Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

mercoledì 28 novembre 2018

Populist chic


Il populismo? È una cosa da milionari

Per essere populisti ci vogliono tanti soldi: un’inchiesta tedesca lega un super-ricco ai populisti di Afd e nel resto del mondo, da Le Pen a Grillo, la musica non cambia

di Paolo Mossetti       WIRED  27 Nov, 2018
Milionari di tutti il mondo, unitevi: non avete da perdere altro che le vostre gardenie. Saranno anche dalla parte della gente comune nella lotta campale contro la globalizzazione, ma diversi tra i populisti più in voga del momento hanno un legame difficile da conciliare con la nomea di portavoce della gente comune: sono finanziati dagli ultra-ricchi. Uno dei fil rouge del populismo internazionale, più che il sovranismo o la lotta contro le élite, è rappresentato proprio da fondi e frequentazioni di derivazione poco popolare: l’ultimo caso, in linea di tempo, viene dalla Germania.
La destra tedesca
L’ultima inchiesta riguarda il partito nazionalista tedesco Afd (Alternative für Deutschland), che secondo lo Spiegel sarebbe stata sponsorizzata, fin dal 2013, da August von Finck, un miliardario di Monaco di Baviera. Il suo nome è emerso in un’indagine riguardante il presunto uso di fondi neri da parte dell’Afd, che attualmente contende al partito dei Verdi il secondo posto nei sondaggi in Germania. Un giornale che sarebbe dovuto servire come veicolo per la propaganda elettorale del partito, il Deutscheland Kurier, sarebbe stato finanziato con denaro occulto prestato da un plenipotenziario dell’anziano imprenditore, che si trova al sedicesimo posto della lista di Forbes degli uomini più ricchi del mondo, con una fortuna stimata in 8,6 miliardi di dollari.
Von Finck, attivo tra l’altro nei settori della ristorazione e alberghiero, è nipote del banchiere Wilhelm von Finck (1848-1924) fondatore del colosso assicurativo Allianz e della banca d’affari Merck Finck, e figlio di August von Finck (1898-1980) un industriale che fu tra i principali sostenitori di Adolf Hitler a partire dal 1931, nonché uno di quelli a beneficiare maggiormente dall’annessione dell’Austria.
 August stanziò un fondo elettorale di tre milioni di marchi per il partito nazista nel 1933 ed era seduto nel consiglio generale per l’economia del Terzo Reich; suo figlio aveva già sponsorizzato la Csu bavarese e la coalizione dei Liberi elettori, e fatto una pesante attività di lobbying per vendicarsi di una tassa sugli albergatori imposta dai cristiano-sociali.
Il caso Marine Le Pen
Ma il binomio populismo di destra-mecenati super-ricchi riguarda anche la Francia. Marine Le Pen, leader del Front National (ora Raggruppamento Nazionale) si è presentata come l’unico baluardo contro le roi de l’argent Emmanuel Macron, nella speranza di sedurre l’elettorato sinistrorso del socialista Jean-Luc Mélenchon. I suoi cavalli di battaglia sono l’aperta ostilità contro i plutocrati di Bruxelles e la società multiculturale, e sotto l’ala protettiva di Le Pen sono finiti molti disoccupati, i cittadini preoccupati dei sobborghi e delle zone rurali, oltre che una fetta considerevole della borghesia cittadina.
In questi ultimi anni, numerose riviste hanno scavato negli archivi della famiglia Le Pen per documentare la sua lotta contro le élite globali e i fautori del libero scambio. La tenuta di Montretout, un gigantesco castello poco fuori Parigi, è la casa dove Le Pen ha trascorso la sua giovinezza dopo che suo padre era stato vittima di un attentato nel 1976; era stata lasciata in eredità al genitore da Hubert Lambert, un ricchissimo imprenditore del cemento che ha visto in Jean-Marie Le Pen il salvatore della patria.
In una foto dell’aprile 1988 Marine Le Pen si fece ritrarre con il conte Michel de Rostolan, un altro finanziatore e simpatizzante dell’estrema destra, mentre beveva un cocktail sotto le palme delle Indie occidentali. E in una biografia non autorizzata dedicata a Le Pen, la giornalista Renaud Dély spiega che all’erede nazionalista piaceva particolarmente andare in vacanza nei Caraibi.
Nonostante il background facoltoso della sua icona, Il Front National è stato investito da numerosi scandali finanziari: uno riguarda i presunti impieghi fittizi di alcuni assistenti parlamentari di Strasburgo e accusa il partito di aver istituito un sistema di finanziamento fraudolento per tutte le sue campagne elettorali, mentre a Marine Le Pen è imputato di aver sottostimato il valore di diverse proprietà che possiede – in comune con suo padre Jean Marie – di fronte al fisco francese. Un altro contenzioso fiscale riguarda la lussuosa casa di famiglia di Rueil-Malmaison, vicino a Parigi, di cui la leader del Fn possiede la parte più importante: anche in questo caso il valore sarebbe stato abbassato rispetto a quello effettivo.
E, in Italia, Beppe Grillo e Casaleggio
In Italia, una parte sostanziale dell’indignazione contro le élite globali e il ceto politico degli anni Novanta e Duemila è stata intercettata e riorganizzata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, due uomini facoltosi ultrasessantenni con un passato importante nel settore dell’intrattenimento e del marketing. Nel 2013 la Casaleggio Associati, srl milanese di consulenza in ambito digitale che gestisce il blog di Grillo, fatturava 2 milioni di euro; due anni dopo il fatturato era quasi dimezzato.
Quello che sono riusciti a creare Grillo e Casaleggio è un vero e proprio marchio politico ed economico, dalla struttura interna rigidamente controllata e con un sistema operativo proprietario, Rousseau (che non di rado ha dato segno di instabilità, mancanza di trasparenza e fragilità). Con questa formula sono riusciti a prendere in prestito slogan e idee tradizionalmente appannaggio dei movimenti della sinistra radicale e del volontarismo cattolico, creando un mix di proposte che a seconda della convenienza potevano apparire neoliberiste oppure stataliste, progressiste o regressive, xenofobe oppure solidaristiche.
Per quanto il successo del Movimento 5 stelle sia da attribuire in larga parte alla fiacchezza del ceto politico che l’ha preceduto, senza il lavoro dei due fondatori milionari probabilmente non sarebbe mai nata la rete di meetup che ha costituito l’ossatura del partito. Stando agli ultimi dati divulgati dai media, Beppe Grillo – che nel 2013 dichiarava in un’intervista a Enrico Mentana di avere un 730 “pari a zero” – tra il 2017 e il 2018 ha moltiplicato di sei grandezze i suoi guadagni, passando a un totale di 420mila euro. C’è poi la questione dei guadagni tramite il blog: nel 2014 Repubblica, seguendo in prima persona le aste per le sponsorizzate sulle sue pagine, aveva stabilito che il guadagno medio doveva attestarti attorno ai 600mila euro annui.
Donald Trump, il tycoon
È di metà ottobre un servizio esplosivo del New York Times che racconta la vastissima storia di frodi fiscali messa su dalla famiglia Trump, usando una varietà di tecniche di riciclaggio di denaro per eludere il fisco americano. 
Secondo il quotidiano, che ha citato “una vasta gamma di documenti confidenziali finanziari e riguardanti dichiarazioni dei redditi“, il presidente degli Stati Uniti ha ricevuto dal padre Fred, un famoso immobiliarista, beni per 413 milioni di dollari. Questo si scontra con la storia del self-made man da sempre propagandata da Trump, che si vanta di essersi arricchito da solo con un solo piccolo prestito concessogli dal padre.
Per il Times, invece, alla radice dell’avventura imprenditoriale di Trump ci sarebbe “un’azienda fasulla per nascondere milioni di dollari di regali fatti a loro dai genitori“. Trump e i suoi portavoce ovviamente hanno negato tutto, insultando il lavoro del giornale: del resto, dai fatti contestati è passato così tanto tempo che tutto cadrebbe comunque in prescrizione.
Ma tra i dettagli più sorprendenti dell’inchiesta c’è la nota su quanto Trump guadagnava da bambino: “All’età di tre anni, Trump guadagnava 200mila dollari di oggi grazie all’impero del padre. Era un milionario all’età di 8 anni. E diventato 17enne, il padre gli diede parte della proprietà di un palazzo con 52 appartamenti. Poco dopo essersi laureato, Trump riceveva dal padre quello che oggi sarebbe un milione di dollari l’anno. Il denaro aumentò nel corso degli anni, fino a oltre 5 milioni di dollari l’anno tra i 40 e i 50 anni di età“. Nel 2017 Trump risultava la 248esima persona più ricca d’America, con un patrimonio stimato in 3,1 miliardi di dollari.
Secondo l’economista premio Nobel Paul Krugman, “un’implicazione di queste rivelazioni è che i sostenitori di Trump, che si immaginano di aver trovato un paladino che dice le cose come stanno e fa piazza pulita del marcio di Washington mentre usa il suo acume imprenditoriale per tornare a far grande l’America, si sono fatti abbindolare”.

martedì 27 novembre 2018

decreto insicurezza e clandestinizzazione


Decreto sicurezza, una fabbrica di irregolari (e di paura)

Smantellare lo Sprar e cancellare la protezione umanitaria significa rinunciare all’integrazione e trasformare in fantasmi decine di migliaia di persone in cerca di sicurezza. Lasciandole sulle nostre strade in cerca dell’esasperazione

di Simone Cosimi      WIRED  28 Nov, 2018


Una fabbrica di irregolari. Sul lato dedicato all’immigrazione il decreto sicurezza approvato ieri alla Camera ponendo la questione di fiducia – dunque senza discutere nessuno delle centinaia di emendamenti – con 336 voti a favore e 249 contrari è poco più di questo, anche volendo salvarne alcuni piccoli pezzi.
Il primo e più grave punto è l’abolizione della protezione umanitaria. Si potrà restare, fuori dal perimetro dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, solo in casi specifici: gravi motivi di salute, vittime di tratta e violenza domestica, calamità naturali e atti di valore civile. Il permesso durerà due anni e non potrà essere rinnovato.
Questo significa due cose. Primo: chi rischia in patria, fuori da ogni prescrizione della Costituzione e dei trattati internazionali, sarà rimpatriato in un Paese dove non è al sicuro. Secondo, la presa in giro: di fatto non sarà mai rimpatriato, perché mancano gli accordi con i Paesi di provenienza e i pochi che ci sono funzionano male.
Secondo l’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, gli stranieri irregolari in Italia saliranno da 490mila dello scorso dicembre a 622mila.
Un gioco di prestigio securitario buono per la propaganda e per complicare la situazione nelle strade italiane, spingendo verso l’alto odio e cinismo: sono decine di migliaia di persone che rimarranno escluse da ogni genere di accoglienza. In certi casi trattenute fino a 180 giorni nei Centri di permanenza per il rimpatrio (se si riempiranno potranno essere usate strutture di polizia), cioè gli ex Cie, nella stragrande maggioranza dei casi a zonzo per le città.
Per aumentare il rischio percepito dalle persone.
Questo arcipelago semipenitenziario si amplia ulteriormente. Oltre ai già citati 180 giorni nei Centri per il rimpatrio i richiedenti asilo, prima dunque che venga esaminata la loro posizione, potranno rimanere per trenta giorni negli hotspot e nei centri di prima accoglienza (Cara e Cas). Se quel mese non basterà, passeranno appunto nei Cpr. In totale, dunque, 210 giorni di trattenimento solo per verificarne l’identità, senza alcun genere di reato loro contestato. Il tutto vale anche per i bambini. C’è infine, all’art. 4 del decreto, la previsione di un trattenimento di 48 ore nei posti di frontiera, privo di alcun genere di garanzia.
A tutto questo flusso di irregolari prodotti dal decreto sicurezza si dovrebbe rispondere con un incremento dei fondi per i rimpatri quasi da presa in giro: 500mila euro per quest’anno, 1,5 milioni nel 2019 e un milione nel 2020. Cifre che si commentano da sole.
Altro punto drammatico del decreto ora legge è lo smantellamento dell’unico network di inserimento che funzionava, lo Sprar, il Sistema per l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Il modello diffuso gestito dai comuni italiani sarà svuotato: potrà esservi ospitato solo chi ha già ottenuto l’asilo o i minori non accompagnati. Per tutti gli altri nessuna integrazione, nessun progetto, nessun lavoro di pubblica utilità né il gratuito patrocinio se l’impugnazione di un diniego della protezione sia ritenuto inammissibile: rinchiusi dei Cpr, nei Cara, nei Cas a non far nulla. O, nella stragrande maggioranza, accampati per il Paese. E magari sgombrati periodicamente per questioni di photo opportunity. Rinunciamo all’integrazione, abdichiamo alla dignità.
Sulla lista dei reati che comportano la revoca o il rigetto dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria si può invece evidentemente discutere. Il principio di perdere l’accoglienza di un Paese perché si violano le sue leggi e si è giudicati in via definitiva non è infatti liquidabile e ha una sua ragion d’essere. Le fattispecie previste dalla legge sono violenza sessuale, lesioni gravi, rapina, violenza a pubblico ufficiale, furto aggravato, furto in abitazione e traffico di droga. Il problema nasce quando il richiedente asilo sia solo indagato: in quel caso la commissione territoriale competente si riunisce d’urgenza per valutare la sua posizione e se la domanda viene negata non possibilità di ricorso. Di fatto un’indagine potrebbe essere presa per una sentenza.
Altra strettoia è l’introduzione della lista dei Paesi sicuri: chi proviene da un Paese incluso nell’elenco che il governo dovrà stilare (se ne occuperanno vari ministeri che sentiranno alcuni organismi internazionali), dovrà dimostrare, a suo solo carico, di avere gravi motivi per richiedere l’asilo in Italia. Addirittura, se può tornare in una zona del suo Paese considerata sicura non ha diritto a rimanere. Ma chi decide se un’area o l’altra della Somalia o dell’Eritrea è sicura?
C’è infine la revoca della cittadinanza per questioni di terrorismo a una vasta platea di cittadini: nati in Italia, coniugi di italiani, stranieri figli (anche adottivi) di italiani. Un meccanismo diabolico che rischia fortemente l’incostituzionalità non solo perché crea cittadini di due categorie ma produce di fatto apolidia, atteggiamento legislativo vietato da uno specifico trattato sottoscritto dall’Italia.
Il resto del decreto alterna misure scivolose – come i taser ai vigili urbani dei capoluoghi di provincia o la possibilità concessa ai sindaci di intervenire sugli orari di certi esercizi interessati da “fenomeni di aggregazione notturna” – ad altri attesi come il braccialetto elettronico anche per imputati di stalking e maltrattamenti in famiglia passando per l’inasprimento delle sanzioni per chi organizza occupazioni di immobili. Ma il cuore si gioca intorno al falso concetto di sicurezza: senza un meccanismo efficace dei rimpatri si tratta di un bluff. E anche laddove questo esistesse, si tratterebbe di un clamoroso arretramento dello Stato di diritto.





Decreto "sicurezza"

Organizzare il caos: è la logica del Viminale sui migranti


http://www.vita.it/it/article/2018/12/01/organizzare-il-caos-e-la-logica-del-viminale-sui-migranti/149965/

Finita l'emergenza concreta degli arrivi di migranti - piaccia o no, sono i numeri a dirlo -, l'emergenza deve continuare. Come? Creando le condizioni affinché le proprie profezie si avverino: decine di migliaia di persone finiranno per strada. Presumibilmente affluiranno nelle grandi città. Questa è la logica del Decreto cosiddetto Sicurezza, per chi la sappia davvero leggere. Creare il caos e, poi, organizzarlo

C'è una logica, non solo retorica nel percorso di Matteo Salvini. Ed è alla prima che dobbiamo guardare, per non farci distrarre dalla seconda. Nei mesi scorsi, siamo finiti a farci dettare l'agenda da un tweet (no Tav-sì Tav, no inceneritori-sì inceneritori, etc.) che ha creato un campo di continue polarizzazioni apparenti.

Logica, non solo retorica

La logica, però, era chiara da tempo, bastava guardare le cose senza compromessi. Ne avevamo scritto su queste pagine nel maggio scorso: azzerare il sistema Sprar. Favorire grandi aggregati (privati e di interesse). Era lo scopo? Per chi scrive, sì. I grandi aggregati - la forma giuridica conta poco, ma notiamo una prevalenza di Srl create ad hoc negli anni scorsi - avevano già dato pessima prova di sé nel sottosistema dei Cas, i Centri di accoglienza straordinaria che, lo dice il nome, rispondono a una logica emergenziale. Finita l'emergenza, perché mantenere questo strumento? La risposta ognuno può darsela da sé.


Le tessere del domino

A riprova di questo, in conseguenza della nuova logica del Viminale, dalle Prefetture stano arrivando lettere come quella che pubblichiamo (in questo caso è di Potenza) che spiegano in maniera chiare e semplice gli effetti del Decreto, in termini di abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Altra questione? Non proprio: altro tassello del domino che si sta componendo, giorno dopo giorno, sotto gli occhi di tutti.
Finita l'emergenza concreta degli arrivi di migranti - piaccia o no, sono i numeri a dirlo -, l'emergenza deve continuare. Come? Creando le condizioni affinché le proprie profezie si avverino: 150mila persone finiranno per strada per gli effetti complessivi del Decreto "sicurezza". Presumibilmente affluiranno nelle grandi città.

Milano: prove di caos generale

Prendiamo un dato concreto: sono 500 i profughi accolti nei centri di accoglienza gestiti dalle cooperative di Caritas Ambrosiana nella Diocesi di Milano. Ora rischiano di diventare senza tetto per effetto del Decreto "sicurezza". Perché? Perché non avranno più la possibilità di ottenere la protezione umanitaria. Inoltre non potranno più essere accolti all’interno del sistema di protezione per richiedenti asilo gestito dai Comuni, lo Sprar. Saranno vanificati gli sforzi fatti per avviare percorsi di integrazione. Rischia così di andare perso l’investimento di risorse pubbliche e private erogate per l’accoglienza e i corsi professionali senza considerare il lavoro e il tempo offerto gratuitamente da centinaia di volontari impegnati nelle scuole di italiano e nei tanti percorsi di accompagnamento sociale.
«Poiché non è realistico immaginare che saranno rimpatriati, ci aspettiamo di ritrovarli in coda ai nostri centri di ascolto. Dopo esserci impegnati per la loro integrazione ora dovremo spendere soldi e tempo per aiutarli ma senza, a questo punto, poter offrire loro alcuna prospettiva di futuro: un controsenso», sostiene il direttore di Caritas Ambrosiana Luciano Gualzetti.
Risultato? Il caos. Obiettivo mancato? Tutt'altro. Il chiacchiericcio sulla retorica lasciamolo ai gatekeepers: le profezie che si autoavverano non sono più profezie, ma dati di triste realtà. C'è una logica nel Decreto cosiddetto Sicurezza, per chi la sappia davvero leggere. Creare il caos e, poi, organizzarlo.

Il Decreto Sicurezza è una crociata contro gli ultimi, stranieri e non

Oltre a "mettere per strada" migliaia di stranieri, il provvedimento se la prende con i più poveri e avrà l'effetto di limitare le forme di dissenso tramite il reato di blocco stradale.
di Dario Falcini - 2 dicembre 2018

https://www.rollingstone.it/politica/il-decreto-sicurezza-e-una-crociata-contro-gli-ultimi-stranieri-e-non/438188/

In questi giorni tutti quanti si stanno soffermando sugli effetti che il Decreto Sicurezza avrà sui flussi di immigrazione e sulla vita degli stranieri già presenti in Italia. Giustamente, perché rischiano di essere devastanti: per i richiedenti asilo la permanenza diventerà sempre più complicata e ottenere lo status di protezione internazionale sarà quasi impossibile, con l’esito di aumentare di gran lunga il numero di irregolari presenti sul territorio nazionale. Organizzare il caos, questa è la logica, come ha scritto qualcuno.
Ma il provvedimento approvato in via definitiva martedì dalla Camera – e che mette assieme due testi: il Decreto Sicurezza e il Decreto Immigrazione, riunificati per agevolarne l’approvazione – non si limita solo a “punire” gli immigrati, dopo anni di propaganda circa la loro pericolosità sociale. Riguarderà anche numerosi cittadini italiani: coloro che sono rimasti indietro, quelli che il governo di Matteo Salvini e del Movimento 5 Stelle – più passa il tempo e più appare evidente come nello slogan “né di destra, né di sinistra” una delle due negazioni fosse un po’ più convinta dell’altra – si ripromettono di riscattare dopo decenni di abbandono.
«Le misure sono accomunate da un obiettivo: emarginare ancora di più gli ultimi», dice Arturo Salerni, avvocato romano che, tra le centinaia di processi portati avanti nella sua carriera, difende le 300 parti lese per il naufragio di Lampedusa, i familiari di Soumayla Sacko e di numerose vittime di caporalato, e poi manifestanti e spazi occupati della capitale. «Stiamo studiando il testo, ci sono diversi motivi di preoccupazione», aggiunge Eugenio Losco, collega che fa parte del direttivo della camera penale Milano, ed è il più noto “avvocato di movimento” della città lombarda.
Ma quali sono i punti che destano la loro apprensione? Anzitutto l’articolo 23 del Decreto 113/2018 (per tutti Decreto Salvini, ndr), quello intitolato “Disposizioni in materia di blocco stradale”. «Viene reintrodotto un reato (quello di blocco stradale appunto, ndr) che era previsto in una legge del 1948, e che era stato depenalizzato nel 1999. Allora si creò una distinzione tra coloro che impedivano o ostacolavano la libera circolazione sui binari ferroviari e chi lo faceva su una strada ordinaria: solo i primi rischiavano il carcere, per i secondi era prevista una sanzione amministrativa», spiega Losco. «Ora si torna al passato, con il reato che può essere contestato su ogni tipo di strada. Inizialmente il testo spiegava che il blocco poteva svolgersi sia tramite degli ingombri che con il proprio corpo, ma in fase di conversione del decreto la seconda opzione è stata levata: devono essere presenti oggetti fisici in strada». 
Quello che più colpisce è il carico della pena: da uno a sei anni, che raddoppiano se il reato è commesso da 10 o più persone e se è contestata l’aggravante di violenza o minacce. «I confini sono ampi e non sarà affatto semplice stabilire quando si configura il blocco», dice Salerni. Tante manifestazioni – più o meno tutte quelle non concordate con la questura, e quindi autorizzate a occupare la sede stradale – hanno come effetto blocchi o ritardi nella circolazione dei mezzi, dalle auto ai tram. «Sarà da stabilire volta per volta quando contestare davvero il reato. Di certo un simile provvedimento può funzionare come deterrente a chi voglia manifestare: se non sei più che motivato, diciamo radicale, la sola possibilità di andare sotto processo può intimorirti». «E poi non è chiaro se si sommerà al reato di interruzione di pubblico servizio, che ha una condotta sovrapponibile ed è già previsto dalla legge. Ravvisiamo dei profili di incostituzionalità», prosegue Eugenio Losco.
Che spiega anche come il reato determini la revoca del permesso di soggiorno alle persone coinvolte, e sia considerato ostativo all’emissione di uno nuovo. E pare quindi pensata ad hoc per limitare le proteste dei lavoratori della logistica, molto frequenti – e determinate – gli scorsi mesi nel piacentino e nell’hinterland di Milano, dove hanno sede alcuni corrieri per il trasporto merci e magazzini di stoccaggio di grandi aziende.
Ma i facchini – quasi tutti stranieri – non saranno gli unici “beneficiari” del decreto. Con gli articoli 30 e 31 il Dl va all’attacco di chi occupa case e altri immobili. Chi “invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto”. «Prima era prevista una pena fino a due anni oppure una multa, ora la sanzione si somma al carcere da uno a tre anni, che salgono da due fino a cinque in caso il reato sia commesso da più di 5 persone. Può essere contestato d’ufficio oppure per querela di parte (ad esempio il proprietario dell’immobile, ndr)», dice Losco. E se l’occupazione risale indietro nel tempo? «Teoricamente vale il momento in cui viene contestata».
Inoltre per chi è accusato di aver promosso l’occupazione sono previste delle aggravanti. «Si vogliono punire i movimenti per la casa, particolarmente forti negli ultimi anni in città come Roma o Milano», spiega Losco. «Nei loro confronti», aggiunge Salerni, «è prevista la possibilità di effettuare delle intercettazioni telefoniche, in caso si pensi che stiano organizzando un’occupazione. Questo in deroga alla legge, che vuole che un simile tipo di attività investigativa sia riservata a reati con pene superiori».
Infine – tutto da chiarire e quindi da studiare molto attentamente -, nel decreto trovano posto misure repressive come l’estensione del Daspo, provvedimento nato per allontanare i violenti dallo stadio e oggi introdotto in contesti molto diversi. Il cosiddetto Daspo urbano, l’impossibilità di frequentare una città o zone della stessa, allarga il suo raggio d’applicazione. «Chi viene incolpato di avere creato disordini in un locale pubblico, può essere impedito a tornarci. Ci sono varie possibilità», spiega Eugenio Losco. E poi la sperimentazione del taser anche alla polizia municipale e l’aberrazione del reato di accattonaggio, tra le tante novità del decreto. Di certo aumenteranno i clienti di professionisti come Salerni e Losco. «E come sempre lavoreremo pro bono», dice quest’ultimo. Trovando fortunatamente il modo di concedersi una risata su un decreto che va a colpire chi non può nemmeno pagarsi un avvocato.

sabato 24 novembre 2018

Populisti cinici e Stati canaglia

La dottrina Trump

Con un comunicato senza precedenti sull’Arabia Saudita, la Casa Bianca ha fatto passare un messaggio importante: chi è dalla parte degli Stati Uniti può fare quello che vuole

Il Post - 21 novembre 2018

 https://www.ilpost.it/2018/11/21/dottrina-trump-khashoggi/

Martedì sera il presidente statunitense Donald Trump ha diffuso il comunicato forse più incredibile e unico nella storia recente delle comunicazioni pubbliche della Casa Bianca. In sintesi, Trump ha fatto sapere che il suo governo continuerà in ogni caso ad appoggiare l’Arabia Saudita e il suo politico più potente, il principe ereditario Mohammed bin Salman, indipendentemente dalla responsabilità del regime saudita nell’omicidio del giornalista e dissidente Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita a Istanbul, in Turchia, lo scorso 2 ottobre. Secondo diverse ricostruzioni affidabili, e secondo la CIA, Khashoggi è stato torturato, ucciso e fatto a pezzi su ordine di Mohammed bin Salman.
Il comunicato di Trump – scritto in maniera sgangherata e informale, con vari errori e punti esclamativi, e pieno di informazioni e dati falsi – ha provocato grande scalpore perché non è solo un comunicato: è una specie di manifesto della sua politica estera, basata sulla completa preminenza della sfera economica su quella politica e sul rifiuto di buona parte dei concetti che hanno mosso gli Stati Uniti nel mondo nel corso dell’ultimo secolo.
In particolare, nel comunicato è formalizzata un’idea che era già emersa nei primi due anni di presidenza Trump: chi sta dalla parte degli Stati Uniti – non importa se sia un dittatore o un leader autoritario – può fare quasi tutto ciò che vuole, senza limiti, perché il presidente e la sua amministrazione chiuderanno un occhio. Può sequestrare un primo ministro straniero, provocare una delle più gravi crisi umanitarie di sempre, torturare e uccidere un importante giornalista e opinionista residente in America – cose che ha fatto il regime saudita nel corso dell’ultimo anno, senza vere conseguenze – purché salvaguardi i rapporti economici e di amicizia con gli Stati Uniti. Tutto questo fa parte di quella che probabilmente passerà alla storia come la “dottrina Trump”. 
 
Non è la prima volta che le posizioni di Trump verso leader quanto meno discutibili vengono messe sotto accusa da politici e commentatori, anche perché il presidente degli Stati Uniti usa le sue parole più gentili verso i dittatori, mentre si è espresso molte volte in modo brusco e minaccioso verso i più antichi e pacifici alleati statunitensi, come l’Europa e il Canada. Va specificata comunque una cosa: Trump non è certo il primo presidente della storia degli Stati Uniti che appoggia regimi autoritari e repressivi: ci sono decine di esempi che dicono il contrario, e negli ultimi decenni i governi americani sono arrivati anche a sostenere colpi di stato contro regimi eletti in maniera democratica. La particolarità di Trump è la spregiudicatezza delle sue politiche, la sua incapacità ad anticipare le conseguenze delle sue decisioni, e la sua indifferenza verso quelle norme che regolano la politica internazionale e che hanno fatto permesso agli Stati Uniti di essere la potenza dominante per molto tempo.
I tre casi più noti, quelli che hanno definito più chiaramente la politica estera di Trump finora, riguardano i rapporti con il presidente russo Vladimir Putin, il dittatore nordcoreano Kim Jong-un e, per l’appunto, il principe ereditario Mohammed bin Salman, che viene considerato oggi il vero “uomo forte” della famiglia reale saudita. Ci sono due cose che accomunano le relazioni che Trump ha sviluppato con tutti questi leader: un’attitudine del presidente a credere più alle loro parole che alle informazioni provenienti dal suo stesso governo e dalla sua intelligence, e una tendenza a chiudere un occhio di fronte a episodi eclatanti che in altri tempi e con altri governi sarebbero stati condannati e puniti.
Lo scorso luglio, per esempio, Trump partecipò a una conferenza stampa a Helsinki, in Finlandia, dopo avere incontrato Putin. Alcuni giornalisti gli chiesero di commentare il fatto che l’intelligence statunitense avesse concluso in modo unanime che la Russia aveva attaccato gli Stati Uniti durante la campagna elettorale presidenziale del 2016. Trump, tra lo stupore di molti, diede una risposta molto sgangherata: citò alcune screditate teorie del complotto su Hillary Clinton, scagionò la Russia e fece capire chiaramente che si fidava più di Putin che dalla sua stessa intelligence. Poi fu molto criticato, anche all’interno del suo stesso partito, e fu definito una “marionetta” nelle mani del presidente russo: 24 ore dopo cercò goffamente di ritrattare, ma senza grande successo.
La strenua difesa di Putin non è stata l’unica che Trump ha garantito a un leader autoritario nei suoi due anni di presidenza. Lo scorso giugno, poche ore dopo lo storico ma inconcludente incontro con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, Trump scrisse un tweet che diceva: «Non c’è più alcuna minaccia nucleare dalla Corea del Nord», un commento quanto meno azzardato e prematuro. Nelle settimane successive, Trump si impegnò a celebrare l’intesa di massima raggiunta a Singapore con Kim, sovrastimando in maniera evidente i risultati dell’incontro – che non prevedono alcun disarmo – e mettendo da parte qualsiasi discorso sulle gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani compiute in Corea del Nord, dove governa da decenni uno dei regimi più brutali e violenti del mondo.
Donald Trump e Kim Jong-un all’hotel Capella di Sentosa, Singapore, 12 giugno 2018
Il caso più eclatante, comunque, è quello dell’Arabia Saudita, un paese in cui l’Islam è interpretato e applicato nella sua versione più intransigente e conservatrice. Negli ultimi due anni Trump ha accettato dal regime saudita, nell’ambito della sua contesa regionale con l’Iran: che venisse imposto una specie di embargo al Qatar, che i sauditi accusano di essere troppo amico dell’Iran ma che allo stesso tempo ospita sul suo territorio la principale base militare americana nel Golfo Persico; che venisse sequestrato per giorni il primo ministro libanese Saad Hariri, accusato di essere troppo conciliante con Hezbollah, gruppo radicale libanese molto vicino all’Iran; che venissero bombardati i civili in Yemen, dove l’intervento saudita ha provocato una gravissima crisi umanitaria a cui non si vede soluzione nel breve periodo; e che venisse ucciso in un ufficio diplomatico saudita a Istanbul il giornalista Jamal Khashoggi, che da tempo viveva in Virginia e lavorava come opinionista al Washington Post.
È difficile elencare con precisione tutti i motivi per cui Trump ha scelto di essere così diverso da tutti i presidenti che lo hanno preceduto. Come hanno sostenuto alcuni analisti e giornalisti americani, soprattutto dopo l’incontro avvenuto a Singapore con Kim Jong-un, una delle ragioni sembra essere l’ambizione di diventare IL presidente in grado di risolvere problemi molto complessi, grazie a un modo di fare molto più personale e diretto.
Questo approccio probabilmente non è dovuto solo a una scelta consapevole di Trump, ma anche alle sue conoscenze molto approssimative e limitate sia di cosa succede nel mondo – è noto che Trump legga poco e niente, anche adesso, e si annoi molto quando i suoi consiglieri lo aggiornano – che dei meccanismi della diplomazia (uno degli episodi più incredibili fu quando Trump riprese pari pari una ricostruzione storica molto controversa del presidente cinese Xi Jinping che fece arrabbiare il governo sudcoreano, alleato degli Stati Uniti). Trump ha mostrato inoltre di non avere molto il senso della misura dei successi suoi e della sua amministrazione. Per fare un altro esempio: lo scorso settembre, durante una riunione dell’Assemblea generale dell’ONU, Trump disse che il suo governo aveva ottenuto risultati migliori di quasi ogni altra amministrazione nella storia degli Stati Uniti. La frase provocò le risate fragorose dell’aula, che furono ricevute da Trump con un commento stupito: «Non era questa la reazione che mi aspettavo, ma va bene lo stesso».
C’è poi un’altra cosa da considerare, che spiega molto dell’atteggiamento conciliante di Trump verso Mohammed bin Salman. Trump ha sempre visto la politica estera come una serie di accordi commerciali, spogliati dal sistema di valori su cui gli Stati Uniti hanno costruito la propria forza nell’ultimo secolo.
Nel comunicato diffuso dalla Casa Bianca martedì sera, per esempio, Trump ha parlato di 450 miliardi di dollari di investimenti sauditi negli Stati Uniti, che secondo lui avrebbero creato centinaia di migliaia di posti di lavoro, uno sviluppo economico notevole e generale benessere per i cittadini americani. Al di là del fatto che sono cifre completamente false, come spiegato in diversi articoli, la logica di Trump è: possiamo rinunciare al sistema di valori che ci ha reso grandi e importanti – e che include l’appoggio a modelli democratici e le pressioni per ottenere il rispetto dei diritti umani – se il risultato è un guadagno economico. Questo è un approccio che Trump aveva già mostrato di voler usare nella lunga e controversa discussione con gli altri paesi membri della NATO, in particolare con quelli europei: Trump li accusava di essersi approfittati per decenni degli Stati Uniti senza dare niente in cambio, e pretendeva che cominciassero a pagare per la propria sicurezza.
La cancelliera tedesca Angela Merkel di fronte a Donald Trump al secondo giorno di G7 in Canada, 9 giugno 2018 (Jesco Denzel /Bundesregierung via Getty Images)
La difesa di Trump a leader autoritari e dittatori in giro per il mondo, in altre parole, fa parte di un nuovo modo di pensare gli Stati Uniti, unico nella storia recente americana. Come ha scritto CNN, Trump ha deciso di rinunciare al cosiddetto “American exceptionalism”, “eccezionalismo americano”, ovvero quell’idea che gli Stati Uniti siano impegnati in una specie di missione di appoggio ai valori della democrazia e della libertà. L’approccio di Trump in politica estera è invece basato su concetti diversi: il rifiuto del cosiddetto “globalismo”, l’interpretazione molto volatile di “interesse nazionale”, la diffidenza verso l’attuale ordine internazionale, ambizioni personali molto forti e prevalenza di logiche economiche su valutazioni politiche.
È difficile dire ora quanto potrà durare l’atteggiamento conciliante di Trump verso dittatori e leader autoritari, anche perché negli ultimi mesi sono emersi diversi malumori all’interno del suo stesso partito. Le amicizie meno digerite sembrano essere quelle con Vladimir Putin, simbolo di una Russia aggressiva e osteggiata da molti Repubblicani, e con Mohammed bin Salman, che soprattutto dopo l’omicidio di Khashoggi è diventato un personaggio per molti impresentabile. Nel Congresso si sta elaborando una proposta bipartisan, quindi appoggiata sia da Democratici che da Repubblicani, per prendere misure più dure contro il regime saudita, che vadano oltre le limitate sanzioni decise finora (per esempio approvando il blocco della vendita delle armi). Per Trump potrebbe non essere facile uscirne, soprattutto dopo le elezioni di metà mandato con cui i Democratici hanno preso il controllo della Camera.

 

Ma l’Arabia Saudita non stava cambiando?

Dietro all'assurda sparizione del giornalista Jamal Khashoggi c'è il principe Mohammed bin Salman, lo stesso delle patenti alle donne e degli annunci sull'Islam moderato

di Elena Zacchetti
Il Post -  11 ottobre 2018
https://www.ilpost.it/2018/10/11/arabia-saudita-stato-autoritario-omicidio-khashoggi/
È passata più di una settimana dalla scomparsa del giornalista saudita Jamal Khashoggi, e ancora non si sa con certezza cosa sia successo. Negli ultimi giorni diverse fonti – rimaste per lo più anonime, ma considerate molto affidabili – hanno parlato con i principali giornali internazionali, in particolare con il New York Times e il Washington Post, e hanno sostenuto che Khashoggi sia stato ucciso da uomini sauditi all’interno del consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, in Turchia, dove era entrato poco dopo le 13 del 2 ottobre per ottenere dei documenti di divorzio. Khashoggi era residente negli Stati Uniti da tempo: è un opinionista del Washington Post noto soprattutto per le sue posizioni molto critiche verso il principe ereditario saudita, il potentissimo Mohammed bin Salman.
Dopo i primi giorni di indagini e inchieste giornalistiche, sembra non esserci più alcun dubbio sul coinvolgimento della famiglia reale saudita nella scomparsa – molto più probabilmente omicidio – di Khashoggi. Ci sono diversi elementi che lo fanno pensare: i 15 uomini arrivati da Riyadh a Istanbul su voli charter e coinvolti nella vicenda, la sparizione dei video delle telecamere di sicurezza all’interno del consolato, e soprattutto alcune intercettazioni dell’intelligence statunitense che mostrano che fu Mohammed bin Salman a ordinare la cattura di Khashoggi e il suo trasferimento in Arabia Saudita. A questo punto il lettore distratto potrebbe chiedersi: ma Mohammed bin Salman non era quello delle grandi riforme, delle patenti di guida alle donne, dei concerti live, dell’Islam moderato e della riapertura dei cinema?
Le riforme inaspettate, la feroce repressione
La stampa internazionale si accorse di Mohammed bin Salman, o MbS, per un enorme e ambizioso piano di riforme presentato nell’aprile 2016 e chiamato “Vision 2030”, che avrebbe dovuto rendere l’Arabia Saudita indipendente dall’andamento dei mercati petroliferi entro il 2030. MbS ricevette allora grandissime attenzioni e le sfruttò per scalare pezzo dopo pezzo la famiglia reale saudita, fino a farsi nominare erede al trono da re Salman, suo padre, e diventare il politico più potente e importante del regno.
Nell’ultimo anno e mezzo MbS è finito più volte sulle prime pagine dei giornali internazionali, presentato come promotore di un’Arabia Saudita diversa, meno legata alla precedente rigida interpretazione dell’Islam. Lo scorso anno Thomas Friedman, storico opinionista del New York Times, scrisse per esempio che «il più significativo processo di riforme in corso oggi in tutto il Medio Oriente si sta verificando in Arabia Saudita. Si avete letto bene. Nonostante sia venuto qui all’inizio dell’inverno saudita, ho trovato un paese che sta attraversando la propria Primavera araba, in stile saudita». Friedman, insieme a molti altri, commentava le inaspettate riforme di MbS, che sembravano poter cambiare la vita quotidiana di tanti sauditi e saudite. Allo stesso tempo, però, altri analisti mettevano in guardia sugli innamoramenti esteri verso MbS: il principe ereditario stava già perseguitando sistematicamente tutti quelli in grado di minacciare il suo potere, e stava trasformando l’Arabia Saudita in un paese ancora più repressivo e autoritario (Friedman viene ancora molto criticato per quell’editoriale).
I più critici verso MbS non parlavano a caso. All’inizio di novembre dello scorso anno decine di principi e politici sauditi furono improvvisamente arrestati da una “commissione anti-corruzione” nata appena poche ore prima. Molti di loro furono detenuti per settimane nell’hotel Ritz-Carlton della capitale Riyadh, usato come prigione di lusso, mentre subivano pressioni per “risarcire” lo Stato dei presunti beni sottratti con la corruzione. Nei mesi successivi le forze di sicurezza saudite agli ordini di MbS arrestarono – spesso sequestrarono – diversi dissidenti, oppositori e critici verso il regime. Come dimostrano le informazioni d’intelligence ottenute dal Washington Post e pubblicate oggi, il regime saudita progettava da tempo il sequestro di Khashoggi: l’idea era “prelevarlo” dal territorio di uno stato straniero e riportarlo in Arabia Saudita, così che non avesse più modo di criticare il regno di MbS.
Quello che si chiedono in molti è: cos’è l’Arabia Saudita oggi? Il paese delle riforme sui cinema, sui concerti, sulle patenti alle donne, o il regime autoritario che persegue dissidenti e critici con una ferocia e un’impunità raramente viste nel passato? Entrambe le cose, probabilmente, ma soprattutto è il regno di un sovrano assoluto.
Un paese riformatore o un regime autoritario?
Le riforme avviate da MbS nel corso dell’ultimo anno hanno avuto l’obiettivo di cambiare faccia all’Arabia Saudita e dargliene una più “presentabile”, diciamo così, per allentare la pressione dei media occidentali, darsi l’immagine del rinnovatore, favorire gli investimenti esteri e migliorare i rapporti politici con i propri alleati, tra cui gli Stati Uniti. In un certo senso ha funzionato, ma a un prezzo altissimo.
Il giornalista Peter Bergen, esperto di sicurezza per CNN, ha scritto che MbS ha proseguito nelle misure che hanno reso l’Arabia Saudita «una dittatura totalitaria, nella quale tutti gli aspetti della società sono controllati da lui e tutte le forme di dissenso sono soffocate, un approccio che si è ulteriormente rafforzato con la sparizione di Khashoggi». Il fatto è che MbS ha avviato sì delle riforme, ma ha deciso di dettarne il ritmo e di non tollerare alcuna interferenza esterna: «È una vecchia tecnica che risale a Luigi XIV di Francia, che si pensa abbia detto: “L’état, c’est moi”, ovvero “Lo stato sono io”», ha aggiunto Bergen. Nell’ultimo anno e mezzo, in altre parole, MbS è stato ossessionato dall’accentrare il potere su di sé, eliminare tutti i suoi nemici politici e i suoi critici, facendo mosse così spregiudicate da sembrare incomprensibili e lasciare stupefatti.
Far sparire Khashoggi in un proprio consolato è solo l’ultima di una serie di mosse che non sembrano rispondere a logiche precise se non quella di esercitare sempre più potere. Nell’ultimo anno e mezzo, per dirne due, MbS ha deciso di imporre un embargo praticamente totale al Qatar, accusato di essere troppo vicino all’Iran, dando inizio a una crisi che finora non gli ha portato alcun vantaggio; e ha di fatto sequestrato e obbligato alle dimissioni il primo ministro del Libano, Saad Hariri, che poi una volta tornato in Libano si è ripreso la sua carica come se nulla fosse successo.
Perché MbS è così spregiudicato?
In poche parole: perché può farlo.
C’è una cosa da tenere a mente al riguardo: l’Arabia Saudita non è uno stato democratico, non ha un elettorato in grado di punire i governanti della famiglia reale, non concede libertà di espressione e di dissenso, non permette l’esistenza di un’opposizione politica come la intendiamo noi. È uno stato autoritario che non si deve preoccupare dell’indignazione popolare per avere fatto sparire un dissidente sotto gli occhi di tutto il mondo nel proprio consolato in un paese membro della NATO, come è la Turchia. E tutto questo nonostante le recenti riforme. Tolta l’inesistente pressione interna, c’è solo una cosa che avrebbe potuto rendere MbS meno spregiudicato: il rischio di perdere il più importante alleato e amico dell’Arabia Saudita, cioè il governo degli Stati Uniti. E questo è un punto importante.
Due anni fa, ha scritto il Washington Post in un editoriale, sarebbe stato inconcepibile che i governanti dell’Arabia Saudita fossero sospettati di sequestrare o uccidere un dissidente che viveva a Washington e scriveva regolarmente per un giornale così importante. I rapporti tra l’Arabia Saudita di re Salman e gli Stati Uniti di Barack Obama erano tesi e ai minimi storici, soprattutto per l’opposizione saudita all’accordo sul nucleare iraniano e per l’insofferenza statunitense verso le violenze saudite nella guerra in Yemen, ma proprio per questo il governo saudita evitava provocazioni e mosse spregiudicate: perdere del tutto l’amicizia con gli americani, in uno dei momenti di massimo confronto con l’Iran, sarebbe stato un durissimo colpo. Con Trump, però, le cose sono cambiate in maniera rapida e profonda.
Trump fece la prima tappa del suo primo viaggio ufficiale all’estero, quella che di solito è riservata agli alleati più stretti e fidati, proprio in Arabia Saudita, sorprendendo un po’ tutti. Quando nel novembre 2017 MbS ordinò l’arresto di decine di principi e politici nella presunta operazione anti-corruzione, Trump approvò e disse: «Ho grande fiducia in re Salman e nel principe ereditario dell’Arabia Saudita [MbS]. Sanno esattamente cosa stanno facendo». Quando MbS visitò Washington lo scorso marzo, Trump lo ricevette senza menzionare nemmeno una volta i diritti umani: «La nostra relazione è probabilmente più forte che mai», commentò. L’amministrazione statunitense non reagì troppo nemmeno a crisi più serie, per esempio di fronte all’imposizione dell’embargo sul Qatar, paese dove tra l’altro gli Stati Uniti hanno la loro più importante base militare del Golfo Persico, e al sequestro del libanese Hariri. Nel frattempo Trump aveva ritirato l’adesione degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, concedendo un’altra grande vittoria a MbS. L’idea di diversi analisti era semplice: gli Stati Uniti di Trump avevano dato praticamente “carta bianca” a MbS, che aveva cominciato a comportarsi di conseguenza.
Questa idea è stata ripresa anche oggi, dopo la sparizione di Khashoggi (che, peraltro, è appunto residente negli Stati Uniti e regolare opinionista di uno dei principali quotidiani americani). Da Trump non sono arrivate dichiarazioni indignate o tweet sopra le righe, e non è nemmeno stato convocato l’ambasciatore saudita a Washington per avere spiegazioni, una pratica diplomatica usata anche in situazioni molto meno gravi di questa. MbS in questo senso ha dimostrato di avere avuto ragione: lo poteva fare, senza temere conseguenze.
L’uccisione o il sequestro di Khashoggi, ha scritto il Washington Post, «potrebbe anche riflettere l’influenza del presidente Trump, che ha spinto il principe ereditario a credere – erroneamente, crediamo – che anche le sue mosse più spericolate e illegali avrebbero avuto il sostegno degli Stati Uniti». Di parere simile sono diversi altri analisti, che tra le altre cose sono andati a ripescare un rapporto riservato redatto nel maggio 2017 per l’allora segretario di Stato americano Rex Tillerson e scritto dal suo principale consigliere, Brian Hook. Nel rapporto si parlava della necessità per gli Stati Uniti di chiudere un occhio di fronte alle violazioni dei diritti umani di paesi alleati come l’Arabia Saudita.
Per il momento l’amministrazione Trump non ha alzato la voce con l’Arabia Saudita e non ha cambiato il tono pubblico del dibattito, nonostante sia sempre più chiaro che dietro la sparizione di Khashoggi ci siano i sauditi. Aspettarsi però che siano i sauditi a dare una spiegazione su quanto successo sembra oggi completamente inutile: nonostante gli annunci delle riforme tanto pubblicizzate negli ultimi mesi, chi governa l’Arabia Saudita non deve rendere conto quasi a nessuno, se non eventualmente ai propri alleati, perché così fanno gli stati autoritari.