Esegesi di un editto vescovile in difesa della sacralità delle Corporazioni e in condanna della blasfemia di chi nel feudo contesta il santo e inviolabile vincolo di servitù.
“…non rientrerà nei diritti dei magistrati servirsi della forza per imporre il proprio giudizio su qualcosa che non risulti deleterio alla conservazione e al benessere della società” (J. Locke, 3a Lettera sulla Tolleranza, 1692).
Serviva una “prova provata” (in realtà, l’ennesima) dell’esistenza di una poco mirabile Cappella (sindacale) presso la Marca Malpensante (ormai nota ai più come “La Cappella Bassina”, e non per l’altezza delle sue volte)? Ebbene, è notizia di questi giorni “elettorali” il rinvenimento – in forma scritta – di un Editto Vescovile a suo inequivocabile favore.
Da un esame complessivo dei fatti riferiti, appare chiaro che il documento si colloca in epoca contrassegnata, da una parte, da schermaglie (superficiali) tra feudatari di sotto-vertice e vassalli in apparente lotta tra loro (ma le fonti storiche concordemente riferiscono di saldissime e unanimi alleanze, tese alla conservazione dell’ordine sociale feudale, obiettivo che emerge chiarissimo dalle disposizioni vescovili contenute nel documento) e, dall’altra, da un blasfemo tentativo di rivolta di un piccolo numero di villani servi della gleba, oggetto di condanna, di velate minacce di scomunica, e a cui soprattutto si coglie l’occasione di imputare, meno velatamente, le piccole devastazioni compiute da qualche sotto-vassallo nell’ambito delle schermaglie tra i feudatari o aspiranti tali: quale miglior capro espiatorio? Come non cogliere l’opportunità di guadagnare un qualche credito presso feudatari e cappellani? Peccato manchino gli elementi per istituire un bel processo inquisitoriale con tanto di rogo finale… Sarà magari per un’altra occasione…L’accusa, pur configurata, di “Lesa Sindacalità” da sola pare (ancora) non bastare…
Tentativo di lettura in chiave contemporanea. Ovvero, come si deve rispondere (seriamente) all’accusa (culturalmente fascista, in senso proprio) di “Lesa Sindacalità” Corporativa.
Si deve iniziare col chiedersi, di grazia (sindacale), dove sussistano le “espressioni denigratorie” e perché mai (e per chi) esse sarebbero “sconvenienti”; a meno che affermare che “il re è nudo” - o, meglio, i feudatari sono nudi, tutti! - al cospetto di chi sia effettivamente tale non debba essere considerato “denigratorio” e “sconveniente” (bisogna sempre capire a chi); l’alternativa, poi, quale sarebbe? Continuare tutti insieme a fingere beatamente (per loro) che i sovrani sindacali, i loro feudatari locali e i rispettivi vassalli siano di tutto punto vestiti? E continuare – approfittando magari di tale non dichiarata e non disvelabile nudità - a farsi prendere per il culo (magari andando ben oltre lo ius primae noctis) e, in più, a pagare gioiosamente (e ipocritamente) la decima? Un simpatico contemporaneo sindacalista “Rivoluzionario” – ma evidentemente continuatore dichiarato di questa scuola di pensiero - ha perfino affermato, in una recente assemblea, che lavorare di più è più gratificante, quindi chi lo fa è privilegiato rispetto a chi lavora di meno o è nullafacente, dunque non ha bisogno di guadagnare di più rispetto a quest’ultimo e deve essere appagato dal solo fatto di avere questa fortuna…
Si gradirebbe poi, proseguendo nell’esame del testo, riuscire a capire (perché proprio non se ne scorge traccia) su quali basi si possa definire “il perseguimento e la tutela dell’interesse generale” come “obiettivo comune di Organizzazioni Sindacali e Amministrazione”: la “Carta del Lavoro” emanata dal regime fascista al suo apice (1927), testo base del corporativismo moderno, forse non arrivava a tanta chiarezza elogiativa nel definire il ruolo istituzionale delle Corporazioni (i sindacati di stato dell’epoca). La cosa interessante è che si riesce ad equiparare il ruolo della amministrazione pubblica, istitutivamente deputata al perseguimento di interessi generali, a quello di organizzazioni (addirittura citate per prime, forse in segno di ulteriore deferenza) costitutivamente dedite al perseguimento di interessi di parte (anche se vedono poi sempre garantite le loro pretese di prendere decisioni che riguardano e vincolano tutti). In ogni caso, si deve dedurre che è dichiarato autoritativamente un “interesse generale” a distacchi sindacal-feudali di questo o quell’altro, a permessi sindacali - corvee nei confronti degli altri dipendenti in quantità e numero sempre più incalcolabile e probabilmente non sottoposto ad alcun vincolo né controllo, a privilegi e immunità varie, a nullafacenze garantite e riverite, senza possiibilità di ribellione alcuna di chi ne subisce il contraccolpo e le conseguenze immediate. E guai a lamentarsi, perché questo genera nel “personale” un “sentimento di disagio”: dunque – finalmente si è riusciti a capirlo! - il “disagio” diffuso tra il personale dipende dal fastidioso rumore del lamento dei poveri dannati, non certo – giammai! – dal dover sopportare il carico lavorativo ulteriore delle nullafacenze degli intoccabili feudatari...! Complimenti davvero: il lupo e l’agnello della favola di Esopo/Fedro erano al confronto la rappresentazione dilettantesca di un malinteso tra due amiconi!
E’ interessante e degno di nota – a conclusione dell’analisi del testo – il finale accostamento dei termini usato nell’espressione “attivià lavorativa e sindacale”: quasi a ribadire, d’imperio, che le due attività sono tra loro equiparate (se va bene) e parimenti meritevoli (anche i signori feudali proprietari dei latifondi sostenevano spesso di esserlo rispetto ai loro schiavi), e guai a chi abbia l’ardire di osare ancora metterlo in dubbio o evidenziare come, da un’analisi dei comportamenti concreti e reali, le due situazioni appaiano poco compatibili tra loro… Gli agnelli e i lupi, le formiche e le cicale (che peraltro mi pare siano dello stesso colore delle cimici…) sono uguali e devono essere grandi amici, guai a dubitarne!
Ma, tutto ciò chiarito, non si può non evidenziare come sia – questo sì – insultante e denigratorio, oltre che scorretto, accostare o anche solo equiparare il riferimento ad atti ed episodi censurabilissimi da qualunque serio democratico con la deplorazione (di comodo? E, se tale, “comodo” di chi?) nei confronti di una legittima campagna democratica e civile, quasi a volere evocare o suggerire un legame o anche solo un’affinità tra le due situazioni che niente hanno a che fare l’una con l’altra. Tanto più è insultante, poi, se fatto con l’autorevolezza di una carica che dovrebbe essere, su tali vicende, super partes, altro che “tolleranza”… “aborro le tue idee ma sono disposto a lottare fino alla morte per difendere il tuo diritto a esprimerle”, questa è la TOLLERANZA come nei secoli si è configurata ed imposta, contro sovrani paternalistici e ossequiosi con quelli più potenti di loro, ordini e signori feudali, gerarchie aristocratiche e curtensi, gerarchie clericali, gerarchie corporative e corporazioni stesse… contro i privilegi di alcuni imposti sulla pelle di altri…contro tutto questo alcuni coraggiosi uomini liberi hanno lottato, pagando prezzi più o meno alti e spesso altissimi, per strappare, radicare e difendere la TOLLERANZA, quella di J. Locke e di Voltaire… non quella che imporrebbe al più debole di tollerare i soprusi del più forte, a Giordano Bruno di tollerare la congregazione degli Inquisitori e il Collegio dei cardinali, e magari a Pietro Ichino di tollerare coloro che vorrebbero fargli fare la fine di Massimo D’Antona e Marco Biagi. Una “tolleranza” così intesa e sbandierata ricorda, piuttosto che il nobile ideale di cui si usurpa il nome, molto più da vicino quella delle case di tolleranza: ecco, effettivamente, oltre alle cupole e alle cappelle, mancava ad una pubblica amministrazione che tali prove dà di sé l’evocazione delle case di tolleranza… certo, che a fare da maitresse potessero esserci (per scelta e forse proprio per vocazione) anche rispettabili signori di sesso maschile era comunque difficile, anche per le menti più fertili, immaginarlo…
Solo chi ha, in realtà, poco a che fare con la cultura della Tolleranza può confondere quest’ultima con la accondiscendenza nei confronti dei profittatori e con la difesa e la conservazione delle posizioni di forza e di privilegio, o magari con il “tirare a campare”, con il “per quieto vivere”, o peggio – se si tratta di un luogo di lavoro e di una struttura composta di soggetti che dovrebbero avere tutti pari dignità civile e pari obblighi lavorativi - con il lassismo nei confronti di nullafacenti e loro protettori o fiancheggiatori; traducendola in (si spera, ancora, solo metaforici) colpi di frusta nei confronti dei servi della gleba che devono continuare a lavorare anche al posto dei tanti feudatari e a farlo tacendo – guai a permettersi di protestare ! -, perché così vuole, esige e “proclama” (in questo caso sì, è la parola giusta) il Vescovo, non più in odor di eresia (1), ma forse – se continuerà a dare prove ulteriori di sottomissione - sulla via della riabilitazione che solo una Cappella legittimata con la forza istituzionale che egli stesso continua ad attribuirle potrà evidentemente elargirgli…
E’ allora chiaro, a questo punto, che - da democratici, illuministi e convinti assertori della Tolleranza (non quella delle case… che pure, da altri punti di vista e in altri contesti, può non essere spiacevole) – lo slogan non può che essere, a malincuore: “abBasso la cappella sindacale (e chi la lecca)!”
(1) vedi post precedente.
“…non rientrerà nei diritti dei magistrati servirsi della forza per imporre il proprio giudizio su qualcosa che non risulti deleterio alla conservazione e al benessere della società” (J. Locke, 3a Lettera sulla Tolleranza, 1692).
Serviva una “prova provata” (in realtà, l’ennesima) dell’esistenza di una poco mirabile Cappella (sindacale) presso la Marca Malpensante (ormai nota ai più come “La Cappella Bassina”, e non per l’altezza delle sue volte)? Ebbene, è notizia di questi giorni “elettorali” il rinvenimento – in forma scritta – di un Editto Vescovile a suo inequivocabile favore.
Da un esame complessivo dei fatti riferiti, appare chiaro che il documento si colloca in epoca contrassegnata, da una parte, da schermaglie (superficiali) tra feudatari di sotto-vertice e vassalli in apparente lotta tra loro (ma le fonti storiche concordemente riferiscono di saldissime e unanimi alleanze, tese alla conservazione dell’ordine sociale feudale, obiettivo che emerge chiarissimo dalle disposizioni vescovili contenute nel documento) e, dall’altra, da un blasfemo tentativo di rivolta di un piccolo numero di villani servi della gleba, oggetto di condanna, di velate minacce di scomunica, e a cui soprattutto si coglie l’occasione di imputare, meno velatamente, le piccole devastazioni compiute da qualche sotto-vassallo nell’ambito delle schermaglie tra i feudatari o aspiranti tali: quale miglior capro espiatorio? Come non cogliere l’opportunità di guadagnare un qualche credito presso feudatari e cappellani? Peccato manchino gli elementi per istituire un bel processo inquisitoriale con tanto di rogo finale… Sarà magari per un’altra occasione…L’accusa, pur configurata, di “Lesa Sindacalità” da sola pare (ancora) non bastare…
Tentativo di lettura in chiave contemporanea. Ovvero, come si deve rispondere (seriamente) all’accusa (culturalmente fascista, in senso proprio) di “Lesa Sindacalità” Corporativa.
Si deve iniziare col chiedersi, di grazia (sindacale), dove sussistano le “espressioni denigratorie” e perché mai (e per chi) esse sarebbero “sconvenienti”; a meno che affermare che “il re è nudo” - o, meglio, i feudatari sono nudi, tutti! - al cospetto di chi sia effettivamente tale non debba essere considerato “denigratorio” e “sconveniente” (bisogna sempre capire a chi); l’alternativa, poi, quale sarebbe? Continuare tutti insieme a fingere beatamente (per loro) che i sovrani sindacali, i loro feudatari locali e i rispettivi vassalli siano di tutto punto vestiti? E continuare – approfittando magari di tale non dichiarata e non disvelabile nudità - a farsi prendere per il culo (magari andando ben oltre lo ius primae noctis) e, in più, a pagare gioiosamente (e ipocritamente) la decima? Un simpatico contemporaneo sindacalista “Rivoluzionario” – ma evidentemente continuatore dichiarato di questa scuola di pensiero - ha perfino affermato, in una recente assemblea, che lavorare di più è più gratificante, quindi chi lo fa è privilegiato rispetto a chi lavora di meno o è nullafacente, dunque non ha bisogno di guadagnare di più rispetto a quest’ultimo e deve essere appagato dal solo fatto di avere questa fortuna…
Si gradirebbe poi, proseguendo nell’esame del testo, riuscire a capire (perché proprio non se ne scorge traccia) su quali basi si possa definire “il perseguimento e la tutela dell’interesse generale” come “obiettivo comune di Organizzazioni Sindacali e Amministrazione”: la “Carta del Lavoro” emanata dal regime fascista al suo apice (1927), testo base del corporativismo moderno, forse non arrivava a tanta chiarezza elogiativa nel definire il ruolo istituzionale delle Corporazioni (i sindacati di stato dell’epoca). La cosa interessante è che si riesce ad equiparare il ruolo della amministrazione pubblica, istitutivamente deputata al perseguimento di interessi generali, a quello di organizzazioni (addirittura citate per prime, forse in segno di ulteriore deferenza) costitutivamente dedite al perseguimento di interessi di parte (anche se vedono poi sempre garantite le loro pretese di prendere decisioni che riguardano e vincolano tutti). In ogni caso, si deve dedurre che è dichiarato autoritativamente un “interesse generale” a distacchi sindacal-feudali di questo o quell’altro, a permessi sindacali - corvee nei confronti degli altri dipendenti in quantità e numero sempre più incalcolabile e probabilmente non sottoposto ad alcun vincolo né controllo, a privilegi e immunità varie, a nullafacenze garantite e riverite, senza possiibilità di ribellione alcuna di chi ne subisce il contraccolpo e le conseguenze immediate. E guai a lamentarsi, perché questo genera nel “personale” un “sentimento di disagio”: dunque – finalmente si è riusciti a capirlo! - il “disagio” diffuso tra il personale dipende dal fastidioso rumore del lamento dei poveri dannati, non certo – giammai! – dal dover sopportare il carico lavorativo ulteriore delle nullafacenze degli intoccabili feudatari...! Complimenti davvero: il lupo e l’agnello della favola di Esopo/Fedro erano al confronto la rappresentazione dilettantesca di un malinteso tra due amiconi!
E’ interessante e degno di nota – a conclusione dell’analisi del testo – il finale accostamento dei termini usato nell’espressione “attivià lavorativa e sindacale”: quasi a ribadire, d’imperio, che le due attività sono tra loro equiparate (se va bene) e parimenti meritevoli (anche i signori feudali proprietari dei latifondi sostenevano spesso di esserlo rispetto ai loro schiavi), e guai a chi abbia l’ardire di osare ancora metterlo in dubbio o evidenziare come, da un’analisi dei comportamenti concreti e reali, le due situazioni appaiano poco compatibili tra loro… Gli agnelli e i lupi, le formiche e le cicale (che peraltro mi pare siano dello stesso colore delle cimici…) sono uguali e devono essere grandi amici, guai a dubitarne!
Ma, tutto ciò chiarito, non si può non evidenziare come sia – questo sì – insultante e denigratorio, oltre che scorretto, accostare o anche solo equiparare il riferimento ad atti ed episodi censurabilissimi da qualunque serio democratico con la deplorazione (di comodo? E, se tale, “comodo” di chi?) nei confronti di una legittima campagna democratica e civile, quasi a volere evocare o suggerire un legame o anche solo un’affinità tra le due situazioni che niente hanno a che fare l’una con l’altra. Tanto più è insultante, poi, se fatto con l’autorevolezza di una carica che dovrebbe essere, su tali vicende, super partes, altro che “tolleranza”… “aborro le tue idee ma sono disposto a lottare fino alla morte per difendere il tuo diritto a esprimerle”, questa è la TOLLERANZA come nei secoli si è configurata ed imposta, contro sovrani paternalistici e ossequiosi con quelli più potenti di loro, ordini e signori feudali, gerarchie aristocratiche e curtensi, gerarchie clericali, gerarchie corporative e corporazioni stesse… contro i privilegi di alcuni imposti sulla pelle di altri…contro tutto questo alcuni coraggiosi uomini liberi hanno lottato, pagando prezzi più o meno alti e spesso altissimi, per strappare, radicare e difendere la TOLLERANZA, quella di J. Locke e di Voltaire… non quella che imporrebbe al più debole di tollerare i soprusi del più forte, a Giordano Bruno di tollerare la congregazione degli Inquisitori e il Collegio dei cardinali, e magari a Pietro Ichino di tollerare coloro che vorrebbero fargli fare la fine di Massimo D’Antona e Marco Biagi. Una “tolleranza” così intesa e sbandierata ricorda, piuttosto che il nobile ideale di cui si usurpa il nome, molto più da vicino quella delle case di tolleranza: ecco, effettivamente, oltre alle cupole e alle cappelle, mancava ad una pubblica amministrazione che tali prove dà di sé l’evocazione delle case di tolleranza… certo, che a fare da maitresse potessero esserci (per scelta e forse proprio per vocazione) anche rispettabili signori di sesso maschile era comunque difficile, anche per le menti più fertili, immaginarlo…
Solo chi ha, in realtà, poco a che fare con la cultura della Tolleranza può confondere quest’ultima con la accondiscendenza nei confronti dei profittatori e con la difesa e la conservazione delle posizioni di forza e di privilegio, o magari con il “tirare a campare”, con il “per quieto vivere”, o peggio – se si tratta di un luogo di lavoro e di una struttura composta di soggetti che dovrebbero avere tutti pari dignità civile e pari obblighi lavorativi - con il lassismo nei confronti di nullafacenti e loro protettori o fiancheggiatori; traducendola in (si spera, ancora, solo metaforici) colpi di frusta nei confronti dei servi della gleba che devono continuare a lavorare anche al posto dei tanti feudatari e a farlo tacendo – guai a permettersi di protestare ! -, perché così vuole, esige e “proclama” (in questo caso sì, è la parola giusta) il Vescovo, non più in odor di eresia (1), ma forse – se continuerà a dare prove ulteriori di sottomissione - sulla via della riabilitazione che solo una Cappella legittimata con la forza istituzionale che egli stesso continua ad attribuirle potrà evidentemente elargirgli…
E’ allora chiaro, a questo punto, che - da democratici, illuministi e convinti assertori della Tolleranza (non quella delle case… che pure, da altri punti di vista e in altri contesti, può non essere spiacevole) – lo slogan non può che essere, a malincuore: “abBasso la cappella sindacale (e chi la lecca)!”
(1) vedi post precedente.
2 commenti:
Trovo molto interessanti i concetti da te espressi e i riferimenti a voltaire e a locke: la tolleranza è questa, non quell'altra che hai descritto in contrapposizione.
ma dai !!!
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