Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

giovedì 22 novembre 2007

“Comunque vada sarà su un cesso”

Premetto: il titolo questa volta non è mio, ma suggerimento di un collega, G.N., ironico fiancheggiatore delle cupole.

Elezioni concluse, dunque, per il momento. Al gioco delle trenta carte sindacali il banco, come sempre, ha vinto (con qualche rischio). Tutto è più o meno come prima, la torta è stata spartita nelle solite fette proporzionali, il conto del pasticciere ci sarà recapitato alla prima occasione utile. Il gioco delle tre carte, in fondo, è molto più abbordabile, almeno sono solo tre…
Ci abbiamo provato, senza riuscirci, ma ci abbiamo comunque provato. E abbiamo fatto bene.
Del resto, la differenza da colmare era enorme: considerando la grande quantità di persone mobilitata da una parte, a vario titolo, e l’esiguità delle forze in campo dall’altra, può già considerarsi un bel risultato essere riusciti a incardinare la campagna e aver lanciato la sfida, giocandocela fino quasi all’ultimo momento. Poi, come previsto, sono state mobilitate le truppe cammellate, compreso qualche fantasma evocato per l’occasione (del resto, ogni castello gotico che si rispetti deve essere visitato dai suoi fantasmi, e pare che la cappella sia una delle… zone che prediligono).
Una cosa vi assicuro, ad ogni modo: questa esperienza non si esaurisce certo qui, ma segna l’inizio di una più ampia e generale campagna di liberazione, che, per quanto mi riguarda, sarà sicuramente dura e magari anche piuttosto isolata ma comunque civilmente ed eticamente necessaria e doverosa.

*****
A quanti fossero in attesa di sapere se anche quest’anno sarà presentato il consueto ricorso, comunico che scioglierò le riserve sul da farsi nei prossimi giorni, e sicuramente entro il termine utile dei cinque giorni dalla pubblicazione dei risultati.
.
Aggiornamento del 28-11-2007. Tranquilli, il ricorso stavolta non è stato presentato, anche se questo ha significato rompere - a malincuore - una simpatica tradizione... Potrete dunque cominciare già da subito a spartirvi il piccolo gruzzolo aggiuntivo dei permessi sindacali rsu per la nuova stagione.

mercoledì 21 novembre 2007

Cronache medieval-sindacal-fasciste

Esegesi di un editto vescovile in difesa della sacralità delle Corporazioni e in condanna della blasfemia di chi nel feudo contesta il santo e inviolabile vincolo di servitù.

“…non rientrerà nei diritti dei magistrati servirsi della forza per imporre il proprio giudizio su qualcosa che non risulti deleterio alla conservazione e al benessere della società” (J. Locke, 3a Lettera sulla Tolleranza, 1692).

Serviva una “prova provata” (in realtà, l’ennesima) dell’esistenza di una poco mirabile Cappella (sindacale) presso la Marca Malpensante (ormai nota ai più come “La Cappella Bassina”, e non per l’altezza delle sue volte)? Ebbene, è notizia di questi giorni “elettorali” il rinvenimento – in forma scritta – di un Editto Vescovile a suo inequivocabile favore.
Da un esame complessivo dei fatti riferiti, appare chiaro che il documento si colloca in epoca contrassegnata, da una parte, da schermaglie (superficiali) tra feudatari di sotto-vertice e vassalli in apparente lotta tra loro (ma le fonti storiche concordemente riferiscono di saldissime e unanimi alleanze, tese alla conservazione dell’ordine sociale feudale, obiettivo che emerge chiarissimo dalle disposizioni vescovili contenute nel documento) e, dall’altra, da un blasfemo tentativo di rivolta di un piccolo numero di villani servi della gleba, oggetto di condanna, di velate minacce di scomunica, e a cui soprattutto si coglie l’occasione di imputare, meno velatamente, le piccole devastazioni compiute da qualche sotto-vassallo nell’ambito delle schermaglie tra i feudatari o aspiranti tali: quale miglior capro espiatorio? Come non cogliere l’opportunità di guadagnare un qualche credito presso feudatari e cappellani? Peccato manchino gli elementi per istituire un bel processo inquisitoriale con tanto di rogo finale… Sarà magari per un’altra occasione…L’accusa, pur configurata, di “Lesa Sindacalità” da sola pare (ancora) non bastare…

Tentativo di lettura in chiave contemporanea. Ovvero, come si deve rispondere (seriamente) all’accusa (culturalmente fascista, in senso proprio) di “Lesa Sindacalità” Corporativa.

Si deve iniziare col chiedersi, di grazia (sindacale), dove sussistano le “espressioni denigratorie” e perché mai (e per chi) esse sarebbero “sconvenienti”; a meno che affermare che “il re è nudo” - o, meglio, i feudatari sono nudi, tutti! - al cospetto di chi sia effettivamente tale non debba essere considerato “denigratorio” e “sconveniente” (bisogna sempre capire a chi); l’alternativa, poi, quale sarebbe? Continuare tutti insieme a fingere beatamente (per loro) che i sovrani sindacali, i loro feudatari locali e i rispettivi vassalli siano di tutto punto vestiti? E continuare – approfittando magari di tale non dichiarata e non disvelabile nudità - a farsi prendere per il culo (magari andando ben oltre lo ius primae noctis) e, in più, a pagare gioiosamente (e ipocritamente) la decima? Un simpatico contemporaneo sindacalista “Rivoluzionario” – ma evidentemente continuatore dichiarato di questa scuola di pensiero - ha perfino affermato, in una recente assemblea, che lavorare di più è più gratificante, quindi chi lo fa è privilegiato rispetto a chi lavora di meno o è nullafacente, dunque non ha bisogno di guadagnare di più rispetto a quest’ultimo e deve essere appagato dal solo fatto di avere questa fortuna…

Si gradirebbe poi, proseguendo nell’esame del testo, riuscire a capire (perché proprio non se ne scorge traccia) su quali basi si possa definire “il perseguimento e la tutela dell’interesse generale” come “obiettivo comune di Organizzazioni Sindacali e Amministrazione”: la “Carta del Lavoro” emanata dal regime fascista al suo apice (1927), testo base del corporativismo moderno, forse non arrivava a tanta chiarezza elogiativa nel definire il ruolo istituzionale delle Corporazioni (i sindacati di stato dell’epoca). La cosa interessante è che si riesce ad equiparare il ruolo della amministrazione pubblica, istitutivamente deputata al perseguimento di interessi generali, a quello di organizzazioni (addirittura citate per prime, forse in segno di ulteriore deferenza) costitutivamente dedite al perseguimento di interessi di parte (anche se vedono poi sempre garantite le loro pretese di prendere decisioni che riguardano e vincolano tutti). In ogni caso, si deve dedurre che è dichiarato autoritativamente un “interesse generale” a distacchi sindacal-feudali di questo o quell’altro, a permessi sindacali - corvee nei confronti degli altri dipendenti in quantità e numero sempre più incalcolabile e probabilmente non sottoposto ad alcun vincolo né controllo, a privilegi e immunità varie, a nullafacenze garantite e riverite, senza possiibilità di ribellione alcuna di chi ne subisce il contraccolpo e le conseguenze immediate. E guai a lamentarsi, perché questo genera nel “personale” un “sentimento di disagio”: dunque – finalmente si è riusciti a capirlo! - il “disagio” diffuso tra il personale dipende dal fastidioso rumore del lamento dei poveri dannati, non certo – giammai! – dal dover sopportare il carico lavorativo ulteriore delle nullafacenze degli intoccabili feudatari...! Complimenti davvero: il lupo e l’agnello della favola di Esopo/Fedro erano al confronto la rappresentazione dilettantesca di un malinteso tra due amiconi!

E’ interessante e degno di nota – a conclusione dell’analisi del testo – il finale accostamento dei termini usato nell’espressione “attivià lavorativa e sindacale”: quasi a ribadire, d’imperio, che le due attività sono tra loro equiparate (se va bene) e parimenti meritevoli (anche i signori feudali proprietari dei latifondi sostenevano spesso di esserlo rispetto ai loro schiavi), e guai a chi abbia l’ardire di osare ancora metterlo in dubbio o evidenziare come, da un’analisi dei comportamenti concreti e reali, le due situazioni appaiano poco compatibili tra loro… Gli agnelli e i lupi, le formiche e le cicale (che peraltro mi pare siano dello stesso colore delle cimici…) sono uguali e devono essere grandi amici, guai a dubitarne!

Ma, tutto ciò chiarito, non si può non evidenziare come sia – questo sì – insultante e denigratorio, oltre che scorretto, accostare o anche solo equiparare il riferimento ad atti ed episodi censurabilissimi da qualunque serio democratico con la deplorazione (di comodo? E, se tale, “comodo” di chi?) nei confronti di una legittima campagna democratica e civile, quasi a volere evocare o suggerire un legame o anche solo un’affinità tra le due situazioni che niente hanno a che fare l’una con l’altra. Tanto più è insultante, poi, se fatto con l’autorevolezza di una carica che dovrebbe essere, su tali vicende, super partes, altro che “tolleranza”… “aborro le tue idee ma sono disposto a lottare fino alla morte per difendere il tuo diritto a esprimerle”, questa è la TOLLERANZA come nei secoli si è configurata ed imposta, contro sovrani paternalistici e ossequiosi con quelli più potenti di loro, ordini e signori feudali, gerarchie aristocratiche e curtensi, gerarchie clericali, gerarchie corporative e corporazioni stesse… contro i privilegi di alcuni imposti sulla pelle di altri…contro tutto questo alcuni coraggiosi uomini liberi hanno lottato, pagando prezzi più o meno alti e spesso altissimi, per strappare, radicare e difendere la TOLLERANZA, quella di J. Locke e di Voltaire… non quella che imporrebbe al più debole di tollerare i soprusi del più forte, a Giordano Bruno di tollerare la congregazione degli Inquisitori e il Collegio dei cardinali, e magari a Pietro Ichino di tollerare coloro che vorrebbero fargli fare la fine di Massimo D’Antona e Marco Biagi. Una “tolleranza” così intesa e sbandierata ricorda, piuttosto che il nobile ideale di cui si usurpa il nome, molto più da vicino quella delle case di tolleranza: ecco, effettivamente, oltre alle cupole e alle cappelle, mancava ad una pubblica amministrazione che tali prove dà di sé l’evocazione delle case di tolleranza… certo, che a fare da maitresse potessero esserci (per scelta e forse proprio per vocazione) anche rispettabili signori di sesso maschile era comunque difficile, anche per le menti più fertili, immaginarlo…
Solo chi ha, in realtà, poco a che fare con la cultura della Tolleranza può confondere quest’ultima con la accondiscendenza nei confronti dei profittatori e con la difesa e la conservazione delle posizioni di forza e di privilegio, o magari con il “tirare a campare”, con il “per quieto vivere”, o peggio – se si tratta di un luogo di lavoro e di una struttura composta di soggetti che dovrebbero avere tutti pari dignità civile e pari obblighi lavorativi - con il lassismo nei confronti di nullafacenti e loro protettori o fiancheggiatori; traducendola in (si spera, ancora, solo metaforici) colpi di frusta nei confronti dei servi della gleba che devono continuare a lavorare anche al posto dei tanti feudatari e a farlo tacendo – guai a permettersi di protestare ! -, perché così vuole, esige e “proclama” (in questo caso sì, è la parola giusta) il Vescovo, non più in odor di eresia (1), ma forse – se continuerà a dare prove ulteriori di sottomissione - sulla via della riabilitazione che solo una Cappella legittimata con la forza istituzionale che egli stesso continua ad attribuirle potrà evidentemente elargirgli…
E’ allora chiaro, a questo punto, che - da democratici, illuministi e convinti assertori della Tolleranza (non quella delle case… che pure, da altri punti di vista e in altri contesti, può non essere spiacevole) – lo slogan non può che essere, a malincuore:
“abBasso la cappella sindacale (e chi la lecca)!”

(1) vedi post precedente.

domenica 18 novembre 2007

Cronache medieval-sindacali

Feudi e Rendite.
Ovvero come lo Scafista tentò di scavalcare il Feudatario e la torta comune venne allargata a spese del popolo.

Che cosa succede se un ridente (si fa per dire, c’è poco da ridere, se non per chi pratica una beata nullafacenza…) feudo sindacale subisce un tentativo di invasione da parte di una agguerrita orda sindacal-scafistica alla ricerca di nuovi territori fertili (la merda ha note proprietà di concimazione) dove insediarsi?
Dapprima il feudatario, temendo per le proprie millantate prerogative di immunità e inamovibilità per diritto divino-sindacale e vedendo parzialmente a rischio il persistere della propria beata nullafacenza, chiama in soccorso i chierici e i cappellani e invita i suoi vassalli e sodali alla resistenza a colpi di olio bollente e catapulte: le sue munizioni preferite erano e sono, in realtà, colpi di grosse cazzate (capaci del sorprendente effetto di far calare le brache ai consenzienti avversari) ma queste sono al momento tutte impegnate su un diverso fronte nel tentativo di rintuzzare la (tardiva) rivolta di un vescovo di confine in odor di eresia che ne ha osato di recente discutere l’inamovibilità. Poi, vistosi scavalcare le sue mura feudali dal combattivo capo dell’orda barbarico-scafistico-sindacale (che, nel frattempo, ha stretto alleanza con alcuni feudatari confinanti e ottenuto alcuni editti vescovili a suo favore e minaccia di insidiargli, essendo anch’egli interessato ad accrescere i propri, parte dei benefici della beata nullafacenza), organizza un banchetto per sancire la nuova spartizione del sacro suolo e delle sue rendite.
La soluzione è presto trovata: l’inamovibilità e la nullafacenza del vecchio feudatario saranno garantite, così come lo saranno la rendita sua e dei suoi vassalli, nonché le sue speciali prerogative di inamovibilità e il suo speciale diritto feudale con i suoi privilegi; i prelievi forzosi e le corvee lavorative dei servi della gleba sottoposti al feudo oggetto della spartizione e ai feudi confinanti saranno d’imperio (e col consenso automatico dei vescovi) raddoppiate e divise tra i due feudatari novelli alleati e i loro rispettivi vassalli ed eserciti di ventura (secondo i rispettivi diritti feudali); il nuovo alleato, a sua volta, parteciperà della quota di spartizione ottenuta i suoi vassalli e vassalle, migrati al seguito nel nuovo più esteso feudo. Dopodiché – raddoppiati d’imperio le rendite e prelievi a spese della servitù della gleba e lasciato, come sempre, ai vescovi il compito di sedare eventuali malumori – il feudo sarà territorialmente diviso in due parti: una retta dal nullafacente signore feudale, che acquisirà inoltre il titolo di “Sua grazia sindacale, L’inamovibile” per sé e per un congruo numero di vassalli; l’altra retta dall’(ormai ex) condottiero delle truppe barbarico-scafistiche, impegnato a riorganizzare le armate (retribuite o in attesa di esserlo) e gli eserciti di ventura in attesa di proseguire la marcia a tappe verso altri lidi e feudi…
Infine, il primo conserverà il suo scranno all’interno della Cappella di corte (1), e il secondo continuerà a servire messa presso la più ampia Cupola interfeudale(2).
Per entrambi, il calendario da ciascuno imposto come vigente e proclamato solennemente con l’unanime consenso dei vescovi prevedrà pochissimi giorni l’anno di richiesto soggiorno al castello, peraltro utili a mantenere i rapporti con la corte, a verificare l’accondiscendenza del vescovo, e a riscuotere i rispettivi prelievi retribuiti dalla comune servitù della gleba, nonché quelli provenienti dal resto del territorio… Nei restanti giorni i castellani vicini o confinanti e le rispettive servitù si faranno gradito carico dell’ospitalità di Lorsignori feudali, i cui costi e retribuzioni resteranno comunque in prevalenza a carico del territorio del feudo e della collettività tutta dei servi della gleba.


(1) Ormai tradizionalmente conosciuta dal popolo come la “Cappella bassina”, e non per l’altezza delle sue volte.

(2) Nota anche come “Cupola mediolanense”, probabilmente per la sua collocazione geografica o forse per il suo sovraffollamento.

venerdì 16 novembre 2007

"Schizzi" di organigramma

Di seguito si tenterà di dare una ricostruzione per tipi (con pretesa non certo sistematica ma puramente esemplificativa) di come in generale la pubblica amministrazione e, nel caso specifico qui considerato, l'agenzia delle dogane sia infestata e avviluppata ai suoi vari e consenzienti (pena l’accusa di lesa sindacalità) livelli da piovre sindacali, anzi diremmo meglio da vere e proprie idre (per chi non lo sapesse, animali mitologici dotati, oltre che di tentacoli, di molteplici teste... di cazzo ?).
Ovviamente, che a farne le spese (di questi giri di valzer tentacolari) siano i pochi (ma non pochissimi) lavoratori che non amano - e non si prestano a - queste danze macabre, e soprattutto la collettività e il Paese intero, è cosa che a nessuno di costoro corporativamente interessa... tanto pagano altri (ovvero: tutti)…

Cupola
La Cupola per antonomasia è quella che, ormai un giorno sì e l’altro no (o forse pure), si riunisce presso la direzione regionale: è composta da molteplici membri (in numero incalcolato e forse ormai incalcolabile) di tutte le innumerevoli patacche sindacali, la cui proliferazione ricorda ormai i ritmi di riproduzione di certe colonie di alieni invasori (ed invasivi) dei film di fantascienza più inquietanti; tutti costoro presieduti dai vari direttori regionali (o loro rappresentanti), che rinunciano – con evidente scelta di campo – a censirli (ma anche solo a contarli). Lo svuotamento degli uffici è pertanto il segnale più inequivocabile del fatto che, quel giorno, la cupola è in seduta (e pertanto vi toccherà lavorare anche per loro).
Ovviamente, ciascun livello amministrativo ha ormai la sua cupola, quindi in tali casi andrà per chiarezza specificato a quale ci si riferisce (locale, circoscrizionale… nazionale, altrimenti qualificabile anche come Cupolone).

Cappella
Fiancheggia – e a volte tende a coincidere, a sovrapporsi o ad essere sovrapposta – le cupole locali ai livelli territoriali delle singole sedi lavorative. In linguaggio sindacale è nota come r.s.u. (altri, con altri linguaggi, hanno iniziato a definirle m. s.u., evidenziandone una specificità altrove descritta nel dettaglio). E’ così denominabile nel senso - anche anatomico, ma non solo – di cupola del cazzo, ad indicare un livello comunque inferiore e di minorità rispetto alle cupole locali, con le quali pure può esservi più o meno parziale sovrapposizione. Talvolta può inoltre assumere forme ulteriormente bizzarre, quali la bicappella (singolare organo assembleare dotato di due cappelle).

Patacche
Sono le singole bande sindacali, ormai in crescita esponenziale e incontrollata (incontrollabile ?), un po’ come gli alieni degli ultimi livelli di space invaders (per chi non avesse presente questo pioniere della storia videoludica, vale la pena ricordare che tale era, ai livelli più avanzati, la loro velocità di spostamento e di riproduzione che era quasi impossibile, nonostante i tentativi di eliminarli, non esserne sopraffatti…). Tutte insieme sono riunite nella cupola (o, come meglio spiegato, nelle diverse cupole), insieme con quella che dovtrebbe essere (e non è mai) la controparte.

Pataccari
Sono i (sempre più numerosi, manco a dirlo) titolari di patacche, vere o presunte (tanto nessuno controlla).

Scafisti
Categoria di pataccari dedita al trasporto e allo spostamento (più o meno legale: quella che dovrebbe essere la guardia costiera, inutile dirlo, non interviene e spesso è in combutta con loro) da un luogo all’altro (di solito da un luogo di lavoro a un luogo di prepensionamento retribuito, dopo un periodo di transito in qualche feudo sindacale) di altri individui fiancheggiatori (mozzi) della medesima patacca. Il biglietto per l’imbarco può essere conferito a titolo gratuito o oneroso. Le spese di viaggio e di soggiorno sono comunque in ogni caso a carico dei lavoratori e, più in generale, di tutti i contribuenti.
Se, invece che semplici mozzi o imbarcati, si riesce ad ottenere dei gradi e divenire parte degli (sterminati) equipaggi, si ricevono inoltre uno stipendio e varie indennità di importo variabile a carico della collettività intera (come tutto il resto, scafi compresi)

Casta
E' data dall’insieme di tutti gli appartenenti alle categorie sopra elencate e descritte, più molti altri che non appaiono classificabili in nessuna di esse per il semplice fatto di non avere proprio niente (e non semplicemente poco) a che fare con i luoghi di lavoro.

Lavoratori
Sono coloro che, appunto, lavorano per mandare avanti la baracca e sulla cui pelle prolifera tutta l’impalcatura qui descritta nei suoi vari elementi. Sono, in pratica, l’equivalente della servitù della gleba nel sistema feudale, coloro cioè che lavorano per mantenere le rendite parassitarie dei (tanti) titolari di privilegi feudali ai diversi e numerosi livelli del sistema. In tale contesto, va sottolineato come i dirigenti rivestano per lo più un ruolo simile a quello svolto all’epoca dal papato e dal clero, ovvero di garanti dell’ordine feudale.
Il fatto che i lavoratori siano sempre di meno e i membri della casta, titolari a vario titolo di una qualche forma di rendita, sempre di più è l’indice più inquietante che lascia presagire un lento ma inesorabile crollo del sistema.
Il problema sarà non essere sepolti o colpiti dalle macerie, e non dover pagare per molto tempo ulteriori e enormi costi di ricostruzione: dunque, sarebbe auspicabile una demolizione controllata, ovvero una rivoluzione democratica e liberale, una rivoluzione del lavoro contro la rendita, che consenta di abbattere il gigantesco e pericolante edificio prima che la sua inevitabile putrefazione giunga a compimento, per poi, una volta sgombrato il campo dalle sgangherate macerie, poter pensare a costruire qualcosa di nuovo e di più equilibrato e sostenibile o, in mancanza, riguadagnare nuovi spazi aperti ed ariosi ed un ambiente più salubre.

I maestri di cappella

Kapellmeister (“maestro di cappella”) è il termine con il quale nei paesi tedeschi si designavano i responsabili di piccole ma produttive istituzioni musicali (“cappelle”), che fungevano sia da supervisori dell’intera attività musicale che da direttori d’orchestra. In pratica, delle figure di rilievo modesto, certo non dei geni ma indubbiamente dei grandi lavoratori e dei grandi produttori (in termini innanzitutto quantitativi) di musica, spesso di discreta qualità.

I nostri “maestri di cappella”, invece, oltre a non essere nemmeno loro dei geni, tutto sono tranne che grandi e modesti lavoratori, e invece che produrre buona musica producono semplicemente, oltre che chiacchere… merda.

* * * * *


Già in passato, del resto, ebbi occasione ripetuta di definirli "i re mirda", in omaggio alla loro innata capacità - di cui tante volte hanno dato strabiliante prova e di cui non mancano tuttora di dare spettacolari saggi - di trasformare magicamente in merda tutto quello che sfiorano, proprio come il mitologico Mida tramutava qualsiasi cosa toccasse, prodigiosamente, in oro... Evidentemente ciascuno ha avuto in sorte dagli dei la sua propria virtù, non si può stare mica a sottilizzare...

mercoledì 14 novembre 2007

Campagna di liberazione

E' iniziata ufficialmente.
Hh. 22.06: con l’invio tramite e-mail di un lungo (pure troppo, probabilmente) manifesto programmatico della Campagna, messaggio in realtà mai arrivato a destinazione e risultato poi bloccato dal solerte firewall aziendal-sindacale dell’Agenzia, è partita ufficialmente la Campagna per il boicottaggio delle elezioni rsu 2007, come prima tappa della più ampia Campagna di liberazione a Malpensa e da Malpensa.


Qui è possibile scaricare (formato .pdf) il materiale autoprodotto (manifesti e volantini) per la campagna.
Ci riusciremo ? Non lo so, di certo bisogna assolutamente provarci.

martedì 6 novembre 2007

NeoCon? No, antifascista



From Tyranny to Freedom
Democracy in Iraq Has Precedent

Michael A. Ledeen
April 7, 2004 1:00 am | National Review Online

Recent acts of barbarism against Coalition forces in Iraq have revived an old and enormously important debate: Are these terrorists the products of fanatic tyrannies, or are the tyrannies the logical expression of the true nature of the peoples of the region?
This is not an academic exercise, for many argue that our foreign policy depends on the answer. If we believe that the barbarism is the result of the likes of Saddam Hussein and the Iranian mullahs, then the war against terrorism should concentrate on regime change. Once the tyrants are removed, the terrorists will be deprived of their sustenance, and greater freedom and democracy can be expected. But, it is said, if fanaticism and barbarism are intrinsically part and parcel of the region’s culture, mere regime change cannot possibly eliminate this sort of terrorism. Some way would have to be found to change the culture, and only then could terrorism be truly defeated and a political transformation succeed.
It is an ancient and highly instructive debate. It is featured in the book of Exodus in a lively confrontation between Moses and the Almighty. In one of the many uprisings against Moses, the Jews demand new leaders who will lead them back to Egypt. God reacts with disgust, tells Moses that these people are unworthy of the Divine mission, and announces his intention to kill all but a small remnant, the few people deserving of freedom and the Holy Land. Moses insists that they can be taught, and achieves a compromise: They will be spared, but will have to remain in the wilderness for 40 years. Thereafter a new generation will create Israel. Were the rebellious Jews created by Egyptian tyranny, or were they the sort of people who preferred tyranny to freedom?
The newly freed Egyptian slaves were not quickly transformed into freedom-loving democrats, despite their exceptional leaders. But in time they and their children learned the habits of mind of free people.
The greatest modern political thinker, Nicolò Machiavelli, observed that it is as difficult to bring freedom to a people accustomed to tyranny as it is to crush freedom in a free society. Yet Machiavelli knew that both had been accomplished, even though he took a very dim view of human nature (“man is more inclined to do evil than to do good”).
At the end of the Second World War, the leaders of the Great Generation pondered the disposition of Germany and Japan. Many believed it was impossible to bring freedom to people who had embraced fascism and its attendant culture of death (from Japanese suicide bombers in their kamikaze aircraft to SS fighters on the ground celebrating heroic death). The celebrated George F. Kennan, then the chief of the State Department’s policy-planning staff, was convinced that there were no potential democratic leaders in Germany, and that we should retain the Nazi bureaucracy. At least they knew how to manage a modern state. And in Japan, many of our wisest men insisted that the only hope for Japanese democracy was the total extirpation of the Imperial culture; the Emperor had to go.
But there were democrats in Germany who proved excellent leaders of a free country, and the emperor still sits on his throne in democratic Japan.
To those who say that democracy cannot be introduced in the Muslim Middle East, where it has never existed, there is an easy answer: If that were true, then there would be no democracy at all, since tyranny is older than democracy, and oppression has been far more common than freedom for most of human history. We all lived under tyranny before we became free; freedom has had to be wrested from the hands of kings, caliphs and nobles, and imams and priests–and it has invariably been a tough battle. But that is quite different from saying it cannot be done at all.
The history of the Muslim world abounds with example of successful self-government, from the high degree of autonomy granted to some of the lands of the Ottoman Empire to the remarkably modern Iranian Constitution of 1906, and the contemporary Middle East is currently bubbling with calls for greater freedom, often from surprising sources (such as the son of Libyan tyrant Muammar Khaddafi). It is hard to believe that the peoples of the Middle East are bound and determined to remain oppressed, when millions of Iranians have demonstrated for freedom, and, just within the past few months, pro-democracy demonstrations have erupted in Saudi Arabia and Syria.
Yet those in Iraq who are killing us and our allies, along with Arab civilians–and even themselves and their own children–are also part of the culture of the Middle East, and they draw upon it to justify their actions and inspire others to do likewise. Do we not have to change at least those elements of the region’s culture? Can we expect to defeat terrorism without also discrediting the ideas and passions that underlie it? And does that not automatically mean a long process, in which political and military weapons are largely irrelevant?
I do not think so. Nothing so discredits an idea as its defeat in the real world. Had we not defeated the fascists in World War II, the heirs of Tojo, Hitler, and Mussolini would most likely still rule Japan, Germany, and Italy, and some version of fascism would most likely remain a potent force in many other societies, just as it was in the Twenties, Thirties and early Forties. But our victory in war defeated both the enemy regimes and their evil doctrines, and fascism is no longer an inspiration. If we defeat the terrorists and remove the regimes that support them, we are likely to find the appeal of bloody jihad dramatically reduced. There is undoubtedly a connection between the pro-democracy demonstrations (and Libya’s surrender) and the liberation of Afghanistan and Iraq.
The barbarians in Fallujah are part of a culture that is both bloody and peaceful, just like the Western culture that produced fascism and communism. The central issue in this war is which elements in that culture will prevail. You do not have to be a Hegelian to believe that ideas rise and fall with the people that embrace them, or that culture is linked to the success and failure of its advocates. We may not know the answer to the academic question: whether the culture favored tyrants or if the tyrants imposed a culture favorable to their domination. But we do know the answer to the policy question: tyranny and terror, along with the culture that favors them, can be defeated, to the benefit of freedom and even democracy.

Michael A. Ledeen holds the Freedom Chair at AEI.
This article was found online at:
https://www.aei.org/publication/from-tyranny-to-freedom
__________________________ 



Revolution.
Freedom, our most lethal weapon against tyranny.
By Michael Ledeen — March 1, 2005 

Some ancient Chinese philosopher is said to have taught his students that one cannot understand an event simply by attempting to reconstruct a chain of causality leading up to it. Instead, one must immerse oneself in the context, to fully understand the moment in which the event took place. If you get the context right, you can understand what came before and what comes after.
That sort of understanding is important both for historians and leaders.
If that ancient wise man were alive today and were asked to summarize the unique characteristics of this historical moment, he would say “revolution.” We are living in a revolutionary age, that started more than a quarter century ago in Spain after the death of Generalissimo Francisco Franco. At that time, hardly anyone believed it possible to go from dictatorship to democracy without great violence, and most Spaniards feared that the terrible civil war of the 1930s–which ended when Franco seized power and installed a military dictatorship–would begin anew. Instead, thanks to a remarkable generation of political leaders, some savvy priests, and the grossly underrated King Juan Carlos, Spain passed smoothly and gracefully into democracy.
It was the beginning of the Age of the Second Democratic Revolution. Spain inspired Portugal, and the second Iberian dictatorship gave way to democracy. Spain and Portugal inspired all of Latin America, and by the time Ronald Reagan left office there were only two unelected governments south of the Rio Grande: Cuba and Surinam. These successful revolutions inspired the Soviet satellites, and then the Soviet Union itself, and the global democratic revolution reached into Africa and Asia, even threatening the tyrants in Beijing.
The United States played a largely positive role in almost all these revolutions, thanks to a visionary president–Ronald Reagan–and a generation of other revolutionary leaders in the West: Walesa, Havel, Thatcher, John Paul II, Bukovsky, Sharansky, among others.
There was then a pause for a dozen years, first during the presidency of Bush the Elder, who surrounded himself with short-sighted self-proclaimed “realists” and boasted of his lack of “the vision thing,” and then the reactionary Clinton years, featuring a female secretary of state who danced with dictators. Having led a global democratic revolution, and won the Cold War, the United States walked away from that revolution. We were shocked into resuming our unfinished mission by the Islamofascists, eight months into George W. Bush’s first term, and we have been pursuing that mission ever since.
The parallels between the first and second waves of revolution would be very interesting to the Chinese sage. During the Reagan years, the revolution began on the periphery of the major conflict, in Iberia. Following 9/11, the revolution was brought violently to the periphery of the Middle East, in Afghanistan. It swept through Iraq, taking time to liberate Ukraine (against whose independence Bush the Elder spoke so shamefully), and now threatens Syrian hegemony over Lebanon, if not the Syrian regime itself, and has forced the Egyptian and Saudi regimes to at least a pretense of democratic change.
While most of the revolutions have been accomplished with a minimum of armed force, military power has been used on several of the battlefields, and not only in the recent cases of Afghanistan and Iraq. It is often said that the Cold War was won without firing a shot, but that is false; there was fighting in Afghanistan, and in Grenada, and in Angola. The repeated defeats of Soviet proxies (Angola, Grenada) and the Red Army itself (Afghanistan) were important in shattering the myth that the laws of history guaranteed the ultimate triumph of communism. Once that myth had been destroyed, the peoples of the Soviet Empire lost their paralyzing fear of the Kremlin, and they risked a direct challenge.
In like manner, the defeats of the fanatics in Afghanistan and Iraq, followed by free elections in both countries, destroyed two myths: of the inevitability of tyranny in the Muslim world, and of the divinely guaranteed success of the jihad. Once those myths were shattered, others in the region lost their fear of the tyrants, and they are now risking a direct challenge. The Cedar Revolution in Beirut has now toppled Syria’s puppets in Lebanon, and I will be surprised and disappointed if we do not start hearing from democratic revolutionaries inside Syria–echoed from their counterparts in Iran–in the near future.
Many of the brave people in the suddenly democratic Arab streets are inspired by America, and by George W. Bush himself. It should go without saying that we must support them all, in as many ways as we can. Most of that support will be political–from unwavering support by all our top officials, to support for radio and television stations, and tens of thousands of bloggers, who can provide accurate information about the real state of affairs within the Middle Eastern tyrannies, to financial assistance to workers so that they can go on strike–but some might be military, such as hitting terror camps where the mass murderers of the region are trained. We are, after all, waging war against the terrorists and their masters, as is proven by the daily carnage in Iraq and Israel, and the relentless oppression and murder of democrats in Iran.
The president clearly understands this, but, in one of the most frustrating paradoxes of the moment, this vision is rather more popular among the peoples of the Middle East than among some of our top policymakers. For anyone to suggest to this president at this dramatic moment, that he should offer a reward to Iran for promising not to build atomic bombs, or that we should seek a diplomatic “solution” to Syria’s oft-demonstrated role in the terror war against our friends and our soldiers, is a betrayal of his vision and of the Iranian, Israeli, Lebanese and Syrian people. Yet that sort of reactionary thinking is surprisingly widespread, from leading members of congressional committees, from the failed “experts” at State and CIA, and even some on the staff of the National Security Council.
Our most lethal weapon against the tyrants is freedom, and it is now spreading on the wings of democratic revolution. It would be tragic if we backed off now, when revolution is gathering momentum for a glorious victory. We must be unyielding in our demand that the peoples of the Middle East design their own polities, and elect their own leaders. The first step, as it has been in both Afghanistan and Iraq, is a national referendum to choose the form of government. In Iran, the people should be asked if they want an Islamic republic. In Syria, if they want a Baathist state. In Egypt and Saudi Arabia and Libya, if they want more of the same. We should not be deterred by the cynics who warn that freedom will make things worse, because the ignorant masses will opt for the fantasmagorical caliphate of the increasingly irrelevant Osama bin Laden. Mubarak and Qadaffi and Assad and Khamenei are arresting democrats, not Islamists, and the women of Saudi Arabia are not likely to demand to remain shrouded for the rest of their lives.
Faster, please. The self-proclaimed experts have been wrong for generations. This is a revolutionary moment. Go for it.

Michael Ledeen, an NRO contributing editor, is most recently the author of The War Against the Terror Masters. He is resident scholar in the Freedom Chair at the American Enterprise Institute

giovedì 1 novembre 2007

Merda sindacale

Ormai ne circola talmente tanta che non sarebbe certo difficile rimediarne un po' da conservare...