Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

mercoledì 25 gennaio 2017

Trumputin /2

Le cupe fantasie del discorso inaugurale di Trump

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Non lasciatevi ingannare dalle chimere di un uomo rabbioso. Di tutte le fantasie perpetrate in quel cupo delirio che è stato il discorso inaugurale di Donald Trump, nessuna è più assurda di quel presentare l’uomo dell’ascensore dorato come Difensore del Popolo. La crociata del presidente in nome dell’americano medio inizierà con un immenso taglio delle imposte per i ricchi, e se la famiglia dell’americano medio dovesse avere pre-esistenti problemi di salute che le compagnie di assicurazione non considerano ricevibili, vedrà svanire la propria assistenza sanitaria. Con amici del genere…
Come il senatore Roy Blunt ha ricordato alla folla nella sua introduzione, i discorsi inaugurali per tradizione elevano, riuniscono. Nel 1860 Abramo Lincoln fece appello «ai migliori angeli della nostra natura», malgrado la repubblica fosse sull’orlo della guerra civile. Nel 1932, al culmine della Grande Depressione, Franklin Roosevelt rassicurò un’America angosciata che «non aveva nulla da temere, se non la paura stessa». Ronald Reagan promise «un’alba» all’America colpita dall'inflazione e umiliata dalla crisi degli ostaggi in Iran.
Questo presidente, invece, considera proprio dovere assicurarsi che l’America sappia quanto fosse miserevole prima della sua venuta, malgrado i fatti puntino in direzione opposta. Assistiamo forse a «un massacro americano» nella Chicago delle bande criminali, ma a livello nazionale il tasso di criminalità è al livello più basso da decenni. L’economia che Trump dipinge inaridita dall'outsourcing è alla piena occupazione, e il Dow Jones ai massimi. Durante il secondo mandato di Barack Obama gli impieghi nella manifattura sono tornati in America, non viceversa. E quelli che non tornano sono in gran parte la conseguenza di automazione e robotica; e continueranno a non tornare, a meno di non mettere sotto chiave i dirigenti aziendali finché non accettino di abbassare la produttività.
Tutto questo non vi è nuovo? Certo che no. Il 45° presidente non è soltanto un uomo irascibile; malgrado continui a ripetere che lavorerà «per la gente» finché avrà fiato in corpo, è anche un indolente che non ha voglia di leggere i rapporti quotidiani dell’intelligence, e il cui discorso era un arrangiamento ridotto e mal scongelato della tirata pronunciata a Cleveland (quando accettò la nomination repubblicana, ndt): una provocazione rabberciata di altrui retorica di seconda mano. “America First” era lo slogan coniato da Woodrow Wilson nel 1916, prima di cambiare idea e portare l’America in guerra; e poi riciclato quale vessilo xenofobo per la campagna di Pat Buchanan, nel 2000. “Far di nuovo grande l’America” era slogan di Reagan, per la sua campagna del 1980; mentre “l’uomo dimenticato” è stato vergognosamente rubato alla campagna di FDR, 1932. Steve Bannon, il chief strategist del presidente, sta forse pensando di ridare vita agli investimenti nelle infrastrutture del New Deal, ma se la memoria storica ha un senso, Roosevelt in realtà non iniziò con un taglio fiscale massiccio per quell’1% di contribuenti della fascia più alta.
Con ogni probabilità il presidente non si darà pensiero per le minutaglie, riemergendo ogni tanto dal campo da golf per ringhiare contro dirigenti terrorizzati, minacciando di portargli via i loro giochetti se non fileranno immediatamente ad aprire una fabbrica di qualche aggeggio. Il vero lavoro pesante verrà delegato al suo governo, che corrisponde a quello che i greci chiamavano “kakistocrazia”: il governo dei meno qualificati.
Tra loro c’è chi ha pendenti etici giganteschi, come Tom Price, nominato come segretario per la Sanità e i Servizi umani, impegnato in trading di titoli di aziende su cui il Congresso stava deliberando. Poi ci sono quelli semplicemente incompetenti, senza alcuna esperienza o conoscenza dei ministeri che dovrebbero dirigere. Ma questo non dispiace ai falchi repubblicani, dal momento che l’obiettivo finale di questa presidenza è l’autodistruzione del settore pubblico. Ma quando si tratta invece di Rick Perry, nominato come segretario all’Energia senza sapere che il proprio dipartimento è responsabile delle scorte nucleari americane, l’incredula derisione si fa allarme rosso.
E c’è dell’altro. Grazie agli anacronismi del collegio elettorale, il voto di una minoranza ha imposto le priorità dell’America rurale e dei piccoli centri alle grandi, popolose città cosmopolite. Tra i tagli al budget proposti nel ridimensionamento draconiano del presidente Trump, potete scommettere il collo che non verranno sfiorati gli straripanti sussidi ai grandi business agricoli.
Il resto del mondo potrebbe essere tentato di accogliere con una scrollata di spalle questa sterzata verso l’isolazionismo, quest’avvento di un’America più piccola e stretta, e non più grande: se non fosse per il fatto che per quanto Trump sia determinato a spazzarla via a suon di decreti, l’interconnessione globale è una realtà inevitabile della vita nel XXI secolo. Un’America che si contrae può lasciare un buco nero di pericoli per il resto del mondo: che si tratti di scivolare in guerre commerciali, di abbandonare l’accordo sul controllo del clima o, cosa più pericolosa di tutte, disintegrare la Nato e le alleanze del Pacifico. Tutto questo fa pensare alla Russia di essere davvero di nuovo grande. Dopo essere intervenuto nella politica americana per veder installare alla Casa Bianca il proprio servizievole amico, perché Vladimir Putin non dovrebbe spostare le truppe sui confini baltici? Le reiterate dichiarazioni di Trump sull’obsolescenza della Nato, i dubbi che ha gettato sull’obbligo, sancito dal Patto atlantico, di considerare l’attacco a un membro dell’alleanza come un attacco a tutti, sono un incoraggiamento all’avventurismo dei russi.
L’abbandono dell’America del Piano Marshall, della Carta atlantica e della Nato, dell’America che con FDR, Eisenhower, con John F Kennedy e con Reagan considerò la libertà e la sicurezza dell’Europa e del resto del mondo come parte intrinseca dei propri doveri democratici, non è solo una prospettiva vergognosa, ma terrificante. Naturalmente è stata salutata in Europa da fascisti e ultranazionalisti con quella gioia perversa dei bulli di spiaggia che distruggono a calci un castello di sabbia. Ma loro che immaginano un mondo di Stati nazione separati e disconnessi, anche loro vivono in una fantasia pericolosa. Se non li fermiamo subito, i loro sogni diventeranno i nostri incubi.
«Il tempo delle parole vuote è finito. È l’ora di agire», ha proclamato il presidente. La maggioranza degli americani, moltitudini che guardano sbigottiti e nauseati alle sue proposte, devono prendere queste parole alla lettera.

Copyright The Financial Times Limited 2017
 

sabato 21 gennaio 2017

Trumputin

"Quando lasci uscire fuori il genio dalla lampada - parlo di xenofobia, razzismo e intolleranza - non riuscirai a rimetterlo nella lampada facilmente" (B. Springsteen su Trump)


Is President-Elect Trumputin a “Useful Idiot”?

My view: the relentless drip-drip-drip of Clinton, DNC and Podesta emails in the last few months of the campaign could very well have been the tipping point for on-the-fence voters in Michigan, Wisconsin and Pennsylvania trying to decide between two candidates with very high negatives. Since these three states were decided in Trump’s favor by a total of about 80,000 votes out of over 13 million votes cast, I strongly believe that Trump owes his election to the interference of Putin and his trolls in our electoral processes. 
Trumputin’s Relationship to Russia
Over the years, Trump’s companies have filed for Chapter 11 bankruptcy reorganization at least four times, in 1991, 1992, 2004 and 2009. The banks that loaned Trump money were repeatedly burned by his pulling the rug on his investments and declaring bankruptcy, forcing a restructuring of his debt. He even has boasted about playing the bankruptcy game to transfer his business risk to the banks when his investments went sour, such as his casinos in Atlantic City.
In recent years, Trump has found it difficult to obtain loans from U.S. and Western banks to finance his real estate deals, and has been forced to look elsewhere for financing, first to junk bonds. Since 2000 or so, one of the ready sources of money has been the Russian oligarchs enriched after the privatization and looting of Russia’s public assets by Putin and his friends. In 2008, Donald Trump, Jr. was quoted at a real estate conference as saying that “Russians make up a pretty disproportionate cross-section of a lot of our assets . We see a lot of money pouring in from Russia.” (David Remnick, “Trump and Putin: A Love Story“, The New Yorker, August 3, 2016, quoting from an article in the Washington Post).

Over the past decade or so, Trump was drawn into the web of the Russian financial network, and is now in so deep that he has no way to get out. If the Russian oligarchs who have loaned Trump money pull their plug on Trump’s debt, his empire will collapse.

So gradually, over the past decade or so, Trump was drawn into the web of the Russian financial network, and is now in so deep that he has no way to get out. If the Russian oligarchs who have loaned Trump money pull their plug on Trump’s debt, his empire will collapse. This is the primary reason why Trump cannot disclose his tax returns and assets: it will reveal that he is in hock to Russian money to a huge extent. This will all come out eventually. 
Trumputin Is Putin’s “Useful Idiot”
Most of the Russian money loaned to Trump’s organization originates with friends or associates of Putin, who himself may be the world’s richest man after he gained control of the Russian economy, and looted it savagely for his own purposes. So Putin has Trump by the short hairs, and has made him his “useful idiot”, to use a term coined by Soviet founder Lenin for those foreigners who were duped by the Soviets to say good things about them, sympathizers who blindly supported Communist leaders and could be played like a violin.
Putin was trained as a lawyer, advanced to high levels of the Soviet KGB, and then was able to rise to the top levels of its successor, the Federal Security Service, in 1998. In 2000, he became President of Russia, which he handled off to his own homegrown “useful idiot”, Dmitry Medvedev, and then as Medvedev’s supposed #2 worked the system to regain the Presidency in 2012. Raised as a Communist, is he still one, or is he a “Putinist”, fashioning his own ideology based on greed and Stalinist brutal tactics?
When Trump declared as a candidate for U. S. President, Putin ramped up his U.S. hacking and disinformation operation to try to get Trump elected. At first it was aimed primarily at undermining American democracy by destabilizing the electoral process. However, as it became more successful, such as when the WikiLeaks release of DNC emails forced Debbie Wasserman Schultz to resign as head of the DNC on the eve of the Democratic Convention in August, the intensity of the Putin hacking and disinformation operation increased. It became possible that Trump might win.
And, improbably, “Trumputin” did win. I have previously reported on Donald Trump’s Russian connections (See “He Calls Her ‘Crooked Hillary’; Could He Be ‘Commie Donnie’?“, LAProgressive.com, November 6, 2016). In that article, I mentioned the article by David Corn of Mother Jones stating that a former senior officer for a Western country, who specialized in Russian counterintelligence, has asserted that he provided the FBI with memos from Russian sources contending the Russian government has tried for years to co-opt and assist Trump.
This ex-spy, whom Corn believes is a credible source with a proven record, has asserted that “there was an established exchange of information between the Trump campaign and the Kremlin of mutual benefit”. The ex-spy went on to assert that Trump “and his inner circle have accepted a regular flow of intelligence from the Kremlin, including on his Democratic and other political rivals”, and that the cultivation of Trump had gone on for at least five years. Corn insists that these allegations are not connected to the WikiLeaks documents regarding Hillary’s campaign. Most troubling, the ex-spy asserted that “Russian intelligence had compromised” Trump and could “blackmail him”.
This fits well into my analysis that the origins of this compromise of Trumputin originated in his financial dealings with Russian oligarchs who have loaned him money. There is also a story, reported by Franklin Foer of Slate, that a bank in Moscow, Alfa Bank, was in recent years regularly pinging a server registered to The Trump Organization on Fifth Avenue in Manhattan. A computer expert looked at its data and concluded that “The parties were communicating in a secretive fashion…This is more akin to what criminals syndicates do if they are putting together a project”. It looked to this expert that Trump and Alfa Bank had created something like a digital hotline connecting the two entities, closed to everyone else, and designed to obscure its own existence. 
What It Takes to Become a Traitor
American traitors date back to the time of Benedict Arnold, a trusted general under George Washington in the Revolutionary War who was revealed to be a spy for the British when an aide, Major John Andre, was caught with papers hidden in his shoe which implicated Arnold as a traitor who was trying to swing the war to the British side. However, traitors come in all shapes and sizes, and include American CIA agents who are corrupted by money problems or embarrassing things in their lives that force them to provide classified information to our enemies; they become “useful idiots”. American traitors include the Rosenbergs, who for idealogical reasons in the early 1950s provided important details on America’s nuclear program to the Russians, and were later executed.
Trumputin fits the pattern of someone who could have been trapped by his financial dealings with Russian interests into betraying his country. Has he done so yet? No one knows. Will Trumputin provide the classified 50 page report from the 17 U.S. intelligence agencies, which he received last week, or classified information contained in that report, to Putin? We will know that he has done this if Putin starts killing or “disappearing” some of the human sources revealed in that report. At that point, we will know that Trumputin is a traitor to the United States of America. He would be the totally corrupted Siberian President, or at the very least, Putin’s “useful idiot”, at his beck and call in the future.
The Republicans in Congress, the same party that led the witch hunt to root out Communists in the U.S. government in the decade after World War II, have completely turned a blind eye to Trumputin’s deep ties to Putin and the Russian oligarchs. The GOP leaders have also become Putin’s “useful idiots”. How times have changed.
To date, most American politicians and journalists have danced around discussing what I have outlined above. But the discussion must happen now. in less than two weeks, Trumputin will be inaugurated as our President. Will his Presidency be the end of the 240 year American experiment in democracy, as he dismantles all our hard fought alliances in Europe and Asia? In order to accomplish Putin’s aims, will he dismantle or compromise the American intelligence agencies that pose a threat to his Presidency? Time will tell….
9/1/2017


Inizia la Marcia di Trump
ma la direzione non è chiara
Il tempo delle ipotesi, delle analisi psicologiche, dell’uso fantasioso e spregiudicato degli strumenti di comunicazione è finito: da oggi Trump viene giudicato per i suoi atti di governo
 
di Massimo Gaggi

Sottovalutazione, sorpresa, rabbia, panico. Il rammarico di chi capisce che la sua era è finita, l’entusiasmo di chi si sentiva escluso. Dopo un anno e mezzo di emozioni forti Washington, come tutta l’America, nel giorno dell’«Inauguration» è una tempesta di sentimenti: c’è quella silenziosa che cammina a testa bassa e già rimpiange Obama prima ancora che consegni le chiavi della Casa Bianca al suo successore. E c’è il popolo gioioso dell’America «di mezzo» che vede in «The Donald» il condottiero di un’altra rivoluzione liberale come quella di Reagan. Dimenticando che Ronald aveva una coerenza ideologica e un’esperienza politica (governatore della California) che il nuovo leader non ha. Ma adesso il tempo delle ipotesi, delle analisi psicologiche, dell’uso fantasioso e spregiudicato degli strumenti di comunicazione è finito: da oggi Trump viene giudicato per i suoi atti di governo. Poco spazio per i festeggiamenti e le lune di miele: è stato lui stesso, annunciando a suo tempo alcune scelte-chiave da varare fin dal primo giorno alla Casa Bianca, ad alimentare l’attesa di interventi radicali e immediati: la riforma sanitaria di Obama spazzata via, le misure contro gli immigrati clandestini e quelle contro l’export cinese. E poi, subito dopo, la riforma fiscale e le nuove politiche per l’energia e l’ambiente.
Non sarà facile perché Trump è un presidente inesperto a capo di un governo privo di figure con una rilevante competenza amministrativa. E il processo di conferma dei ministri al Congresso è ancora in alto mare. Ma il nuovo leader deve procedere a passo di corsa anche perché l’alone miracoloso — quello della vittoria conquistata contro tutte le previsioni battendo un «establishment» incapace di capire — che l’ha avvolto da novembre non può durare in eterno. Certo, il nuovo leader ha il vantaggio di doversi confrontare con un’opposizione politica democratica mai così debole, un partito sconfitto, in minoranza alla Camera, al Senato e in gran parte del Paese (33 Stati governati da repubblicani, 16 da democratici).
Ma proprio per questo deve dimostrare subito di avere idee chiare e di meritare la fiducia dei mercati: la prateria che ora sembra spalancata davanti a lui potrebbe ben presto riempirsi di ostacoli, come hanno sperimentato altri «outsider» prima di lui. E Trump, preoccupandosi poco dei potenziali conflitti d’interesse suoi, della sua famiglia e dei suoi ricchi ministri, non ha certo contribuito a tenere questo campo sgombro. A poche ore dal suo insediamento la direzione di marcia non è ancora chiara: sulla sanità ha dato soddisfazione ai repubblicani smantellando a passo di carica l’«Obamacare» considerata dai conservatori una riforma socialistoide, ma poi gli ha fatto gelare il sangue nelle vene promettendo un nuovo tipo di assistenza sanitaria «universale», cioè estesa a tutti i cittadini. Scherza? E se non scherza chi paga? E con quali meccanismi l’attuerà? Anche sull’unico terreno sul quale il Congresso repubblicano è al lavoro da tempo con grande impegno tecnico, la riforma fiscale, Trump ha lasciato senza fiato il suo partito affermando che il progetto elaborato dagli esperti della destra «non va da nessuna parte».
Si delinea uno scenario da «dilettanti allo sbaraglio»? Il sospetto è forte, anche perché Trump sembra molto tentato dalle idee rivoluzionarie del suo consigliere ideologico Steve Bannon che vorrebbe trasformare la più potente nazione del mondo nel laboratorio sociale di un esperimento neoconservatore. E gli esperimenti in politica, si sa, portano facilmente a fallimenti catastrofici: è facile delegittimare e demoralizzare una burocrazia, demolire il poco che funziona, difficilissimo ricostruire una macchina efficiente dai costi accettabili.
Trump, però, è anche un imprenditore che, al di là del linguaggio perennemente di sfida, ha mostrato spesso di avere i piedi per terra. C’è da sperare che, dopo tanti proclami, lo dimostri anche stavolta, a cominciare dalla politica estera. Le scelte del personale di governo — Esteri e Difesa — e la sua recente decisione di confermare nell’incarico molti funzionari dell’amministrazione Obama impegnati nella lotta contro il terrorismo lascia, da questo punto di vista, spazio alla speranza.
Da ieri il nuovo presidente ha un motivo in più per fare presto e bene senza contare sulla classica «honeymoon»: ha il fiato sul collo di Barack Obama che oggi esce di scena ma mantiene un indice di popolarità altissimo e ha fatto la scelta senza precedenti di restare a Washington, pronto ad accendere un faro sulla presidenza Trump se vedrà pericoli istituzionali. Una scelta anomala quella del leader democratico (basti pensare a George Bush che, lasciata la Casa Bianca, sprofondò in un silenzio assordante) ma viviamo in tempi di anomalie senza precedenti e Trump che di questi tempi straordinari è il mattatore, non può certo ribellarsi. Anche perché, dopo essersi falsamente proclamato vincitore «a valanga» delle elezioni, oggi si insedia alla Casa Bianca con l’indice di gradimento più basso mai registrato dalla Gallup durante una transizione presidenziale.
19 gennaio 2017
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La nuova dottrina degli Usa,
isolazionismo e protezionismo

Le dichiarazioni del nuovo Presidente lasciano pensare infatti che stiamo vivendo un novembre 1989 al contrario. Il mondo, così come era stato organizzato alla fine della Seconda guerra mondiale, si basava in effetti su due assi: il libero scambio e la sicurezza collettiva 

di Jean-Marie Colombani

 
L’insediamento del quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non deve farci dimenticare che egli deve la sua elezione alla particolarità dello scrutinio americano, non a un voto popolare: Hillary Clinton ha ottenuto due milioni di voti in più rispetto a Donald Trump, il quale deve il proprio successo al ben misero margine di 11.000 voti ripartiti su tre Stati. Così si spiega certamente il record di impopolarità del nuovo Presidente, che si installa quindi alla Casa Bianca eletto da una minoranza!
Forse la maggior parte degli americani è inquieta; basti osservare come l’aeropago che lo circonda somigli a un Consiglio di amministrazione di Goldman Sachs. E’ l’influenza di Vladimir Putin che già si fa sentire? Fatto sta che, visto il numero di miliardari di cui Trump ha deciso di attorniarsi, il suo governo è una équipe di oligarchi.
Per quanto riguarda noi europei, abbiamo motivo d’essere ancora più inquieti. Le dichiarazioni del nuovo Presidente lasciano pensare infatti che stiamo vivendo un novembre 1989 al contrario. Ieri, un duplice processo — «contenimento» dell’impero sovietico e «sviluppo», che con il suo effetto contagio è stato decisivo — ha consentito la disfatta dell’Urss. Il mondo, così come era stato organizzato alla fine della Seconda guerra mondiale, si basava in effetti su due assi: il libero scambio e la sicurezza collettiva. L’uno e l’altra sono rimessi in causa da Donald Trump, la cui dottrina è protezionista e isolazionista. Egli dichiara di voler rimettere in discussione gli accordi commerciali, in particolare nel continente americano e in Asia, con il rischio di scatenare guerre commerciali; e gli accordi sulla sicurezza, dichiarando «obsoleta» la Nato. Che Putin si faccia minaccioso alle frontiere dell’Unione europea, non sembra preoccuparlo.
Da un punto di vista americano, Putin è un problema secondario: la Russia è una potenza media, che può certo creare problemi agli Stati Uniti, ma solo marginalmente. Come in Siria, per esempio. Ma la strategia americana di ripiego, iniziata da Barack Obama, gli ha facilitato il compito. La Cina è l’unica potenza che possa rivaleggiare con gli Stati Uniti. Essa sarà, già lo è, la sola ossessione dell’America di Trump.
Vladimir Putin rappresenta invece un problema, se non una minaccia, per l’Europa, e soltanto per essa. Infatti il Presidente russo si è fissato l’obiettivo di indebolire l’Unione europea, al fine di ristabilire il ruolo di tutore che l’Urss esercitava ad Est dell’Europa, a spese di paesi che oggi sono membri della Ue e della Nato. Ebbene, tutto fa pensare che Trump condivida lo stesso obiettivo: indebolire l’Europa.
In effetti Trump, per le questioni europee, si ispira a Nigel Farage, ex Presidente dell’Ukip e punta di diamante della campagna per la Brexit, il cui fine politico è ormai di ottenere lo smantellamento dell’Unione europea. Così si spiegano il pronostico formulato da Trump sulla prossima morte dell’Europa, e i suoi accenti anti-tedeschi. Nel nuovo Presidente americano ritroviamo gli elementi di linguaggio di tutti i partiti populisti ed estremisti che hanno come comune dottrina l’ostilità nei confronti della costruzione europea. Ecco dunque, a Est come a Ovest, che l’Europa è stretta come in una morsa!
A questo bisogna aggiungere l’adesione — dovremmo dire la resa — senza condizioni del nuovo governo britannico a tale lotta anti-europea: Theresa May si muove subito sulle orme di Trump, il che la porta a optare per una Brexit «dura», cioè per una uscita dal mercato unico e dall’unione doganale, accompagnata dalla promessa di fare della Gran Bretagna un enorme paradiso fiscale alle porte del Continente. Questa congiunzione negativa sopravviene in un momento particolarmente delicato nella vita dell’Unione europea, paralizzata o quasi dalla preparazione delle prossime elezioni in Francia, e dopo in Germania: due Paesi senza il cui accordo la Ue non esisterebbe più...
Per tentare comunque di convincerci che il peggio non è mai certo, l’inventario delle divergenze espresse proprio dalle persone che il Presidente americano ha appena nominato può aiutarci: Rex Tillerson, ex presidente del gigante petrolifero Exxon, futuro Segretario di Stato, ha garantito che sosterrà il Trattato Trans-Pacifico che Trump ha promesso di smantellare; promette una diplomazia della dissuasione nei confronti della Russia, mentre Trump evoca una soppressione incondizionata delle sanzioni economiche decise dopo l’invasione della Crimea. L’attuale direttore della Cia, come il prossimo, Mike Pompeo, mettono in guardia il Presidente americano contro il pericolo che rappresenta, secondo loro, il suo gusto per dichiarazioni intempestive. Quanto a James Mattis, consigliere per la Sicurezza, egli reputa «importante riconoscere» che Vladimir Putin cerca di «smantellare» la Nato. Questa lista non è limitativa.
(traduzione di Daniela Maggioni)
20 gennaio 2017
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«Falsità? No, fatti alternativi»
L’era di Donald Trump
e la nuova strategia anti-media

Così Kellyanne Conway, consigliera del cerchio magico del neopresidente, ha definito le false informazione fornite dal portavoce della Casa Bianca sulla partecipazione alla cerimonia di insediamento 

di Serena Danna

«Fatti alternativi». Così Kellyanne Conway, consigliera del cerchio magico di Trump, ha definito le false informazione fornite dal portavoce della Casa Bianca durante la prima conferenza stampa dell’era Trump. Sean Spicer ha fatto il suo debutto con i giornalisti bacchettandoli per i resoconti sulla cerimonia di insediamento e sventolando dati favorevoli sulla partecipazione. Sono bastati pochi minuti e qualche fotografia aerea per smentire le affermazioni di Spicer, ma non la propaganda della squadra del presidente. Eppure, quando durante la trasmissione di Nbc Meet the Press il presentatore ha fatto notare a Conway che le informazioni fornite da Spicer erano false, la consigliera ha risposto serena: «Non drammatizziamo, Chuck. Tu dici che è una falsità, ma lui ha dato fatti alternativi».
Nessuna sorpresa
Non opinioni alternative – legittime e auspicabili in un sistema democratico - ma fatti, dunque verità. Da un certo punto di vista, nessuna sorpresa: la campagna elettorale di Trump è stata caratterizzata da continue affermazioni false spacciate come verità (al punto che l’Economist ha battezzato la sua, nostra epoca come quella della post-verità), eppure molti pensavano che alla Casa Bianca l’atteggiamento del tycoon sarebbe cambiato. Poche ore di presidenza hanno dimostrato il contrario: è solo l’inizio di una nuova maniera di intendere e proporre la realtà agli elettori.
La rivoluzione del neopresidente
Forse anche da qui passa la rivoluzione di Trump: se il potere è dei cittadini, i cittadini hanno diritto non solo alle loro opinioni, ma anche ai loro personalissimi fatti – quelli che trovano ampio spazio e risonanza su internet. Un cambiamento radicale rispetto al passato: come ha fatto notare il New York Times, l’eccezionalismo americano ha sempre avuto tra i suoi pilastri l’accountability (la responsabilità delle proprie azioni) e la stampa libera. Difatti, una delle ferite ancora aperte della reputazione del Paese riguarda le «bugie» sulla guerra in Iraq. Eppure, stando alle prime mosse, l’amministrazione Trump sembra voler trovare i capisaldi «maga» (Make America Great Again) lontano dalla verità verificabile attraverso i dati.
Cosa può succedere adesso
Non è un caso se centinaia di scienziati hanno dedicato gli ultimi due mesi a copiare e archiviare dati e statistiche sul cambiamento climatico. La loro paura è che, dopo averlo cancellato dalle priorità di governo (e dal sito della Casa Bianca), l’amministrazione possa manipolare i numeri per convincere i cittadini della loro «verità alternativa»: ovvero che il climate change non esiste. La stessa cosa potrebbe succedere con i dati sul lavoro, sulla sanità, sulla scuola. «Di sicuro possono averlo fatto anche prima di Trump – ha scritto su Forbes Erik Sherman –, ma l’amministrazione Trump è la prima a dichiarare esplicitamente l’abilità e il diritto di sostituire i fatti con qualcosa di più conveniente che non ha base nella realtà».
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