Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

mercoledì 20 dicembre 2017

Metodo putiniano /Italia

L'accusa di Biden sulla propaganda russa in Italia non è una novità

L'ex vice presidente americano parla del sostegno di Mosca a Lega nord e M5s. Nient'altro che una conferma di quanto già affermato dalle testimonianze degli stessi grillini. Perché la minaccia del Cremlino non va sottovalutata, né sopravvalutata
Il Foglio - 8 Dicembre 2017
L'accusa di Biden sulla propaganda russa in Italia non è una novità
Secondo Joe Biden, ex vicepresidente degli Stati Uniti, la Russia ha agito per fare fallire il referendum costituzionale italiano del 4 dicembre dello scorso anno e starebbe ancora cercando di influenzare il nostro quadro politico attraverso Lega nord e Movimento cinque stelle. Biden lo dice in appena qualche riga di un lungo articolo pubblicato sulla rivista Foreign Affairs e firmato assieme a Michael Carpenter, che fu vicesegretario assistente alla Difesa tra il 2015 e il 2017.
“Bisogna saper perdere. E soprattutto bisogna rispettare il voto. Un anno fa l'allora governo americano e quello italiano puntarono sulla vittoria del Sì al referendum. Oggi Biden dice che è colpa della Russia, come dice che è colpa della Russia se Trump ha vinto e il suo partito ha perso. Biden si spinge oltre e dice che la Russia sta aiutando il Movimento 5 stelle. L'ex vicepresidente Usa non porta nessuna prova. Questo è inaccettabile”, hanno commentato i Cinque stelle via Facebook.
Eppure c’è una quantità di studi, documenti e testimonianze che vanno proprio nel senso indicato da Biden. In particolare c’è “Supernova”, il libro sui Cinque stelle scritto da due ex membri che erano arrivati nella stanza dei bottoni del M5s: Marco Canestrari, un web developer dal 2007 al 2010 braccio destro di Gianroberto Casaleggio, e Nicola Biondo, che ha diretto l'ufficio comunicazione M5s alla Camera. Sono loro a scrivere nero su bianco che “anche Alessandro Di Battista, ministro degli Esteri in pectore in un possibile governo dei Cinque stelle, ha il suo Russian Style. E mica lo nasconde. ‘Che ne dite di farci dare una mano per la campagna sul referendum costituzionale dall’ambasciatore russo? Con tutto quello che stiamo facendo per loro…’ A parlare così è proprio Di Battista. Parole pronunciate negli uffici del gruppo parlamentare tra ottobre e novembre 2016, quando ancora non erano uscite inchieste sulle affinità tra la propaganda pro-Putin e quella del M5s”.
Significativo è anche “The Kremlin’s Trojan Horses 2.0: Russian Influence in Greece, Italy, and Spain”, un rapporto dell’Atlantic Council che è stato presentato al Centro studi americani di Roma lo scorso 15 novembre. In questo documento si dice tra l’altro che “nell’ottobre 2016 alcuni media internazionali russi iniziarono a fare campagna per indebolire il voto per il Sì (pro-Renzi) al referendum del dicembre 2016 sulle riforme costituzionali”. In particolare, il 30 ottobre del 2016 “RT in inglese e i suoi siti web hanno presentato falsamente una immagine di una manifestazione per il Sì di migliaia di persone a Roma come una protesta anti-governativa in sostegno del No al referendum, e la fake news fu diffusa rapidamente da una quantità di siti web e account di social media pro-M5s”. Ci fu addirittura una protesta diplomatica ufficiale del governo italiano. Lo stesso rapporto ricorda che la delegazione dei Cinque stelle guidata da Vito Petrocelli andò a Mosca il 14 novembre 2016 e tenne una conferenza stampa in favore del No in un centro direttamente controllato dal Cremlino.
Tra i sette autori dello studio ci sono anche due italiani, l’analista della Stampa Jacopo Jacoboni e il professore Luigi Sergio Germani, direttore dell’Istituto Gino Germani di Scienze sociali e Studi strategici. Proprio Germani spiega al Foglio che quella protesta restò isolata perché “il governo italiano pur avendo da tempo evidenziato il problema a livello di intelligence, preferisce non prendere di petto la Russia”. Secondo Germani alle ultime elezioni tedesche l’influenza russa è stata minima perché il governo di Berlino “va oltre l’azione di intelligence: da una parte individuano i media che diffondono disinformazione e propaganda; dall’altra hanno avviato una precisa opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica”. Ma Germani avverte anche su un'altra questione sollevata dal voto tedesco: la minaccia russa, dice, “non va sottovalutata, ma neanche sopravvalutata. Presentare la Russia come onnipotente è proprio uno degli obiettivi che Putin cerca di perseguire”.

lunedì 18 dicembre 2017

Metodo Putin /come volevasi dimostrare


Biden: “Il Cremlino interferì in Italia sul referendum costituzionale”

La denuncia dell’ex vice presidente Usa: l’offensiva non è finita. Ora la Russia sta aiutando Lega e Cinque Stelle in vista delle elezioni
ANSA
I «no» al referendum costituzionale del 12 aprile 2016 hanno sfiorato il 60%
08/12/2017
paolo mastrolilli

http://www.lastampa.it/2017/12/08/italia/biden-il-cremlino-interfer-in-italia-sul-referendum-costituzionale-kga1zMpSJhKCS2yv3aMdMN/pagina.html

La Russia ha interferito con il referendum costituzionale italiano dell’anno scorso, e sta aiutando la Lega e il Movimento 5 Stelle in vista delle prossime elezioni parlamentari. La denuncia viene dall’ex vice presidente degli Stati Uniti Joe Biden, in un articolo pubblicato sulla rivista «Foreign Affairs» insieme all’ex vice assistente segretario alla Difesa Michael Carpenter.
Il saggio si intitola «How to Stand Up to the Kremlin», ossia come fronteggiare il Cremlino, e il catenaccio chiarisce l’obiettivo: «Difendere la democrazia contro i suoi nemici». Durante l’amministrazione Obama, il vice presidente era molto coinvolto negli affari internazionali, e aveva ricevuto in particolare l’incarico di gestire la crisi ucraina. Visto quanto sta avvenendo negli Usa con l’inchiesta sulla collusione tra la campagna elettorale di Trump e Mosca, molti osservatori hanno interpretato questo articolo come la conferma che Biden sta ancora considerando la possibilità di candidarsi alla Casa Bianca nel 2020.
Il testo sostiene che Putin ha lanciato una campagna interna e internazionale per conservare il potere, basata su corruzione, ingerenza militare e politica. Secondo Biden la forza del capo del Cremlino è più apparenza che sostanza. L’economia russa dipende ormai esclusivamente dal petrolio e dal gas, e il calo dei prezzi l’ha profondamente danneggiata, al punto che la capitalizzazione sul mercato di Gazprom è scesa dai 368 miliardi del 2008 ai 52 di oggi. Il consenso politico è molto fragile, e per conservarlo Putin ha puntato su due cose: repressione dell’opposizione, e favoreggiamento della classe corrotta di oligarchi che lo aiutano a restare al potere. Ha creato una «democrazia Potemkin, in cui la forma democratica maschera il contenuto autoritario».
Questa strategia di sopravvivenza ha un importante aspetto internazionale, per almeno tre ragioni: difendersi dall’America, impedire ai Paesi vicini di passare nell’altro campo, e destabilizzare le democrazie occidentali. Biden scrive che gli Stati Uniti non hanno mai cercato di rovesciare Putin, ma lui si è convinto che hanno fomentato le rivolte in Serbia, Georgia, Ucraina, Kirgyzistan, mondo arabo, e le proteste scoppiate tra il 2011 e 2012 in varie città russe. Quindi considera Washington il suo nemico principale, e per difendersi ha orchestrato la campagna di disinformazione finalizzata a influenzare le presidenziali del 2016. Nello stesso tempo non può permettersi che i Paesi vicini, quelli nella sfera considerata di «interesse privilegiato russo», passino dalla parte occidentale, perché darebbero un esempio negativo agli stessi cittadini russi desiderosi di democrazia, libertà e sviluppo. Così si spiegano i vari interventi diretti, tipo Montenegro, Georgia, Ucraina, Moldova, dove ha usato i tentativi di colpo di stato o la forza militare.
 Oltre alla difesa della Russia e dei territori vicini, la strategia di Putin comprende anche l’attacco dell’Occidente, per destabilizzarlo dall’interno e renderlo meno capace di contrastare Mosca. In questo quadro si inseriscono le iniziative lanciate per interferire con le elezioni. In Francia l’offensiva è fallita, ma «la Russia non si è arresa, e ha compiuto passi simili per influenzare le campagne politiche in vari Paesi europei, inclusi i referendum in Olanda (sull’integrazione dell’Ucraina in Europa), Italia (sulle riforme istituzionali), e in Spagna (sulla secessione della Catalogna)». Quindi Biden denuncia gli aiuti del Cremlino alla destra estrema in Germania, e aggiunge: «Un simile sforzo russo è in corso per sostenere il movimento nazionalista della Lega Nord e quello populista dei Cinque Stelle in Italia, in vista delle prossime elezioni parlamentari». A questo proposito bisogna ricordare che l’ex vice presidente era alla Casa Bianca, quando nell’autunno del 2016 il dipartimento di Stato inviò una missione a Roma per informare l’ambasciata di Via Veneto sui sospetti di ingerenze del Cremlino, ed era con Obama quando poco dopo ricevette l’allora premier Renzi a Washington.
Biden cita l’Internet Research Agency di San Pietroburgo come uno degli strumenti usati per diffondere ovunque le fake news, e denuncia anche l’uso della corruzione. Ad esempio nel gennaio scorso le autorità di New York hanno accusato la Deutsche Bank di aver riciclato 10 miliardi di dollari dalla Russia, e pochi giorni fa il procuratore Mueller ha chiesto alla banca tedesca di fornire informazioni sui conti che hanno presso di lei Trump e i suoi familiari. L’ex manager della campagna presidenziale, Manafort, è stato incriminato proprio per riciclaggio.
Biden non discute i motivi che potrebbero aver spinto l’attuale capo della Casa Bianca a essere disponibile verso il Cremlino, ma avverte che se lui non difenderà gli Usa e l’interno Occidente da questa offensiva, il Congresso, i privati e gli alleati dovranno farlo al suo posto, per salvare la democrazia liberale

sabato 2 dicembre 2017

Fake Taxi

Non è Uber il problema. Ricognizione sulle fake news dei taxi in sciopero

Gli esempi europei per trovare una soluzione e la necessaria modernizzazione che deve intraprendere il settore. L'esempio mytaxi
Il Foglio - 21 Novembre 2017

Taxi fermi e tassisti davanti a Porta Pia, lì dove i bersaglieri, dopo cinque ore di cannonate dell'artiglieria del Regno d'Italia, fecero una breccia nelle mura aureliane ed entrarono a Roma. La stessa "breccia" che Uber ha aperto nell'immobilismo di un settore fermo ancora a decenni fa. E allora sciopero, quindi o si guida o si prendono i mezzi pubblici. Ci fossero bike sharing nella Capitale, si potrebbe anche pensare di pedalare, ma non ci sono. Taxi fermi, perché "lo stato ci deve tutelare, deve escludere Uber dall'Italia, ci stanno rovinando". E poi, "non si può andare avanti così, c'è chi ha la licenza e chi si inventa diavolerie tecnologiche per non averla". E ancora, "ma quale regolamentazione, Uber deve essere illegale come del resto è in tutta Europa". E infine, "l'Europa ha bandito Uber, ora lo faccia anche l'Italia". Interviste andate in onda nelle tv, dichiarazioni scandite a favor di telecamera, acredine e risentimento, qualche volta magari giustificato da straordinari quotidiani "pe' tirà a campà". Ma è davvero così tragica la situazione? Uber è davvero la sanguisuga di un'intero settore? 
No. O almeno ci sono delle grosse inesattezze nelle versione dei tassisti in piazza a Roma.
La prima, e più grossa, è che Uber non è illegale in tutta Europa, anzi in quasi tutta Europa opera e lo fa a tal punto che molti paesi stanno cercando di trovare soluzioni per adeguare le normative alle nuove esigenze del mercato. E così le auto della società che offre servizio di trasporto automobilistico privato tramite app percorrono liberamente le strade della quasi totalità degli stati del Vecchio continente ad eccezione di Danimarca, Bulgaria, Ungheria. Stati nei quali non è stata messa al bando, ma ha deciso di andarsene per le regolamentazioni non favorevoli introdotte. Paesi che sono antitesi di quanto accaduto in Estonia e Finlandia. Lì il governo ha approvato una legge che permettesse a taxi e disruptor di convivere. A Tallinn e dintorni le nuove regole mettono autisti privati e tassisti ​​su uno stesso piano giuridico con comuni processi di controllo di licenze e di qualità del servizio. Allo stesso modo si è comportato l'esecutivo finlandese, che ha deregolamentato il mercato, eliminando le tariffe bloccate e il limite territoriale di licenza, creando una autority statale che controlla l'effettiva libera concorrenza, per evitare la formazione di accordi che vadano a discapito dei consumatori.
C'è inoltre chi sta affrontando il problema, superando inutili barricate tra categorie di lavoratori per garantire ai cittadini il miglior servizio possibile. 
In Croazia ad esempio è in discussione una nuova legge che liberalizza il settore dei taxi, abolendo la limitazione del numero di licenze e i regolamenti delle autonomie locali che definiscono le tariffe. Insomma apertura al libero mercato anche nel settore del trasporto privato di persone. Anche in Portogallo il governo sta discutendo una legge per la regolamentazione di quei servizi legati alla sharing economy dei trasporti. Il tentativo è quello di colmare la lacuna legislativa in materia, agevolando l'ingresso di altri soggetti privati nel mercato del settore del trasporto automobilistico.
Uber e soci insomma non sono mostri cattivi da combattere, rappresentano un'evoluzione tecnologica, almeno per fruizione, al tradizionale trasporto automobilistico privato, con la quale prima o poi il settore taxi dovrà abituarsi a convivere. Il sistema sinora utilizzato, ossia chiamo il centralino oppure esco in strada e vado alla piazzola di sosta più vicina, sinora ha retto, anche se con qualche crepa e molti problemi, ma ora, con l'utilizzo di massa degli smartphone e di app che permettono di superare i vecchi limiti di gestione del trasporto, è entrato in crisi e continuerà a essere sempre più inadeguato ai cambiamenti di abitudini dei consumatori.
Perché chiamare un centralino quando posso prenotare una corsa con un clic? Perché andare in una piazzola di sosta senza sapere se troverò un'auto? Perché salire su un mezzo senza sapere quanto mi costerà la corsa se posso avere un preventivo inserendo indirizzo di partenza e arrivo?
Uber e soci rappresentano una risposta a un'esigenza e scendere in piazza per chiedere che questa risposta sia eliminata per mantenere lo status quo non solo è sbagliata, ma è antievolutiva. L'unica via di fuga per i taxi per non essere sopraffatti dal mercato è adeguarsi al mercato, modernizzando il servizio.
Tremila tassisti tra Roma, Milano e Torino hanno già capito che non è facendo barricate, ma sfruttando le risorse che la tecnologia può offrire, che potranno sopravvivere ai cambiamenti. Mytaxi è una applicazione nata nel 2009 in Germania per superare l'esigenza di avere un numero dedicato in ogni città. Garantisce un servizio tramite smartphone che permette ai consumatori di prenotare con facilità una corsa anche all'estero, nei paesi nei quali il servizio è attivo.
Taxi con normale licenza che garantiscono corse gestite da un applicazione del tutto simile a quello che offre Uber.
"Quello che piace agli utenti è prima di tutto che possono pagare anche con la carta di credito", dice al Foglio Barbara Covili, general manager di mytaxi italia, "ma non è il solo vantaggio. La seconda attrattiva è quella dell'assoluta trasparenza del servizio: si può vedere tutto, il nome del tassista, la targa della macchina, il percorso fatto per raggiungere il cliente e il percorso fatto per raggiungere la meta. E questo, oltre al fatto dell'invio automatico della fattura via mail ha permesso di riavvicinare gli utenti alla categoria dei tassisiti". Un adeguamento ai tempi che cambiano, un modo soprattutto per evitare spiacevoli inconvenienti, quelli che per il  58,2 per cento degli intervistati in un sondaggio del 2016 dell'Istituto Piepoli, rappresentano un grosso deterrente all'utilizzo dei taxi.
Un sistema, quello di mytaxi, che ha indubbi meriti, che è in espansione – da nemmeno due mesi è attivo a Torino – ma che ancora si scontra con una certa immobilità del sistema. Ma che difficilmente potrà diventare maggioritario se continueranno a esserci le limitazioni odierne. "Il problema", sostiene Covilli, "rimane quello della clausula di esclusiva che le cooperative di tassisti in Italia chiedono agli autisti, che impedisce ai tassisti di avere a bordo dell'autovettura più sistemi".
Risulta sempre più necessaria una riforma che modernizzi il settore. Anche perché in gioco c'è la sussistenza dello stesso. E non a causa di Uber. Gli autisti della società nata nella Silicon Valley infatti sono una sparuta minoranza – appena un migliaio – rispetto al numero di licenze in Italia, che, almeno secondo l'ultima ricerca organica realizzata in Italia da Chiara Bentivogli per la Banca d’Italia nel 2008, sarebbero 20.000 in tutto il territorio nazionale. Inoltre Uber è attivo solo in due città, Roma e Milano, un po' troppo poco per considerarlo un reale problema.
Le proteste dovrebbero essere indirizzate verso le cooperative che hanno tenuto bloccato un settore che ha bisogno di un ammodernamento, che ha bisogno di competizione, non di ulteriori chiusure. Gli esempi virtuosi in Europa (e anche in Italia) ci sono, ora serve la volontà di prendere spunto e superare l'impasse. 

mercoledì 1 novembre 2017

Fucking Fake

Fake News "is killing people's minds"

"Penso che il problema delle fake news sia molto peggiore e dalle conseguenze molto più importanti di quanto molti possano pensare. Non è solamente che qualcuno riporta qualcosa di non corretto sul piano dei fatti. E' che le fake news sono usate per aumentare la polarizzazione della società, e questo è il loro vero danno. Mettono gruppi di persone gli uni contro gli altri. E se guardate indietro nella storia, sapete che ogni volta che gruppi allargati di persone si sono scontrati frontalmente non è successo niente di buono. E' una cosa buona avere disaccordi e confronti su come risolvere problemi, ma quando le persone e gruppi allargati di persone iniziano ad odiarsi possono accadere solo cose negative." (Tim Cook, CEO Apple)

domenica 17 settembre 2017

Senza scrupoli



Dieci bufale sui migranti a cui i populisti vogliono farvi credere
“Portano le malattie, non scappano dalla guerra, sono trattati meglio degli italiani”. Ecco i falsi miti sull'immigrazione, smontati una per una
12 Set. 2017  
“Portano le malattie, non è vero che scappano dalla guerra, vengono trattati meglio degli italiani, ci rubano il lavoro”. Ecco alcuni delle bufale più diffuse sui migranti che non fanno altro che alimentare la xenofobia, sia quella palese che quella strisciante. “Non sono razzista, ma…”, è la frase che nel migliore dei casi accompagna queste credenze, ormai entrate nell’immaginario collettivo.
I social network sono il luogo per eccellenza in cui questi falsi miti non solo si creano, ma si propagano a macchia d’olio, condivisione dopo condivisione. E si sa, un titolone a effetto e la conseguente valanga di click, che fanno girare la macchina della pubblicità, sono specchietti per le allodole che in questo periodo storico stanno vivendo l’età dell’oro.
Medici senza frontiere ha raccolto le bufale più diffuse, le mezze verità e gli slogan populisti sull’immigrazione, provandoli a smentire e a contestualizzare.

1. Lo Stato mette gli immigrati negli hotel di lusso e non si interessa degli italiani che soffrono

Nei mesi scorsi si è spesso polemizzato contro i contributi per i migranti, in particolare dopo il terremoto nel centro Italia. Il populismo di certi politici ha cavalcato l’onda di un’indignazione che ha trovato la sua massima manifestazione nella frase: “Non è giusto che in Italia ci siano tanti disoccupati mentre ai profughi vengono dati 40 euro al giorno senza che facciano nulla” .
Nella maggior parte dei casi le notizie di queste accoglienze dei richiedenti asilo in hotel a quattro stelle sono bufale montate ad arte, riprese e ricondivise sui social network senza alcuna cognizione di causa.
In Italia le strutture di accoglienza sono articolate in centri di primo soccorso e accoglienza (Cpsa), centri di accoglienza (Cda), centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e centri di identificazione ed espulsione (Cie). E poi ci sono i centri di seconda accoglienza destinata ai richiedenti e ai titolari di protezione internazionale come gli Sprar.
L’accoglienza in strutture ricettive come gli alberghi è gestita direttamente dal ministero degli Interni, attraverso una serie di rigidi bandi. Il costo medio per l’accoglienza di un richiedente asilo o rifugiato in Italia è di 35-40 euro al giorno, che non vengono dati direttamente ai migranti ma alle strutture di accoglienza, tranne due euro circa di diaria giornaliera, il cosiddetto pocket money.
Questi soldi servono a coprire le spese per il vitto, l’alloggio, l’affitto e la pulizia dello stabile, gli stipendi dei lavoratori e altri progetti collaterali. Molti migranti non ricevono accoglienza e finiscono per alimentare la popolazione dei tanti insediamenti informali nati in tutta Italia, dove si vive ai margini della società. Sono almeno 10mila, secondo Medici senza frontiere i rifugiati (Msf) e i richiedenti asilo che vivono in condizioni degradanti.

2. I migranti portano le malattie

“Nel corso di oltre dieci anni di attività mediche in Italia, Msf non ha memoria di un solo caso in cui la presenza di immigrati sul territorio sia stata causa di un’emergenza di salute pubblica”, scrive la Ong. Spesso, associate all’arrivo dei migranti, vengono citate malattie come tubercolosi, ebola e scabbia.
La tubercolosi è presente in Italia da decenni, non ha a che fare con i flussi migratori. Per quanto riguarda l’epidemia dell’ebola, anche in questo caso non c’entra con i migranti.
“Sono almeno 5.000 i chilometri da percorrere per arrivare alle coste del Nord Africa dai paesi dove si manifesta il virus ebola ed è impensabile percorrerli per via terrestre in meno dei 21 giorni che rappresentano il periodo d’incubazione della malattia”, scrive ancora Msf. “Il virus Ebola è molto letale e nella maggior parte dei casi provoca malattia sintomatica e poi morte nell’arco di pochi giorni dall’infezione”.
La scabbia è una malattia della pelle ed è più facile contrarla in condizioni igieniche scarse. Si diffonde con contatti ravvicinati. Questa malattia è in Italia da sempre e il trattamento per curarla è semplicissimo, basta una pomata.
Non è vero che dopo lo sbarco sulle coste italiane, i migranti non subiscono alcun controllo sanitario. Il ministero dell’Interno e il ministero della Salute attuano procedure di screening sanitario.
Le condizioni precarie in cui vivono i migranti dopo il loro arrivo in Italia contribuiscono a esporli a diverse malattie, e il fatto di vivere ai margini della società rende loro più difficile accedere a cure mediche.
In relazione ai casi di meningite in Toscana è intervenuto Roberto Burioni, professore ordinario di microbiologia e virologia al San Raffaele di Milano. “Una delle bugie che più mi infastidiscono è quella secondo la quale gli attuali casi di meningite sarebbero dovuti all’afflusso di migranti dal continente africano”, scrive sulla sua pagina Facebook Burioni. “In Europa i tipi predominanti di meningococco sono B e C, ed in particolare i recenti casi di cui si è occupata la cronaca sono stati dovuti al meningococco di tipo C; al contrario, in Africa i tipi di meningococco più diffusi sono A, W-135 ed X. Per cui è impossibile che gli immigrati abbiano qualcosa a che fare con l’aumento di meningiti in Toscana. Per cui chi racconta queste bugie è certamente un somaro ignorante”.

3. Aiutiamoli a casa loro 

Questa obiezione sembra facile a dirsi, e anche condivisibile per certi versi dal momento che sarebbe un mondo ideale quello in cui nessuno fosse costretto a lasciare la sua terra. Ma è del tutto fuori dalla realtà attuale.
La guerra in Siria, paese dal quale proviene una consistente quota di migranti, è iniziata nel 2011 e non accenna a smettere, nonostante sforzi diplomatici, più o meno efficaci.
“L’Unione Europea, invece di estendere la protezione e l’assistenza a chi ne ha più bisogno, sta concentrando la sua attenzione sulla deterrenza, l’esternalizzazione dei controlli di frontiera e il respingimento verso i paesi di origine o terzi”, scrive Medici senza frontiere. “Questo approccio inumano non impedirà alle persone di raggiungere l’Europa, ma aumenterà soltanto le reti di trafficanti, mettendo ancora più a rischio la vita di chi fugge. Il solo modo per far fronte a questa crisi umanitaria è garantire vie legali e sicure per raggiungere l’Europa, favorendo l’accesso al diritto di asilo e alle misure di ricongiungimento familiare, e allo stesso tempo migliorando le condizioni di accoglienza”.
È impensabile risolvere da un giorno all’altro le crisi decennali in corso in Africa o in Asia e bloccare il flusso migratorio che si muove da quelle terre, spinto dalla forza inarrestabile della disperazione. Ancora una volta si tratta di propaganda populista che niente a che fare con la realtà geopolitica attuale.

4. Sono troppi quelli che arrivano in Italia, è una vera invasione

Non è vero. Non c’è alcuna emergenza né catastrofe in corso. Le statistiche ufficiali dicono che la maggior parte delle persone in fuga si sposta verso i paesi limitrofi al proprio. Il numero di siriani rifugiati in Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto ha superato i 5 milioni dall’inizio del conflitto in Siria nel 2011. A rivelarlo sono i dati diffusi dall’agenzia per i rifugiati della Nazioni Unite, l’Unhcr.
Degli oltre 65 milioni di persone nel mondo costrette alla fuga nel 2015, ben l’86 per cento resta nelle regioni più povere del pianeta. Il 39 per cento si trova in Medio Oriente e Nord Africa, il 29 per cento in Africa, il 14 per cento in Asia e Pacifico, il 12 per cento nelle Americhe, solo il 6 per cento in Europa.
Il numero dei rifugiati che sono ospitati nei paesi europei è pari a 1,8 milioni, mentre i richiedenti asilo sono circa 1 milione. In Italia si trovano 118mila rifugiati e 60mila richiedenti asilo. A livello globale, i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono nell’ordine la Turchia (2,5 milioni), il Pakistan (1,6 milioni) e il Libano (1,1, milioni). I dati non giustificano in alcun modo l’allarmismo

5. Hanno lo smartphone, non stanno poi così male

“Quelle persone che fuggono dalla guerra non sono povere. Guarda, hanno tutti gli smartphone!”. Questa è la denuncia che ciclicamente ribolle sui social network. Possedere un telefono cellulare, a quanto pare, dovrebbe togliere a una persona il diritto di asilo politico e costringerla a morire, insieme alla famiglia, in guerra. Perché dovremmo essere sorpresi che queste persone, provenienti in larga parte dalla Siria, possiedano gli smartphone?
La Siria non è un paese ricco ma non è nemmeno un paese povero. Secondo il report della World Bank si classifica come paese a “reddito medio-basso”. È difficile pensare a una cosa più utile di uno smartphone se si sta fuggendo di casa per raggiungere una meta sconosciuta e lontanissima.
Anche perché oggi si può acquistare uno smartphone – dotato di telecamera, fotocamera e collegamento a internet – per meno di 100 dollari. Il succo del discorso è che chiunque, “persino” un rifugiato siriano, può permettersi di possedere uno smartphone. Quindi non c’è da motivo per essere sorpresi nel guardare quelle foto che ritraggono migranti alle prese con i loro cellulari.

6. Rubano il lavoro agli italiani

Davvero gli italiani sarebbero disposti a lavorare alle condizioni degradanti dei braccianti stranieri nei campi agricoli del sud Italia? Già questo servirebbe per porre fine al discorso. Eppure c’è dell’altro.
Un recente rapporto del Centro Studi di Confindustria ha evidenziato gli effetti positivi dell’immigrazione sul mercato del lavoro italiano: al crescere dell’occupazione straniera, cresce anche l’occupazione italiana, sia nell’industria sia nelle costruzioni.
Nei settori dell’agricoltura e dei servizi, gli immigrati spesso svolgono mansioni che gli italiani non sarebbero comunque disponibili a svolgere, al punto che molte attività agricole devono la loro sopravvivenza alla disponibilità di manodopera straniera. I dati più recenti del ministero del Lavoro evidenziano come tra i lavoratori stranieri sia maggiore lo squilibrio tra livello d’istruzione e impiego svolto: solo l’1,3 per cento dei lavoratori italiani con laurea svolge un lavoro manuale non qualificato, mentre questa percentuale si alza all’8,4 per cento nel caso dei lavoratori extra-comunitari.
Anche la finanza pubblica gode per la presenza di lavoratori immigrati, che rappresentano una ricchezza secondo quanto rilevato dall’Inps. Ogni anno gli immigrati versano 8 miliardi di euro di contributi sociali, e ne ricevono tre in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa 5 miliardi.
Secondo i calcoli dell’Istituto, gli immigrati hanno finora “donato” al nostro paese circa un punto di Pil di contributi sociali, spiega Medici senza Frontiere. Il tasto dolente rimane lo sfruttamento dei braccianti stranieri nelle regioni del Sud Italia, per i quali niente è stato fatto, come denuncia Medici senza frontiere, secondo cui i migranti sono costretti a subire condizioni degradanti rispetto agli italiani per la loro situazione estremamente precaria che li rende ricattabili.

7. Non è vero che scappano dalla guerra

Non vi è una divisione in compartimenti stagni tra i motivi che spingono un uomo e una donna a fuggire dai loro paesi. I motivi sono diversi e spesso correlati tra loro: guerre (Siria, Iraq, Nigeria, Afghanistan, Sud Sudan, Yemen, Somalia), instabilità politica e militare (Mali), regimi oppressivi (Eritrea, Gambia), violenze (lago Chad), povertà estrema (Senegal, Costa d’Avorio, Tunisia), crisi umanitarie (Nigeria, Camerun, Niger e Ciad).
Le guerre portano con sé mancanza di cibo adeguato, acqua potabile, strutture sanitarie e servizi di prima necessità, e le crisi spesso si allargano anche a paesi limitrofi, non strettamente legati ai conflitti in corso.
La situazione non è tanto diversa in Sud Sudan, con oltre un milione di persone sfollate e centinaia di migliaia scappate oltre confine, per fuggire a scontri a fuoco, saccheggi, devastazioni, violenze e soprusi di ogni tipo.

8. Tra i migranti si nascondono i terroristi

La maggior parte dei lupi solitari che hanno commesso attentati in Europa erano stranieri di seconda generazione, a tutti gli effetti cittadini europei, radicalizzati online.
Certamente episodi di terrorismo hanno interessato anche richiedenti asilo, ma non si tratta di numeri che giustificano neanche lontanamente la frase: “Sono tutti terroristi”.
La maggior parte dei migranti sono persone vulnerabili che fuggono da guerre e violenza. Anzi, in relazione al terrorismo è vero il contrario: chi arriva in Italia nella maggior parte dei casi non è un terrorista, ma vittima del terrorismo. “In molte circostanze, sono persone che sono state costrette ad abbandonare le loro case da quegli stessi gruppi terroristici a cui erroneamente intendiamo associarli”, spiega Msf.

9. Sono criminali, le carceri sono piene di immigrati

Numerosi studi internazionali hanno evidenziato l’inesistenza di una corrispondenza diretta tra l’aumento della popolazione immigrata e l’incremento del numero di denunce per reati.
É vero che sono molti i detenuti stranieri nelle carceri italiane (il 34% dei reclusi, al 30 settembre 2016), ma ciò è dovuto a una serie di fattori precisi. In particolare, a parità di reato gli stranieri sono sottoposti a misure di carcerazione preventiva molto più spesso degli italiani, che ottengono invece con maggiore facilità gli arresti domiciliari (o misure cautelari alternative alla detenzione, una volta emessa la condanna).
La stessa azione di repressione opera con più frequenza nei confronti degli stranieri, che con maggiore facilità sono sottoposti a fermi e controlli di routine da parte dalle forze di polizia.
Uno studio dell’American Economic Review, condotto da Paolo Pinotti dell’Università Bocconi di Milano, ha mostrato che la legalizzazione degli immigrati riduce il crimine. Analizzando il tasso di criminalità di oltre 100mila stranieri prima e dopo il decreto flussi del 2007, si nota che l’incidenza si dimezza l’anno successivo, per chi è stato accettato e messo in regola, mentre resta invariata fra chi è rimasto “irregolare”. La regolarizzazione allontana subito dalla delinquenza, in particolare per i reati economici.

10. Sono tutti uomini, forti e muscolosi

Non si capisce perché, secondo la propaganda populista, il fatto che i migranti siano spesso uomini giovani e forti basti a non far godere loro del diritto di chiedere accoglienza. La maggioranza delle persone che arrivano in Europa è rappresentata da giovani uomini perché hanno una condizione fisica migliore per poter affrontare un viaggio così duro, che spesso conduce alla morte.
Tuttavia, il numero di famiglie, donne e minori non accompagnati è in aumento. Nel 2015, secondo l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), di circa un milione di persone arrivate in Grecia, in Italia o Spagna via mare, il 17 per cento è costituito da donne e il 25 per cento da bambini.


- aggiornamenti:

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Nonostante i dati li smentiscano, gli italiani restano uno tra i popoli più spaventati dagli stranieri in Europa. Ecco alcune cause di questo fenomeno


07 Feb. 2018  















L’attenzione mediatica di questi giorni (e di questa campagna elettorale) è quasi completamente assorbita dal tema dell’immigrazione.
Il 4 febbraio 2018 Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, ha dichiarato che i “600mila immigrati clandestini sono una bomba sociale pronta a esplodere, perché vivono di espedienti e di reati”.
Tra chi propone la regolarizzazione di tutti e chi invita a correre ai ripari per i rischi alla sicurezza, i politici italiani hanno certamente centrato un nervo scoperto nell’opinione pubblica.
Secondo il Rapporto dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza del 2017, infatti, in Italia “lo straniero è considerato, da una componente significativa di cittadini, come un pericolo per la sicurezza individuale e una minaccia per l’occupazione.”
Si tratta di un timore in continua crescita: il 39 per cento degli intervistati vede nell’immigrato un’insidia per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone, il 36 per cento una minaccia per l’occupazione. Entrambi gli indicatori sono cresciuti di circa 5 punti rispetto al 2016, raggiungendo i valori più alti dal 2007.
Questi risultati rivelano una convinzione di fondo, l’idea cioè che gli stranieri delinquano perché antropologicamente portati a farlo, come se la criminalità risiedesse in un gene, o in una tradizione culturale.
Ma è davvero così? Dati alla mano, la risposta è una sola e molto chiara: no. Ecco perché.
Ragioniamo per assurdo: se esistesse una vera correlazione tra immigrazione e criminalità, all’aumentata presenza di stranieri nel nostro territorio (dai 4 milioni del 2011 ai di 5 milioni del 2017) sarebbe dovuto conseguire un parallelo aumento dei crimini commessi.
Secondo quanto evidenziato in questo fact-checking di Agi, invece, i delitti denunciati alle autorità nel 2015 sono circa 250mila in meno rispetto a quelli denunciati nel 2007, prima che iniziasse la cosiddetta “emergenza migranti”.
Il numero di reati noti è calato con l’aumento degli stranieri in Italia: non c’è quindi alcuna automatica correlazione.
Da cosa deriva questa percezione sbagliata? Sono numerosi i fattori inquinanti che contribuiscono a creare una rappresentazione fallace del fenomeno. Ecco quali sono.

I reati visibili

Una prima distinzione va compiuta sul piano della tipologia di reati compiuti.
Come riportato in questo rapporto dell’ISTAT “gli stranieri sono imputati principalmente per furto, violazione delle norme sugli stupefacenti e lesioni, cioè per reati che impattano maggiormente sulla percezione della criminalità”.
Non si tratta dei reati più diffusi, né di quelli considerati più gravi dal codice penale, ma di crimini che per la loro dimensione quotidiana hanno un effetto più diretto sui cittadini.

I dati sugli stupri

Il reato forse più spesso attribuito agli stranieri è lo stupro, grazie a dati a tutti gli effetti impressionanti: il 37 per cento degli stupri denunciati è stato compiuto da uno straniero.
Esperti di ogni bandiera sottolineano tuttavia che le violenze sessuali denunciate sono solo una piccola parte di quelle compiute, e soprattutto per questo tipo di reato i due tipi dati non sono interscambiabili.
“Ricordiamoci che una donna che subisce violenza 8 volte su 10 non chiede aiuto, secondo l’Istat”, ha spiegato a TPI Anna Costanza Baldry, psicologa e criminologa dell’università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli.
Numerosi casi di violenza avvengono infatti in famiglia, ad opera del partner o di una persona conosciuta, cosa che tende a far crescere nella vittima il timore di denunciare.
Il fenomeno è quindi tanto più sommerso quanto più l’autore dello stesso è vicino alla vittima: si ipotizza quindi che, nella maggior parte dei casi, le violenze non denunciate in Italia siano perpetrate da italiani.

Gli stranieri in carcere

Un altro dei dati più invocati per mostrare l’alto tasso di criminalità tra gli stranieri è quello sulla popolazione carceraria. A fine 2016, il 34 per cento dei detenuti nelle carceri italiane era di nazionalità straniera.
Una realtà certamente impressionante, specialmente dal momento che gli stranieri costituiscono poco più dell’8 per cento della popolazione residente in Italia.
Questo può facilmente portare alla (errata) deduzione che gli immigrati delinquano maggiormente.
Il dato è però inficiato dal fatto che la maggior parte degli imputati stranieri, specie se irregolari, non ha la possibilità di permettersi un avvocato diverso da quello d’ufficio, cosa che risulta in un minore accesso alle misure alternative alla detenzione.
In pochi tra i detenuti stranieri devono scontare condanne definitive: molti si trovano in carcere per una misura preventiva, non potendo accedere alle misure alternative per mancanza di una solida difesa o di alcuni requisiti (per gli arresti domiciliari, ad esempio, serve una casa).
Un altro fattore che inquina la veridicità del dato riguarda la sovrapposizione di varie categorie: tanto tra gli italiani quanto tra gli stranieri si registrano maggiori tassi di criminalità tra i giovani e tra le fasce sociali più povere.
Dal momento che la popolazione straniera che si trova in Italia è mediamente molto più giovane e più povera di quella italiana, il maggior tasso di criminalità si spiega spesso non tanto con la provenienza quanto con l’appartenenza ad una di queste categorie.
Infine e soprattutto occorre distinguere tra stranieri regolari e irregolari: tra gli immigrati regolari il numero di detenuti è infatti in proporzione uguale a quello degli italiani (meno del cinque per cento della popolazione).

Il reato di clandestinità

È proprio questo il fattore che più di tutti incide sul tasso di criminalità.
Per via di questa fattispecie, introdotta dalla legge Bossi-Fini del 2002, commette reato chiunque entri nel territorio italiano se privo di un incarico di lavoro e dei requisiti per chiedere diritto d’asilo o protezione umanitaria.
Si tratta per la maggiora parte dei cosiddetti “migranti economici”, ma anche di chi, in fuga da una persecuzione, non riesca a dimostrarlo davanti alle commissioni territoriali.
In quanto irregolari, questi migranti sono come spettri per lo stato italiano: quelli che riescono a sfuggire dall’espulsione non possono trovare un lavoro, né accedere alle cure (se non quelle emergenziali) e agli altri servizi statali.
L’unico modo per guadagnarsi da vivere rimanendo in Italia è quindi passando per vie illegali, lavorando in nero, rimanendo spesso invischiati nelle maglie della criminalità organizzata e dello sfruttamento ad opera dei caporali.
Come riportato dall’ISTAT una parte degli imputati stranieri è colpevole di reati legati alla condizione di immigrato irregolare: nel 2009 quasi 30mila cittadini nati all’estero (il 20,6 per cento del totale) sono stati imputati per l’irregolarità della loro presenza sul territorio italiano.
Alcuni studi mostrano come la regolarizzazione dei clandestini portererebbe infatti ad un calo nei crimini commessi.
I beneficiari dei “decreti flussi”, che l’Italia ha smesso di approvare dal 2011 e che consentivano di ottenere permessi di soggiorno temporanei per la ricerca di un lavoro, commettevano infatti molti meno reati rispetto ai migranti irregolari.


Perché il post razzista sul rifugiato sul treno senza biglietto è una pericolosa bufala

Il post pubblicato su Facebook sul "rifugiato senza biglietto"diventato virale è stato smentito da Trenitalia che ha dichiarato false tutte le accuse riportate

13 Feb. 2018  
La mattinata del 12 febbraio compare un post, con foto, su Facebook scritto da Luca Caruso, un passeggero del treno diretto da Roma a Milano, con un lungo testo in cui l’autore racconta di un episodio verificatosi sul Frecciarossa su cui stava viaggiando.
Nella foto si vede un giovane ragazzo nero ritratto nel momento in cui il controllore ferroviario stava chiedendo il biglietto del treno, come da prassi.
Il ragazzo nella foto risultava riconoscibile, nonostante il tentativo di Caruso di nascondere gli occhi con l’aggiunta di pallini bianchi sull’immagine.
Dopo qualche ora il post raggiunge 75mila condivisioni e oltre 120mila like, numeri impressionanti. Ma quello che più preoccupa sono le reazioni che si potevano leggere fino a qualche ora fa nei commenti, prima che il post fosse rimosso.
Il post ha scatenato odio e ostilità verso il ragazzo della foto, che rappresenta un fenomeno molto più ampio, quello dell’immigrato straniero
Questa mattina, un bel ragazzo, rubizzo, migrante irregolare (in assenza di documenti) è riuscito a viaggiare gratis a bordo di un treno Frecciarossa (9608) nella tratta Roma-Milano. In mano un costosissimo Samsung S8 di ultimissima generazione e un biglietto non regolare di 4€.  
— Massimo Manfregola (@masman007) 
Trenitalia ha rilasciato la sua versione dei fatti. Il ragazzo aveva il biglietto giusto. Nessuno scandalo, nessun immigrato venuto a “scroccare” i nostri treni, nessun allarme invasione. Valigia blu ha pubblicato la mail con la relazione della capo treno che aveva effettuato il controllo sul treno 9608:


Anche se fosse stato vero, il tono catastrofico, la foto pubblicata senza autorizzazione, il post modificato varie volte con versioni differenti della storia dall’autore e le migliaia di commenti falsi portano alla luce un problema ben più grosso.
Un problema di cui si parla da mesi: il razzismo sdoganato. E non supportato da dati reali che confermino questo allarme, questa emergenza, questa criminalità senza controllo.
Se il ragazzo non avesse avuto veramente il biglietto, sarebbe dovuto scendere alla prima fermata disponibile, quella di Bologna e non sarebbe arrivato “impunemente” a Milano come suggerito dal post dell’uomo.
Lo stesso razzismo che alcuni giorni fa ha portato all’attentato di macerata, e alle conseguenti manifestazioni di solidarietà al terrorista razzista autore della sparatoria.
Spesso discorsi come questo iniziano con la pericolosa frase “non sono razzista. Ma…”.
Ed è proprio in quel ma che sta la pericolosità di discorsi come questi e di bugie come queste. Si parla di un’esasperazione, di uno “scontro sociale”, di una “stanchezza” degli italiani.
Chiamiamo le cose con il proprio nome. Saltare a conclusioni affrettate sul possesso o meno di un titolo di viaggio, e alla conseguente descrizione dello smartphone posseduto dal ragazzo, che si rivelano per giunta false, è razzismo.
È razzismo nella misura in cui si scrive “non sono più disposto a chiamarli rifugiati”, o “gente che senza diritto e senza motivo ha varcato il nostro uscio di casa”. Questo è razzismo, senza se e senza ma.
Negli ultimi tempi chi critica comportamenti razzisti è tacciato di “buonismo”, con una netta accezione negativa.
Come a suggerire che chi non fa discorsi d’odio, chi non si scaglia contro gli stranieri qualunque cosa succeda, chi non è attratto da campagne elettorali che vogliono mettere “prima gli italiani”, lo fa solo perché è un povero buonista.
Nello stesso post si dice “mi raccomando, scannatevi tra razzisti e buonisti”.
Non è buonismo, è umanità. È vivere civile, è dire: ci avete stancato con questi discorsi infuocati, carichi di odio, che giustificano il loro razzismo, profondo e inconfondibile, con un “siamo stanchi di questa immigrazione incontrollata”.
L’immigrazione è una questione seria, non può essere ridotta a un tifo da stadio e TPI lo ha affrontato tante volte, con cognizione di causa, smontando i falsi miti, le bugie e il carico di odio che avvelena il discorso:

 
(https://www.tpi.it/)