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venerdì 31 agosto 2018

Metodo putiniano /le fabbriche dei troll -2


Dentro la fabbrica dei troll russi

La divulgazione di 3 milioni di tweet riconducibili alla famigerata Internet Research Agency di San Pietroburgo imputata di aver condizionato le ultime elezioni presidenziali americane ci dice che tutto è falsificabile, se non inesistente
RollingStone 3 agosto 2018 

E’ uno degli edifici più misteriosi al mondo, un parallelepipedo grigio e anonimo di quattro piani alla periferia di Pietroburgo, in via Savushkina 55, un indirizzo ormai diventato famoso negli ambienti dell’intelligence e dei media quanto la leggendaria Lubianka dell’ex Kgb. Dei servizi segreti russi almeno si sa che esistono, e che hanno il loro quartier generale nella piazza del centro di Mosca.
Il blocco di cemento grigio di Savushkina 55 è, se possibile, ancora più enigmatico: nei documenti ufficiali e nei giornali viene definito “l’ultimo indirizzo accertato della sede dell’Internet Research Agency”, il nome dell’entità alla quale viene ricondotta l’invasione dei troll russi nella Rete globale. Dell’Agenzia, o IRA, come viene chiamata nelle carte delle indagini, si sa più o meno quanto dell’apparato di potere della Corea del Nord: le uniche rivelazioni sul suo funzionamento sono state fornite da un paio di troll “pentiti” che sono finiti a lavorare al “ministero della Verità” in Savushkina 55, attirati da inserzioni come “Impiego ben retribuito in un ufficio chic”, e alcuni giornalisti russi che erano riusciti a infiltrarsi per pochi giorni come aspiranti troll.
Dentro, sembrava un ufficio qualunque, stanze con scrivanie e pc, piene di giovani smart, con capi settore, macchinette del caffè, memo, riunioni e training per i 400 dipendenti. Un’altra circostanza che si può affermare con una qualche certezza è il nome del loro datore di lavoro: Evgheniy Prigozhin, 57enne pietroburghese con alle spalle una movimentata carriera che include 9 anni di prigione per rapina, truffa e sfruttamento di prostituzione minorile, studi da farmacista e la fondazione di un impero di ristorazione partito da un banchetto di hot dog. Oggi porta orgogliosamente il titolo di “cuoco di Putin”, figura nella lista nera degli oligarchi moscoviti sotto sanzioni degli Usa e viene associato dagli analisti a due delle armi più elusive e potenti del Cremlino: la “fabbrica dei troll” di Pietroburgo e la compagnia Wagner, una società di contractor privati che ha fatto il lavoro sporco per i militari russi nel Donbass, in Siria e ora anche in Africa.
Un contesto da grande romanzo di spie, con la differenza che i prodotti della “fabbrica dei troll” non sono il gas nervino o il polonio, li abbiamo consumati tutti. Lo sforzo congiunto degli investigatori dell’Fbi, giornalisti, hacker, factchecker, ricercatori, attivisti e social network ha prodotto un data base di quasi 3 milioni (per la precisione, 2973371) di tweet provenienti da 2848 account giudicati legati all’IRA. I tweet rivolti al pubblico americano (visionabili qui) vanno dal 2012 al 2018, e sono stati analizzati da due professori della Clemson University, Darren Linvill e Patrick Warren, che hanno cercato di suddividerli per dinamiche, argomenti, algoritmi di attività (uno dei picchi si è avuto con la pubblicazione delle email di Hillary Clinton su WikiLeaks, mentre dopo le elezioni presidenziali americane nell’ottobre 2016 molti account sono stati ibernati) e interazioni con altri account.
Una lettura in fondo deludente: chilometri e chilometri di insulti già noti, ripetitivi e banali– Hillary in galera, Obama venduto ai musulmani, Make America Great Again, onestà onestà, muro contro gli immigrati, filmati, meme e fake già confezionati altrove – firmati da tipici nickname dei conservatori americani, “redneck”, “patriot”, “loveUSA”. Il problema è proprio questo: i titolari degli account non sono americani. Anzi, non esistono nemmeno: la maggior parte sfoggia negli avatar foto false, spesso di modelle molto attraenti. I responsabili di Facebook e Twitter avevano già notato che molti degli account sospettati di provenire da Pietroburgo non hanno una “vita normale” sui social, amici “veri” o contenuti non legati alla politica. Il procuratore speciale Robert Mueller ha accusato 12 dipendenti di Prigozhin di aver anche utilizzato identità rubate ad americani veri, usando le loro credenziali per pagare gli ad e l’uso dei server via PayPal. La frode forse più clamorosa è l’account Twitter @ten_gop, che per mesi si è spacciato per il social ufficiale del partito repubblicano del Tennessee, raccogliendo circa 100 mila follower.
Ma a Pietroburgo non si tifava solo Trump. Linvill e Warren hanno classificato gli account legati all’IRA in 5 categorie, di cui due sono apparentemente opposte, Left e Right. Mentre i troll di destra – i più numerosi – ricorrono alla retorica più classica dei trumpiani, con grande enfasi sull’immigrazione e l’islam, quelli di sinistra simpatizzano per Bernie Sanders, postano video di afroamericani pestati dalla polizia e usano un linguaggio simile al moviment BlackLivesMatters. Il loro obiettivo – che denota dietro alla profilazione dei target un lavoro analitico serio – non è tanto convincere gli afroamericani a votare per Trump quanto a persuaderli a non votare Hillary, a restare a casa, fomentando la loro frustrazione. La terza categoria degli account sono i “hashtag gamers”, impegnati a rilanciare hashtag di varia natura, mentre i “news feed” si spacciano per aggregatori di news locali, attingendo spesso a piene mani da fonti di propaganda russa come RT o Sputnik, e contribuendo a intrecciare la rete fasulla in quella degli account autentici, di influencer famosi come di comuni mortali (Twitter ha notificato a più di 1400000 utenti che hanno interagito a loro insaputa con i troll russi). Infine, i meno numerosi ma forse i più pericolosi, sono i “fearmonger”, gli spacciatori di paura, una pattuglia piccola ma agguerrita che rilancia bufale spaventose, come la notizia che i tacchini del giorno del Ringraziamento sono stati contaminati con la salmonella. La bufala più celebre prodotta in Savushkina 55 è l’esplosione dell’impianto chimico di Columbia Chemical, in Louisiana, mai avvenuta se non su Twitter, dove il disastro è stato inscenato con tanto di screenshot fasulli della Cnn, siti clonati delle tv locali e addirittura una videorivendicazione dell’Isis, ovviamente taroccata.
I tempi delle spie russe mascherate da The Americans sono finiti, ma su Internet le barbe finte virtuali possono ancora funzionare per qualche mese, e chissà quanto si sono divertiti i troll pietroburghesi a impersonare nello stesso giorno l’operaio bianco del Midwest arrabbiato e la donna afroamericana abusata, passando dalla maschera di un militante liberal della East Coast a quella di un redneck favorevole all’uso delle armi contro gli immigrati, e dall’attivista nero che twitta contro la polizia al poliziotto che twitta in difesa del suo diritto a sparare ai neri. Ogni troll, secondo le testimonianze dei pochi pentiti, gestiva circa 10 account, e in turni di 12 ore al giorno scrivere post a nome dei suoi vari alias su Facebook, Twitter, Instagram o il social russo Vkontakte, e inviare decine di commenti alle bacheche altrui e ai siti dei giornali anglosassoni. I più bravi gestivano anche dei blog – Ludmila Savchuk, fuggita dalla fabbrica dei troll per raccontarla dall’interno, per esempio, si improvvisava anche sensitiva, con tanto di blog nel quale profetizzava immancabilmente successi per Putin. L’inchiesta sugli account legati all’IRA di Facebook ha evidenziato una serie di feed legati alla vendita di cosmetici, supplementi dietetici o prestiti brevi, senza chiarire se i troll arrotondavano nel tempo libero oppure se si trattava di una tecnica subdola per insinuarsi nei segmenti dell’audience che non seguono abitualmente la politica.
Tutto è falso, o potrebbe esserlo, e anche se state leggendo un post sugli alimenti bio, o l’oroscopo, oppure cliccate su un link “come guadagnare 5 mila euro al mese da casa”, potreste in realtà essere collegati a una fabbrica dei troll. Leonid Volkov, il capo della campagna elettorale di Alexey Navalny (che grazie a Internet è diventato il volto dell’opposizione russa), non esclude che l’obiettivo sia proprio questo: “Rovinare la Rete, creare un clima d’odio, renderla ripugnante per la gente normale”. Volkov stima l’internettizzazione del pubblico russo a poco più del 50%, e siccome il dissenso in Russia ormai è quasi esclusivamente virtuale, si tratta di impedire ai russi meno istruiti e critici di attingere da una fonte di informazioni indipendente, vincolandoli alla televisione. La fabbrica dei troll, infatti, è nata e lavora principalmente per il mercato interno, e l’espansione delle sue operazioni all’estero è avvenuta dopo anni che le stesse tecniche venivano utilizzate nell’ex Urss. Anzi, il cosidetto “PR nero” era stato collaudato ben prima della diffusione di Internet: già all’inizio degli anni Zero i volantini falsi e le telefonate agli elettori nel cuore della notte del tipo “Siamo i gay che fanno campagna per X” o “Siamo i musulmani che sostengono Y” affondavano X e Y nelle urne delle elezioni nella provincia russa.
Tutto è falso, anzi, inesistente: gli account, i nomi, i filmati e i meme. Anche l’IRA, in fondo, è un falso: ufficialmente si occupa d’altro e non abita più nemmeno in Savushkina 55: i suoi uffici sono occupati da un’agenzia di news il cui direttore si è anche lamentato con l’inviato del New York Times Adrian Chen della brutta fama dell’edificio, salvo pubblicare due giorni dopo un articolo in cui sosteneva – con tanto di foto truccate – che il giornalista americano era venuto a Pietroburgo a incontrare un famoso neonazista appena uscito di prigione per omicidio, per reclutarlo in una rivolta contro Putin.
Anche il “cuoco di Putin” che manda in giro per il mondo troll virtuali e mercenari veri potrebbe essere un fake: alcune operazioni dell’IRA sarebbero difficilmente realizzabili senza l’aiuto dei servizi, ma nel nebuloso sistema di potere del Cremlino non è chiaro se si tratta di un paravento, o di “contractor” ambiziosi che si alleano con gli 007 e gli hacker per sorpassare l’intelligence “ufficiale” a destra nella fornitura al regime di servizi delicati.
L’unica cosa vera sono i lettori, e gli elettori: quelli non li hanno inventati i troll russi, così come non hanno creato Trump, Salvini, Le Pen e Farage. L’utilizzo spregiudicato dei fake è un brevetto storico di Mosca, ma il pubblico che li legge, ci abbocca e li ripete con assoluta convinzione non è mai stato a Pietroburgo. I fake prodotti in Savushkina 55 – ma pare che ora l’Agenzia si sia spostata in una sede più grande e moderna in Optikov 4-3 – sono imitazioni perfette di quelli autoctoni, e la bravura dei finti “redneck” sta semmai nell’aver colto e copiato, amplificandolo, un sentimento e un linguaggio Made in USA (e non solo). Su molte bacheche e forum russi è ormai buona norma igienica non discutere con i troll (prezzolati o volontari), disinnescandoli in partenza, e rischiando di catalogare tutti quelli che non la pensano nello stesso modo come dei fake. Al Congresso USA sono state proposte nuove sanzioni devastanti contro l’ingerenza dei troll russi nella campagna elettorale per le elezioni del Midterm, mentre il passaporto russo sta diventando per gli esperti di IT da bollino di qualità un punto debole, e alcuni si sono già visti negare il visto americano.
Ma quelli che oggi vogliono chiudere i confini, affogare gli immigrati, censurare i media, abolire i vaccini e archiviare la democrazia hanno studiato nelle scuole dell’Occidente, non all’accademia del Kgb, e rimarranno in Occidente anche dopo la chiusura dell’ultimo account falso di Twitter.

Ecco come funzionava la fabbrica dei troll del Russiagate
Un giornale russo ha ricostruito l’attività di un’azienda di San Pietroburgo che avrebbe influenzato le elezioni americane sfruttando i social network
La Stampa 20-10-2017

Tutto inizia con degli hot dog. Nella primavera del 2015 – un anno e mezzo prima delle elezioni americane – una delle “fabbriche di troll” russe fa un esperimento. Vuole capire se riuscirà ad attrarre delle persone a un evento inesistente a New York, senza muoversi da San Pietroburgo. “Chi si presenterà avrà in omaggio un hot dog”, scrivono su Facebook.  
In tanti credono all’annuncio e rimangono delusi nel vedere che dei panini non c’è nessuna traccia. Non sanno di essere osservati. Per la “fabbrica dei troll”, dove la scena è tenuta d’occhio grazie a una webcam, è la prova che si possono influenzare le persone a distanza, semplicemente condividendo delle notizie false. 
L’esercito dei troll  
Lo racconta il giornale russo Rbc che ricostruisce in un’inchiesta molto dettagliata come è nata l’Ira (Internet research agency), una delle principali “fabbriche di troll” di San Pietroburgo, e il modo in cui – sempre secondo il giornale – si è poi mossa per influenzare le presidenziali americane. Per riuscirci avrebbe speso più di due milioni di dollari, stipendiando centinaia di impiegati che durante la campagna elettorale avevano il compito di alimentare la disinformazione sui social media. Lo scopo principale era di diffondere l’odio razziale nel contesto di campagne come “Black lives matter”. Ma potevano anche sposare altre cause, come quella per la diffusione delle armi. 
Rbc ha stilato un elenco di quasi 120 comunità e gruppi tematici di questo tipo diffusi in Facebook, Instagram e Twitter, attivi fino all’agosto 2017 e collegati alla “fabbrica dei troll”. Il giornale ha chiesto la consulenza di alcuni esperti di linguistica, fra cui Ronald Meyer della Columbia University. Hanno provato che in una buona parte dei post gli errori nell’inglese erano quelli tipici dei madrelingua russi. Secondo le stime di Rbc, la fabbrica è stata in grado di condividere fra i 20 e 30 milioni di post e altri contenuti nel solo settembre 2016. Arrivando ai 70 milioni nell’ottobre. 
Per di più, secondo Rbc alcune delle storie condivise dalla “fabbrica” sarebbero state così credibili da essere poi riprese dai media internazionali come Bbc, Usa Today e Al Jazeera. Secondo fonti interne alla fabbrica, in questo periodo sarebbero stati spesi quasi 200.000 rubli (circa 3.000 euro) al mese per tecnologie informatiche, fra cui server proxy, nuovi indirizzi ip e sim telefoniche. 
Come una vera fabbrica  
Come ha scritto Thing Progress, le campagne internet non supportavano direttamente Donald Trump, ma avrebbero poi favorito la sua campagna elettorale alimentando tematiche sociali controverse. Questo scopo poteva però non essere chiaro ai dipendenti della “fabbrica dei troll”, organizzati come in una qualsiasi azienda. 
Rbc ha spiegato come gli impiegati rispettassero dei turni, con giorni di pausa e salari differenziati sulla base delle competenze. Un troll di primo livello poteva guadagnare 55.000 rubli ogni mese (quasi 810 euro), ma erano previsti dei premi in caso di reazioni forti alle storie condivise. Secondo le stime, in questo periodo avrebbero lavorato per la “fabbrica” fino a 250 persone. 
Ma è difficile avere poi il conto degli attivisti che hanno sposato le campagne architettate a San Pietroburgo, senza neppure sospettarne l’origine russa. Convincerli non sarebbe stato difficile. Il sistema d’influenza non era poi molto diverso da quel primo rudimentale esperimento che aveva portato decine di persone in una piazza di New York, in cerca di un hot dog gratuito. 

Mica funzioneranno 'sti troll russi, diceva l'Fbi. E invece

Alcuni ufficiali americani hanno a lungo provato a convincere Cia, Fbi e dipartimento di Stato a mettere in atto una controffensiva. Ma sono stati inascoltati
Roma. Gli Stati Uniti hanno, per anni, sottovalutato i tentativi della Russia di influenzare l’opinione pubblica americana. Lo scrive il Washington Post in un articolo che racconta la strategia a lungo termine dei russi e il modo in cui una serie di troll legati con ogni probabilità alla Gru, l’intelligence militare russa, hanno creato dei profili giornalistici falsi in grado di presentarsi come normali freelance, iniziare a scrivere articoli innocui per dare credibilità al loro curriculum, e poi trasformarsi in macchine di propaganda. L’inchiesta del quotidiano cita le scoperte di “NorternNight”, un’operazione di controspionaggio condotta dall’Fbi. Il bureau ha controllato una serie di “giornalisti” sospetti, scoprendo che dietro a reporter freelance con poca esperienza si nascondevano profili governativi russi. Un caso emblematico è quello di Alice Donovan, giornalista freelance che si presenta il 26 febbraio 2016 con una email al sito di news CounterPunch chiedendo di collaborare. Donovan inizia a scrivere articoli poco legati alla politica americana fino alla fase più intensa della campagna elettorale. A quel punto gli articoli cambiano, sono più aggressivi contro la candidata democratica Hillary Clinton, danno credito alle notizie pubblicate da Wikileaks. Donovan comincia a collaborare anche con altri siti, come We are the change e Veterans Today, con toni sempre più filorussi. L’Fbi ha quindi cominciato a chiedere informazioni sulla sua identità ai direttori dei siti con cui collaborava; Jeffry St. Clair, editor di CounterPunch, ha contattato subito Alice Donovan via email, ma la freelance ha rifiutato di inviare documenti che provassero la sua identità o di parlare al telefono. Alla richiesta di maggiori dettagli, Donovan non ha più risposto.
L’operazione russa non è tuttavia cominciata nel 2016. A partire dalla caduta del muro, i russi, scrive il Post, hanno compensato la minore potenza del proprio esercito con le azioni di propaganda. A questo è servita nel 2005 l’apertura del canale televisivo Rt, Russia Today, che trasmette in arabo, inglese, francese e spagnolo e di Sputnik, un’agenzia web che pubblica in 39 lingue. Entrambi i programmi sono finanziati dal Cremlino. Nel 2014, quando la Russia ha annesso la Crimea, Putin aveva a disposizione un arsenale di troll e di esperti già rodato per influenzare le opinioni pubbliche straniere.

giovedì 30 agosto 2018

grande Ivano

https://www.youtube.com/watch?v=1v-rx1Gk09o&feature=youtu.be

R.I.P. (Democracy)



Il senatore repubblicano John McCain sta morendo: «Non voglio Trump al mio funerale»


Il senatore repubblicano John McCain sta morendo: «Non voglio Trump al mio funerale»

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di Simone Pierini




Le ultime volontà di John McCain: "Al mio funerale parlino gli uomini che mi hanno sconfitto: Obama e Bush. E Trump non venga"

«Non voglio il presidente Donald Trump al mio funerale», disse in una delle sue ultime uscite ufficiali. Il senatore repubblicano John McCain ora sta morendo. «Pur nella lotta risoluta contro la malattia, non ha fatto mancare all'America la sua voce ferma, pacata ma forte di convinzioni e valori al punto da non temere la corrente contraria. Con la stessa forza di volontà, ha adesso scelto di interrompere le cure mediche», fa sapere la famiglia, indicando che il lungo addio del leone può a breve vedere la fine, ad un anno dall'annuncio della diagnosi di tumore.


«L'estate scorsa il senatore John McCain ha condiviso con gli americani quanto la nostra famiglia già sapeva - si legge nella nota diffusa in mattinata dalla famiglia di McCain-. Gli era stato diagnosticato una forma aggressiva di glioblastoma e la prognosi era grave. In quest'anno John ha superato le aspettative di sopravvivenza. Ma il progresso della malattia e l'inesorabile avanzare dell'età rendono il loro verdetto. Con la sua consueta forza di volontà, ha adesso scelto di interrompere le cure mediche».

Il Maverick - cane sciolto, il soprannome che gli diede il Secret Service durante la corsa alla Casa Bianca del 2008 contro Barack Obama per la capacità di votare in barba alle direttive di partito - in quest'anno ha incastonato per sempre nella Storia la sua eredità politica, andando anche oltre la figura del saggio nel partito repubblicano dell'era Trump. Quella voce critica che nel suo libro di memorie The Restless Wave uscito a maggio gli ha fatto scrivere che Trump «ha rifiutato di distinguere le azioni del nostro governo dai crimini di quelli dispotici. L'apparenza di durezza, o un fac-simile di durezza da reality show, sembra essere più importante dei nostri valori».
 
 
FOTO - di -
Il senatore repubblicano John McCain sta morendo: «Non voglio Trump al mio funerale»

Quindi l'appello alla politica americana per «tornare allo scopo e alle pratiche che hanno contraddistinto la nostra Storia». McCain, 81 anni, è stato rieletto al Senato nel 2016. Che sarebbe stato il suo ultimo mandato lo ha confermato nella primavera scorsa, quando da mesi si era già ritirato in Arizona sottoponendosi alle cure per il tumore al cervello rivelato la scorsa estate. E proprio lo scorso luglio, con la cicatrice dell'operazione chiaramente visibile sulla fronte, l'ex capitano di Marina per cinque anni torturato dai vietcong in una famigerata prigione di Hanoi (ma deriso da Trump in campagna elettorale perché si era fatto catturare, altro che eroe), pronunciava in aula al Senato quel «no» che il tycoon non gli ha perdonato, decisivo per silurare sette anni di sforzi dei suoi compagni di partito per cancellare l'Obamacare. Il suo ultimo atto pubblico era anche un «no» ad una certa politica e continua a risuonare facendo ora da epilogo alla sua eredità bipartisan. Sabato 25 Agosto 2018, 18:08 - Ultimo aggiornamento: 26 Agosto, 09:29
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