Il Blog delle malefatte sindacali a Malpensa (e non solo)

martedì 11 novembre 2008

Per una lettura liberale e non tremontiana della Crisi

E' uscito il nuovo e apprezzabile saggio del duo F.Giavazzi - A. Alesina, dedicato appunto a una lettura della crisi economica attuale diversa e non conformista. Uno spiraglio di lucidità in un clima di dominante tremontismo protezionista. Ideale ripresa di alcuni temi già affrontati ne "Il liberismo è di sinistra". Tanto per chi si fosse voluto dimenticare che il protezionismo - come la storia dimostra immancabilmente - serve sempre a proteggere i forti da e contro i deboli, oltre che a generare illibertà, conflitti e guerre.
Alcuni passaggi di un interessante articolo di A. Panebianco sul Corriere del 22/11/2008 mi pare che ben sintetizzino questi concetti:
Conviene ricordare a chi irride il «liberismo» qualche insegnamento della storia. Anche dopo il '29 il primato della politica venne riaffermato con forza (il New Deal, il socialismo scandinavo, l'Iri, i piani quinquennali sovietici, il riarmo hitleriano) in variante democratica o totalitaria. E anche allora l'intellighenzia occidentale si buttò con entusiasmo ad inseguire i miti del momento, sostenendo che il «liberalismo» (giudicato un residuo ottocentesco) era finalmente al tramonto, che stava per nascere la luminosa era della «pianificazione». Sappiamo come finì. Il primato della politica sfociò nel protezionismo selvaggio e tutto si concluse (dieci anni dopo l'inizio della grande crisi) con una guerra mondiale. Il rapporto fra la politica e il mercato è uno degli aspetti più complessi (e oscuri, difficili da mettere a fuoco) delle società contemporanee […].
A me pare che in questo atteggiamento si annidino due errori. In primo luogo, l'errore di non riconoscere che l'onnipotenza della politica è solo un mito. Un mito lugubre, per di più. Con quanto più accanimento è stato perseguito tante più catastrofi si sono prodotte. Il grande lascito culturale (che oggi la crisi va disperdendo) delle rivoluzioni liberali di trenta anni fa — a loro volta, ispirate al liberalismo classico, sette-ottocentesco — stava nel rifiuto dell'onnipotenza della politica, nel riconoscimento che solo lasciando massima libertà agli individui e alla creatività individuale si fa il bene di una società, che compito del governo non è darci la «felicità» ma lasciarci liberi di cercare la nostra personale strada alla felicità. Il secondo errore consiste nel non vedere i costi del primato della politica, non saper contrapporre ai vantaggi di breve termine i costi dì medio-lungo termine. Nel breve termine la politica è sicuramente in grado di assicurare vantaggi. Per esempio, in una situazione di crisi, salvando il credito, tamponando gli effetti della disoccupazione, eccetera. Ma il punto è che ciò che la politica ci dà con una mano oggi se lo riprenderà domani con gli interessi (in termini di controllo sulle nostre vite).
Certamente, dobbiamo oggi affidarci a decisioni politiche per fronteggiare la crisi. E dobbiamo purtroppo accettare una più forte presenza dello Stato. Ma se non lo facciamo a malincuore, se ci mettiamo dentro un immotivato entusiasmo, se non ci rendiamo conto che si può accettare un temporaneo ampliamento del ruolo dello Stato in condizioni di emergenza solo pretendendo che lo Stato si impegni a ritirare di nuovo i suoi tentacoli quando l'emergenza sarà finita, contribuiamo a preparare un futuro persino peggiore del presente. È una questione di atteggiamenti culturali. In America esistono potenti anticorpi che impediranno degenerazioni permanenti del tipo «socialismo di Stato». In Europa continentale gli anticorpi sono più deboli (in Italia, poi, sono debolissimi). Il rischio, qui da noi, non è il «ritorno dello Stato» della cui invadenza, in realtà, nonostante tanti sforzi, non ci siamo mai liberati. Il rischio è che quell'invadenza torni a godere di piena legittimazione culturale. Il rischio è dimenticare che quanto più la politica si impiccia, quanto più pretende di dispensarci la felicità, tanto più si riduce, col tempo, la libertà di ciascuno di noi.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

il protezionismo - e la storia lo ha dimostrato sempre - serve a PROTEGGERE I PIù FORTI CONTRO I PIù DEBOLI.
E proteggere i forti dalla concorrenza dei più deboli è, oltre che corporativismo, oligarchia, reazione, barbarie antimoderna e regressista.

Anonimo ha detto...

"... chi avrà responsabilità di indirizzo economico nei prossimi anni sarà inevitabilmente «assalito dalla realtà», dovrà fare i conti, prima di ogni altra cosa, con la necessità, comunque, di liberalizzare l'economia, colpire le rendite politiche annidate al centro e alla periferia, fare insomma tutte quelle cose che piacciono ai liberali, a quelli che pensano che il mercato, meglio senza frontiere, non sia solo il mezzo più efficiente per creare e distribuire ricchezza ma sia anche garanzia di libertà (per chi ce l'ha) e di emancipazione (per chi vi aspira)" (A. Panebianco, corriere della sera, 8/3/2008)