebbe un onere fiscale pari alla differenza tra l’aliquota Iva applicata sul bene ed il 19 per cento di detrazione d’imposta. Il venditore potrebbe quindi agevolmente offrire al compratore uno “sconto per il nero” che potrebbe raggiungere un massimo pari all’Irpef che il primo versa allo stato, annullando l’efficacia del contrasto d’interessi.
In caso di deducibilità integrale dell’acquisto dall’imponibile fiscale del compratore si crea effettivamente un contrasto d’interessi in cui il compratore otterrebbe un sussidio sull’acquisto pari alla differenza tra l’aliquota marginale Irpef del compratore e l’aliquota Iva applicata all’acquisto. Tuttavia, anche in questo caso, il venditore potrebbe disinnescare la minaccia offrendo al compratore uno sconto pari almeno all’entità del sussidio ottenuto da quest’ultimo e fino ad un massimo pari all’aliquota Irpef del venditore.
In questo caso, il margine di contrattazione tra le parti dipenderebbe criticamente dalla struttura delle aliquote. Se il compratore ha un’aliquota molto più alta di quella del venditore, il gettito netto per lo stato si ridurrebbe fino ad azzerarsi, e potrebbe addirittura diventare negativo. Il tutto senza considerare il caos che deriverebbe dalla necessità di produrre e conservare idonea documentazione dei pagamenti. Saremmo sommersi dalla carta.
Malgrado queste schiaccianti evidenze politici, sindacalisti ed opinionisti distratti tornano periodicamente ad invocare il contrasto d’interessi quale proiettile d’argento che eliminerà l’evasione fiscale, “come fanno in America”. Il ritornello è talmente ossessivo che anche prestigiosi economisti quali Francesco Giavazzi ed Alberto Alesina sono caduti nella fallacia, e sono stati costretti nel recente passato a smentire se stessi ed ammettere che il contrasto d’interessi non è la strada per combattere l’evasione fiscale. A tal fine, molto meglio il monitoraggio sistematico dei conti correnti e delle consistenze patrimoniali dei contribuenti.
Riusciremo ad espellere queste due leggende dal desolante dibattito pubblico italiano, già di per sé caratterizzato da profonda ignoranza dei più basilari meccanismi economici e per questo motivo vittima predestinata di ciarlatani e maghi dalle soluzioni miracolose? Lecito dubitarne.