Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

domenica 30 dicembre 2018

Inglobati


Global Compact, se il governo italiano sceglie di non esserci

Nell’ostilità al Global Compact for Migrations l’Italia fa squadra con l’Ungheria di Viktor Orbán, che con i sovranisti di casa nostra ha in comune l’ostilità per la cultura, verso i migranti e per la stampa libera. Ma oltre a essere un’alleata un po’ riottosa che non sempre ci è fedele, per noi oggi l’Ungheria è anche uno specchio magico utile per capire dove finiremo con il Movimento 5 Stelle e la Lega al governo

DI ROBERTO SAVIANO
La Repubblica - 20 DICEMBRE 2018

Il dibattito sul Global Compact alla Camera (seguita rigorosamente su Radio Radicale) ci dà, su questo governo, un’altra informazione, e cioè che l’importante per i suoi rappresentanti è sempre posticipare, non decidere, non firmare: in definitiva, non esserci. Non esserci in Europa quando si decide in materia di immigrazione (vedi il Salvini europarlamentare assenteista), non esserci a Marrakech gli scorsi 10 e 11 dicembre, quando è stato formalmente approvato il testo del Global Compact di fronte ai rappresentanti di 150 paesi del mondo. Assente Conte, assente l’Italia. E qui c’è un corollario: con la mancata presenza fisica dove sarebbe invece necessario esserci, fa il paio una presenza eccessiva, tanto da risultare risibile, dove nella sostanza del fare politica è completamente inutile essere, ovvero sui social. E però questo basta, oggi, per dire: io c’ero. Non importa dove e non importa se a Marrakech a discutere di immigrazione o mentre sui social si mostra un piatto di crepes inondate di besciamella (ormai i social di Salvini sembrano la succursale della Prova del cuoco). Resterà la sensazione della presenza: lui c’era, era con me mentre scorrevo la home di Facebook. Tocca a noi, forse, spiegare che postare foto di uova al tegamino, se sei il ministro degli Interni, non è esattamente la stessa cosa che essere dove si decidono le sorti dell’Europa e quelle di milioni di esseri umani, compresi gli italiani che verrebbero prima. 

Questione di lana caprina? No. Non direi. Perché non esserci, se sei al governo e sei stato votato (ribaltando l’assioma caro ai Salvini e ai Di Maio: se non volevi esserci non ti candidavi), non è un’opzione possibile. Ma viene il dubbio che l’assenza serva a dire: io non c’entro, non ero d’accordo, se fosse dipeso da me le cose sarebbero andate diversamente. Ma questo discorso è valido prima di entrare nella stanza dei bottoni, dopo tocca decidere, farlo in maniera chiara e, possibilmente, nell’interesse del Paese. Ma l’assenza (mentre tutto questo accadeva stavo mangiando una pizza, testimoni i fan di Facebook) è necessaria per poter puntare il dito su qualcun altro. L’Europa, i giornaloni, gli esperti, le Ong, gli intellettuali.
Ma l’Italia, anzi, i politicanti che la governano, non sono soli, fanno squadra con altri politicanti con cui condividono presenze, assenze e forse anche uova al tegamino. 
Nell’ostilità al Global Compact for Migrations (torna la distinzione: i rifugiati sì, ma i migranti non li vogliamo) l’Italia fa squadra con l’Ungheria di Viktor Orbán, che con i sovranisti di casa nostra ha in comune l’ostilità per la cultura, verso i migranti e per la stampa libera. Ma oltre a essere un’alleata un po’ riottosa che non sempre ci è fedele, per noi oggi l’Ungheria è anche uno strumento di chiaroveggenza, uno specchio magico utile per capire dove finiremo con il Movimento 5 Stelle e la Lega al governo. E finiremo come chi è rimasto in silenzio mentre la stampa libera subiva colpi mortali (il mantra era: viviamo in democrazia, no? A cosa serve l’informazione?), mentre i centri del sapere venivano chiusi e banditi (chi doveva studiare in Ungheria ha studiato, gli altri si accontenteranno di Wikipedia), mentre la magistratura veniva assoggettata al governo (c’è una legge votata di recente dal Parlamento magiaro che affida la nomina di magistrati al ministro della Giustizia).
Finiremo come l’Ungheria, che oggi scende in piazza per manifestare contro quella che viene definita la «legge schiavitù», una norma appena approvata dal Parlamento che aumenta di 150 (da 250 a 400) il monte ore annuale degli straordinari che - su richiesta dei datori di lavoro - i dipendenti faranno e che difficilmente rifiuteranno di fare dato che i salari medi non arrivano a 1.000 euro al mese. Ma queste 150 ore aggiuntive potranno essere retribuite in tre anni, dunque il concetto è: prendiamo per la gola gli affamati, sfruttiamoli oggi che poi per pagarli c’è sempre tempo. E oltre alla norma in sé, è drammatica la motivazione che ha portato il Parlamento a votarla e che ha reso necessaria la sua formulazione: la scarsità di manodopera. Scarsità dovuta principalmente alla chiusura delle frontiere ai migranti e all’emorragia di ungheresi che lasciano il Paese. Vi ricorda qualcosa? No perché invece dovrebbe.
Ma per il premier Orbán e per i suoi fedelissimi, se gli ungheresi scendono in piazza non è perché vivono male, ma è per colpa di Soros: un capro espiatorio per ogni male e per ogni stagione.
Esattamente due anni fa apparve un video su Internet risalente alla fine degli anni Ottanta, a parlare era Viktor Orbán che raccontava della sua borsa di studio finanziata dalla fondazione di Soros. Avete capito bene: Orbán che era tra i principali oppositori del regime comunista, aveva ottenuto una borsa di studio da Soros che finanziava, appunto, gli oppositori al regime comunista.
Ma Orbán non è il solo ad aver studiato grazie a una borsa di studio finanziata dal suo nemico numero uno. Zoltán Kovács, Segretario di Stato ungherese e strenuo detrattore di Soros, negli anni Novanta aveva studiato ad Oxford proprio grazie a una borsa di studio da lui finanziata. E così Maria Schmidt, storica e ideologa di Orbán. Anche lei ha goduto di una borsa di studio finanziata da Soros e suo figlio ha ottenuto un dottorato all’Università dell’Europa Centrale, una delle migliori del Paese, fondata da Soros nel 1991 e che rischia di dover lasciare il Paese a causa della cosiddetta “legge Soros”, votata nel 2017 e che impone a tutte le università straniere in Ungheria di avere un campus anche nel loro Paese d’origine, che in questo caso sono gli Stati Uniti. “Mica perché sei miliardario puoi decidere autonomamente di fondare e finanziare una università?”, queste le critiche a Soros da chi, però, aveva goduto di borse di studio da lui finanziate e che ha avuto gioco facile a convincere i tanti sofferenti cui non bastano i soldi per arrivare a fine mese.
Gli attacchi a Soros e alla sua opera filantropica seguono due filoni, da un lato la guerra senza quartiere alle Ong da lui finanziate che tramerebbero per inondare l’Ungheria di immigrati (Luigi Di Maio con i suoi “taxi del mare” non ha inventato niente, ha semplicemente guardato all’Ungheria e preso ispirazione), dall’altro l’attacco alla cultura, sul presupposto che non sia un bene primario, che siccome siamo in democrazia (non importa quanto illiberale), studiare e informarsi sono pratiche superflue. Vi ricorda qualcosa? No perché invece dovrebbe. 
Ora, cosa deve accadere in Italia per capire che abbiamo preso una direzione che non prevede, in nessuna delle sue fasi, che vengano - come da slogan - prima gli italiani? 

venerdì 7 dicembre 2018

Silenziatori

Non spegnete Radio Radicale voce per tutti

Proprio quel Movimento e quel governo che si presentano come difensori dei diritti del “popolo” impediscono poi al “popolo” di avere accesso alla conoscenza, determinando la chiusura di realtà fondamentali
La furia di questo governo si abbatte sui media più piccoli - ma non marginali - che a causa dei tagli all'editoria rischiano la sopravvivenza. La giustificazione? Il risparmio. Ma si può mai risparmiare su Radio Radicale che ci permette di assistere e comprendere i processi decisionali entrando nelle stanze del potere? Si può risparmiare su Avvenire che racconta, ogni giorno e quasi da solo, le sorti dei migranti in mare? Si può risparmiare sul Manifesto che è rimasto tra i pochissimi quotidiani a occuparsi con assiduità di temi sociali con un taglio diverso, mai banale? Proprio quel Movimento e quel governo che si presentano come difensori dei diritti del "popolo" impediscono poi al "popolo" di avere accesso alla conoscenza, determinando la chiusura di realtà fondamentali. Mai nessun governo, da quando esiste la convenzione con Radio Radicale, aveva osato tanto. Mai.

L'ultima battaglia di Marco Pannella, fondatore di Radio Radicale, è stata per il diritto alla conoscenza che in apparenza sembra una cosa tanto banale e scontata, ma ovviamente non lo è. Diritto alla conoscenza non significa diritto ad accedere a internet o possibilità di acquistare un quotidiano, ma il diritto che ciascuno di noi ha a conoscere ciò che davvero accade nelle stanze del potere. E siccome Pannella prima agiva e poi comunicava, nel 1975 fonda la radio, un organo di informazione fondamentale che, negli ultimi 40 anni, ha fatto entrare il cittadino in Parlamento per ascoltare le sue sedute, nelle aule di giustizia per assistere in maniera integrale ai processi più importanti, nei congressi dei partiti fino alle sedute del Consiglio superiore della magistratura. E tutto questo è la reificazione del controllo sociale sul Potere e sul suo esercizio di cui si nutre una sana democrazia.

Il punto è tutto qui: esiste una politica che preferisce cittadini disinformati - resi timorosi e pieni di rancore da semplificazioni della realtà che sono veri e propri attacchi alla democrazia - ed esisteva, perché adesso non esiste più, una politica capace di volere bene e esortare in maniera sfrontata, quasi impertinente - come faceva Pannella - a non avere paura del prossimo, ma fiducia nelle persone e nella conoscenza. Una politica che invitava a rivolgere l'attenzione agli ultimi, a chi sta in carcere perché ha sbagliato e sta pagando, meritando al contempo un'occasione di reinserimento tra noi. Una politica in grado di non esasperare le differenze, ma di mostrare le vicinanze. Pannella era l'uomo della gente, non del "popolo". Uno che se gli avessi chiesto un selfie, prima avrebbe accettato ma poi ti avrebbe coinvolto nella raccolta delle firme necessarie a dare supporto alle iniziative del Partito Radicale. Una razza rara che oggi siamo costretti a rimpiangere. Radio Radicale è per noi un dono prezioso: la radio che sta "dentro, ma fuori dal palazzo", come ogni mattina ci ricorda la bella (per sempre) voce di Dino Marafioti; la radio che consente a chiunque di sapere ciò che accade in Turchia, in Cina, in Europa, negli Stati Uniti, nel Mediterraneo, in Africa, sulle droghe, nei tribunali, nelle carceri, nel mondo culturale.

La radio dove tutti i politici sono ascoltati e dove tutti i giornalisti hanno un solo obiettivo: rendere il miglior servizio possibile agli ascoltatori. La radio di Antonio Russo. Perdere Radio Radicale significa perdere un patrimonio preziosissimo, e non ce lo possiamo permettere. Radio Radicale ha subito il taglio del 50% della convenzione che ha con il Mise, e questo significa la chiusura per una radio che non ha pubblicità con la quale sostenersi, perché è l'unico media di servizio pubblico integrale. Lo sa questo Vito Crimi, sottosegretario all'editoria, per il quale gli organi di informazione fanno troppa politica? Ma a Crimi - parlamentare da più di cinque anni - sfugge il significato stesso della parola politica. Fare politica significa occuparsi di ciò che accade perché tutto, nella nostra vita, è politica. Crimi non sa che la sua società ideale, quella in cui i media non esprimono più opinioni ma si limitano a "raccontare i fatti" non è una novità: la mancanza di opinioni pubbliche e quindi della possibilità che vi sia una pubblica opinione, è stata il tratto distintivo di tutti i regimi totalitari.

Non a caso il principale organo di informazione dell'Unione Sovietica si chiamava Pravda, come se oggi un giornale si chiamasse La Verità, senza che a nessuno venisse da ridere. Crimi probabilmente tutto questo lo ignora, ma altri, nel suo Movimento, con l'armamentario tipico dei regimi totalitari hanno maggiore confidenza: basti pensare all'orrida autocritica cui è stato costretto il padre di Luigi Di Maio. Del resto la libertà un popolo la può perdere a causa di perfidi aguzzini, ma di solito la strada la lastricano gli inconsapevoli, di se stessi e del mondo. L'8 dicembre il Ministro della Mala Vita porta in piazza i suoi sostenitori, per far vedere che il culto della sua personalità non si nutre di soli like, ma di persone in carne ed ossa, che sono state invitate a partecipare anche sul presupposto che io, come molti altri, non ci saremo. Non perché ci sia vietato, ma perché saremmo diversi da tutti quelli che ci saranno.

Penso a Pannella e, se anche in quella piazza non ci sarò, so che dovrei esserci. Dovrei essere accanto non a quella che qualcuno chiama l'Italia peggiore, ma accanto all'Italia che si sente peggio trattata e che crede, sbagliando, che la risposta possa offrirla questo governo. Dovrei esserci per dire a tutte le persone accanto a me di accendere la radio e di ascoltare Radio Radicale, di farsi questo regalo, per una settimana: sarà come un risveglio dal sonno. Poi magari continueranno a sostenere questo governo, ma lo faranno in maniera più consapevole, più informata. La conoscenza passa necessariamente per la pluralità dell'informazione, per l'informazione che vi piace e con cui vi trovate d'accordo e per quella che mai riuscirete a condividere.

La conoscenza passa per le opinioni, non per il racconto asettico dei fatti, un racconto che non esiste, e chi lo auspica è un truffatore. E allora, contro questi nuovi barbari - che si fingono amanti di selfie e gattini e che non esitano a infliggere, per ambizione, pubblica umiliazione ai propri familiari - abbiamo una sola alternativa: difendere ciò che di prezioso abbiamo, la nostra libertà di informarci. Difendiamo Radio Radicale ascoltandola, mostrando quanto sia necessaria, perché oggi Radio Radicale garantisce il nostro diritto alla conoscenza ed è un'arma pacifica a disposizione di tutti, per resistere a chi nulla sa e nulla vuole sapere. A tutti quelli che, per mantenere il potere, pretendono che venga raccontata solo "la verità", la loro verità.

mercoledì 5 dicembre 2018

Chiarezze





Oliviero Toscani: Salvini imbecille, gli faccio causa per la foto

Roma, 4 dic. (askanews) - Il leader della Lega Matteo Salvini è "un imbecille totale. E non vorrei insultare gli imbecilli. Sono orgoglioso di essere un nemico di Salvini. E' giusto così. Ha capito quali sono i suoi nemici. Perfetto, sono fiero di essere un nemico di Salvini. Però gli faccio causa lo stesso perché la mia immagine non va sfruttata. I soldi li deve pagare per usare una mia foto. Pensate, mio nipote sarà felice di sapere che suo nonno, cioè io, era fortemente contrario a Salvini. E comunque non possono usarla quella foto. Che cretinata questa delle foto. Una roba da scemo. Una roba di provincia proprio". Lo ha detto il fotografo Oliviero Toscani a La Zanzara su Radio 24.
"Sono contento - ha detto ancora - di essere in quelle foto, sono felice di essere ufficialmente un nemico di Salvini. Ha fatto come ai tempi di Mussolini. E' fantastico, un nemico ufficiale. Non credo nella sua politica, credo sia un imbecille e lo dico ad alta voce. Salvini è un imbecille totale. E non vorrei insultare gli imbecilli. Sono orgoglioso di essere un nemico di Salvini. E' giusto così. Ha capito quali sono i suoi nemici. Perfetto, sono fiero di essere un nemico di Salvini".
"Però - ha concluso Toscani - gli faccio causa lo stesso perché la mia immagine non va sfruttata. I soldi li deve pagare per usare una mia foto".



“L’errore vergognoso che ha commesso il Pd” secondo il regista Nanni Moretti
"Sono elettore fedele e per questo mi incazzo"

03 Dic. 2018
Ospite da Fabio Fazio per presentare il docufilm “Santiago Italia”, il regista Nanni Moretti in qualità di “fedele elettore” della sinistra ha espresso il suo pensiero sul Partito Democratico di oggi.
“È stato molto brutto negli anni scorsi vedere il Partito democratico non fare quella battaglia giusta di civiltà, quella battaglia umana per la riforma di cittadinanza, il cosiddetto Ius soli per dare la cittadinanza a bambini nati in Italia oppure che hanno fatto 5 anni di studi. Sono bambini, ragazzi italiani che parlano italiano, ma non solo, parlano anche i nostri dialetti. Ecco tu in questo
Quella è stata una battaglia non fatta ed è stato veramente un errore per me vergognoso e incomprensibile. Tu mi dirai, ma perché ti accalori tanto? Siccome sono rimasto uno dei pochi elettori fedele al Partito Democratico allora mi incazzo”. E così Nanni Moretti ha risposto a Fabio Fazio quando ha chiesto a chi farebbe oggi la sua storica battuta “dì qualcosa di sinistra”.
Il vicepremier e ministro degli Interni Matteo Salvini ha pubblicato un tweet in cui attacca Nanni Moretti, definito sarcasticamente dal leader della Lega “regista radical-chic”. Con questo tweet Salvini ha voluto rispondere al regista dopo l’uscita della sua intervista, condotta dal direttore di Repubblica Mario Calabresi e pubblicata il 30 novembre proprio sul Venerdì di Repubblica.
Infatti, durante l’intervista in cui Nanni Moretti parla del suo ultimo film, Santiago, Italia, a un certo punto il direttore Calabresi gli domanda come mai abbia deciso di parlare proprio oggi del golpe in Cile. Ed è stata la risposta del regista ad animare lo scontro con il vicepremier: “Mentre giravo me lo chiedevano spesso e non sapevo cosa rispondere. Poi finite le riprese, è diventato ministro dell’Interno Matteo Salvini e allora ho capito perché avevo girato quel film. L’ho capito a posteriori”.
"Ci sono forze politiche che vengono votate non nonostante la loro violenza verbale - dice alludendo alla Lega e al M5S - ma proprio perché ne fanno uso. La solidarietà, l'umanità, la curiosità e la compassione verso gli altri sembrano essere bandite... C’ è uno slittamento progressivo ma inarrestabile verso la mancanza di umanità".
 

mercoledì 28 novembre 2018

Populist chic


Il populismo? È una cosa da milionari

Per essere populisti ci vogliono tanti soldi: un’inchiesta tedesca lega un super-ricco ai populisti di Afd e nel resto del mondo, da Le Pen a Grillo, la musica non cambia

di Paolo Mossetti       WIRED  27 Nov, 2018
Milionari di tutti il mondo, unitevi: non avete da perdere altro che le vostre gardenie. Saranno anche dalla parte della gente comune nella lotta campale contro la globalizzazione, ma diversi tra i populisti più in voga del momento hanno un legame difficile da conciliare con la nomea di portavoce della gente comune: sono finanziati dagli ultra-ricchi. Uno dei fil rouge del populismo internazionale, più che il sovranismo o la lotta contro le élite, è rappresentato proprio da fondi e frequentazioni di derivazione poco popolare: l’ultimo caso, in linea di tempo, viene dalla Germania.
La destra tedesca
L’ultima inchiesta riguarda il partito nazionalista tedesco Afd (Alternative für Deutschland), che secondo lo Spiegel sarebbe stata sponsorizzata, fin dal 2013, da August von Finck, un miliardario di Monaco di Baviera. Il suo nome è emerso in un’indagine riguardante il presunto uso di fondi neri da parte dell’Afd, che attualmente contende al partito dei Verdi il secondo posto nei sondaggi in Germania. Un giornale che sarebbe dovuto servire come veicolo per la propaganda elettorale del partito, il Deutscheland Kurier, sarebbe stato finanziato con denaro occulto prestato da un plenipotenziario dell’anziano imprenditore, che si trova al sedicesimo posto della lista di Forbes degli uomini più ricchi del mondo, con una fortuna stimata in 8,6 miliardi di dollari.
Von Finck, attivo tra l’altro nei settori della ristorazione e alberghiero, è nipote del banchiere Wilhelm von Finck (1848-1924) fondatore del colosso assicurativo Allianz e della banca d’affari Merck Finck, e figlio di August von Finck (1898-1980) un industriale che fu tra i principali sostenitori di Adolf Hitler a partire dal 1931, nonché uno di quelli a beneficiare maggiormente dall’annessione dell’Austria.
 August stanziò un fondo elettorale di tre milioni di marchi per il partito nazista nel 1933 ed era seduto nel consiglio generale per l’economia del Terzo Reich; suo figlio aveva già sponsorizzato la Csu bavarese e la coalizione dei Liberi elettori, e fatto una pesante attività di lobbying per vendicarsi di una tassa sugli albergatori imposta dai cristiano-sociali.
Il caso Marine Le Pen
Ma il binomio populismo di destra-mecenati super-ricchi riguarda anche la Francia. Marine Le Pen, leader del Front National (ora Raggruppamento Nazionale) si è presentata come l’unico baluardo contro le roi de l’argent Emmanuel Macron, nella speranza di sedurre l’elettorato sinistrorso del socialista Jean-Luc Mélenchon. I suoi cavalli di battaglia sono l’aperta ostilità contro i plutocrati di Bruxelles e la società multiculturale, e sotto l’ala protettiva di Le Pen sono finiti molti disoccupati, i cittadini preoccupati dei sobborghi e delle zone rurali, oltre che una fetta considerevole della borghesia cittadina.
In questi ultimi anni, numerose riviste hanno scavato negli archivi della famiglia Le Pen per documentare la sua lotta contro le élite globali e i fautori del libero scambio. La tenuta di Montretout, un gigantesco castello poco fuori Parigi, è la casa dove Le Pen ha trascorso la sua giovinezza dopo che suo padre era stato vittima di un attentato nel 1976; era stata lasciata in eredità al genitore da Hubert Lambert, un ricchissimo imprenditore del cemento che ha visto in Jean-Marie Le Pen il salvatore della patria.
In una foto dell’aprile 1988 Marine Le Pen si fece ritrarre con il conte Michel de Rostolan, un altro finanziatore e simpatizzante dell’estrema destra, mentre beveva un cocktail sotto le palme delle Indie occidentali. E in una biografia non autorizzata dedicata a Le Pen, la giornalista Renaud Dély spiega che all’erede nazionalista piaceva particolarmente andare in vacanza nei Caraibi.
Nonostante il background facoltoso della sua icona, Il Front National è stato investito da numerosi scandali finanziari: uno riguarda i presunti impieghi fittizi di alcuni assistenti parlamentari di Strasburgo e accusa il partito di aver istituito un sistema di finanziamento fraudolento per tutte le sue campagne elettorali, mentre a Marine Le Pen è imputato di aver sottostimato il valore di diverse proprietà che possiede – in comune con suo padre Jean Marie – di fronte al fisco francese. Un altro contenzioso fiscale riguarda la lussuosa casa di famiglia di Rueil-Malmaison, vicino a Parigi, di cui la leader del Fn possiede la parte più importante: anche in questo caso il valore sarebbe stato abbassato rispetto a quello effettivo.
E, in Italia, Beppe Grillo e Casaleggio
In Italia, una parte sostanziale dell’indignazione contro le élite globali e il ceto politico degli anni Novanta e Duemila è stata intercettata e riorganizzata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, due uomini facoltosi ultrasessantenni con un passato importante nel settore dell’intrattenimento e del marketing. Nel 2013 la Casaleggio Associati, srl milanese di consulenza in ambito digitale che gestisce il blog di Grillo, fatturava 2 milioni di euro; due anni dopo il fatturato era quasi dimezzato.
Quello che sono riusciti a creare Grillo e Casaleggio è un vero e proprio marchio politico ed economico, dalla struttura interna rigidamente controllata e con un sistema operativo proprietario, Rousseau (che non di rado ha dato segno di instabilità, mancanza di trasparenza e fragilità). Con questa formula sono riusciti a prendere in prestito slogan e idee tradizionalmente appannaggio dei movimenti della sinistra radicale e del volontarismo cattolico, creando un mix di proposte che a seconda della convenienza potevano apparire neoliberiste oppure stataliste, progressiste o regressive, xenofobe oppure solidaristiche.
Per quanto il successo del Movimento 5 stelle sia da attribuire in larga parte alla fiacchezza del ceto politico che l’ha preceduto, senza il lavoro dei due fondatori milionari probabilmente non sarebbe mai nata la rete di meetup che ha costituito l’ossatura del partito. Stando agli ultimi dati divulgati dai media, Beppe Grillo – che nel 2013 dichiarava in un’intervista a Enrico Mentana di avere un 730 “pari a zero” – tra il 2017 e il 2018 ha moltiplicato di sei grandezze i suoi guadagni, passando a un totale di 420mila euro. C’è poi la questione dei guadagni tramite il blog: nel 2014 Repubblica, seguendo in prima persona le aste per le sponsorizzate sulle sue pagine, aveva stabilito che il guadagno medio doveva attestarti attorno ai 600mila euro annui.
Donald Trump, il tycoon
È di metà ottobre un servizio esplosivo del New York Times che racconta la vastissima storia di frodi fiscali messa su dalla famiglia Trump, usando una varietà di tecniche di riciclaggio di denaro per eludere il fisco americano. 
Secondo il quotidiano, che ha citato “una vasta gamma di documenti confidenziali finanziari e riguardanti dichiarazioni dei redditi“, il presidente degli Stati Uniti ha ricevuto dal padre Fred, un famoso immobiliarista, beni per 413 milioni di dollari. Questo si scontra con la storia del self-made man da sempre propagandata da Trump, che si vanta di essersi arricchito da solo con un solo piccolo prestito concessogli dal padre.
Per il Times, invece, alla radice dell’avventura imprenditoriale di Trump ci sarebbe “un’azienda fasulla per nascondere milioni di dollari di regali fatti a loro dai genitori“. Trump e i suoi portavoce ovviamente hanno negato tutto, insultando il lavoro del giornale: del resto, dai fatti contestati è passato così tanto tempo che tutto cadrebbe comunque in prescrizione.
Ma tra i dettagli più sorprendenti dell’inchiesta c’è la nota su quanto Trump guadagnava da bambino: “All’età di tre anni, Trump guadagnava 200mila dollari di oggi grazie all’impero del padre. Era un milionario all’età di 8 anni. E diventato 17enne, il padre gli diede parte della proprietà di un palazzo con 52 appartamenti. Poco dopo essersi laureato, Trump riceveva dal padre quello che oggi sarebbe un milione di dollari l’anno. Il denaro aumentò nel corso degli anni, fino a oltre 5 milioni di dollari l’anno tra i 40 e i 50 anni di età“. Nel 2017 Trump risultava la 248esima persona più ricca d’America, con un patrimonio stimato in 3,1 miliardi di dollari.
Secondo l’economista premio Nobel Paul Krugman, “un’implicazione di queste rivelazioni è che i sostenitori di Trump, che si immaginano di aver trovato un paladino che dice le cose come stanno e fa piazza pulita del marcio di Washington mentre usa il suo acume imprenditoriale per tornare a far grande l’America, si sono fatti abbindolare”.